L’immagine è tratta dal frontespizio de «I miei sette figli» di Alcide Cervi e R.Nicolai. Editori Riuniti (prima edizione 1980) |
UNA PREMESSA GENERALE
Non fu
guerra civile
Per quanto ne
sappiamo, i Terrasinesi impegnati nella lotta partigiana, furono diversi per numero. Tutti, a seconda delle circostanze, dei
luoghi e delle Formazioni
nelle quali operarono, offrirono il loro prezioso contributo per la Libertà. Nessuno
di loro è ormai più in vita. Ciascuno di loro, in ogni caso, resta nei pensieri
di familiari, compagni ed amici.
Lasciateci tuttavia
ricordare, in modo particolare, tre personaggi con i loro tratti umani, e rievocarne
brevemente le vicende personali ormai inscritte nella Storia, perché continuino
a restare nella memoria di ognuno, soprattutto dei nostri giovani e
giovanissimi.
Prima, però -anche alla luce di recenti tentativi di legiferare per estendere i benefici di legge ai militi della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), equiparando chi si alleò con i nazisti a chi li ha combattuti-, ci preme ribadire, sia pur sinteticamente, che non fu guerra civile, come vorrebbero accreditare certi revisionisti dell’ultima ora che pongono sullo stesso piano, appunto, la così detta R.S.I. (pensata, voluta e innestata dai nazisti a Salò dopo l’8 settembre), e il moto popolare libero e spontaneo della Resistenza che non fu fenomeno solo italiano, né soltanto cre-pitio d’armi. Non fu guerra civile per la semplice ragione che fu innanzitutto Lotta di Liberazione dai nazisti e dai collaborazionisti fascisti; nazisti che -non dimentichiamolo- occuparono sin dal settembre del ‘43 l’Italia, massacrando e umiliando le nostre popolazioni, i nostri soldati. Fermiamoci un po’, allora, ad immaginare cosa ne sarebbe oggi dell’Italia, del- l’Europa, del Mondo con gli eredi di Hitler imperanti…!
Infine, ma
non ultimo per importanza, fu lotta di riscatto dall’onta delle leggi razziali an-tiebraiche (1938),
volute da Mussolini in ossequio a Hitler, con la controfirma di Vittorio
Emanuele III e col sostanziale silenzio del Vaticano.
Certo, c’è
pure un’altra questione connessa alle altre, appartenente alla sfera emotiva,
che ciclicamente ritorna: ci riferiamo all’umana pietà per tutti i caduti. Non la si può disconoscere, ma
neppure considerarla più di tanto sul piano prettamente storico.
Non può confondersi cioè con l’e-quiparazione:
c’è chi cadde, scegliendo consapevolmente di combattere per la libertà e la
democrazia, e chi, al contrario, si schierò scientemente con la barbarie,
prestandosi attivamente e lucidamente alle turpitudini naziste. A meno che non
ci si voglia riferire a quanti -e furono molti-
popolarono variamente la così detta zona grigia,
quella, per intenderci, degli “ingannati”: donne, uomini e soprattutto giovani,
imbrogliati dalla sciagurata propaganda del mito della razza pura, della
giovinezza perenne, della sciagurata ideologia imperialista. Solo tra questi
ultimi, per gli ingannati,
appunto, può forse nutrirsi umana (e privata) pietà. Ma come distinguere gli inconsapevoli dai consapevoli? Questo solo Dio -se c’è- potrà farlo, ma di sicuro c’è la
Storia che è altra cosa: non la si può prendere
a spicchi o riscriverla secondo le proprie emozioni o convenienze.
Per questo
oggi, visto l’andazzo, dobbiamo più che mai guardare alla radice della nostra
Democrazia: la Costituzione, nata dalla Resistenza.
giuru
Terrasinesi nella Resistenza,
per la libertà!
GIACOMO SAPUTO
Nella foto (unica
esistente) aveva 17 anni.
Conosciuto tra i
monti delle Marche col nome di battaglia “Giacomo il Siciliano”.
Nato nel 1924 da
modesta famiglia contadina, partecipò, fin dalla sua formazione, all’attività
del Gruppo armato di Tolentino (Marche) Cittadina di antiche tradizioni
democratiche cui Sandro Pertini conferì la Medaglia d’Oro al Valore Militare
della Resistenza.
Aveva appena
vent’anni quando, il 22 marzo del 1944, cadde a Montalto (Frazione di Tolentino), assieme ad altri 26 compagni
fucilato dai nazi-fascisti durante un rastrellamento. Il plotone d’esecuzione
era composto da due tedeschi e tre fascisti.
Poco meno di vent’anni fa, in paese, si è conosciuta l’esatta
vicenda di Giacomo. I parenti conoscevano pochi particolari della sua morte in
guerra, nelle Marche. Alla fine degli Anni Ottanta, dalla Sezione ANPI
(Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Tolentino (grosso Centro delle
Marche) pervenne al Comune di Terrasini, una richiesta di notizie sui parenti
più prossimi di Giacomo: se ne richiedeva una foto da apporre sulla sua tomba.
Si seppe così della storia e del suo eroico sacrificio. Negli anni successivi (tra
il ‘94 e il ‘96), una comitiva di ex partigiani di Tolentino venne in visita a Terrasini,
familiarizzando con i parenti di Giacomo ed esponenti politici locali della
Sinistra. Ogni anno, nella ricorrenza dell’eccidio di Montalto (22 marzo),
amici e familiari sono invitati a Tolentino dall’ANPI e dal Comune di antiche
tradizioni democratiche.
ALCUNI BRANI SU GIACOMO TRATTI DA «PASSATO
PROSSIMO» DELLO STORICO DELLA
RESISTENZA TOLENTINATE ENZO CALCATERRA.
Montalto. Il monumento sul luogo dell'eccidio |
«Dopo quasi mezzo
secolo, la tomba di un giovane partigiano siciliano caduto a Montalto ha potuto
finalmente avere un ritratto. È il volto di un ragazzo morto per la nostra
libertà, lontano dalla sua terra, diventato col suo sacrificio nostro fratello
per sempre… Poco o nulla si sa di lui. Sulla sua tomba, senza neppure una foto,
raramente qualcuno deponeva un fiore. Appena ventenne, condivise la sorte di
moltissimi giovani di leva che l’8 settembre aveva inchiodato lontano da casa,
in Italia e all’estero».
Su
“Giacomo il Siciliano” restano solo brandelli di memoria: «Era
un ragazzo introverso, taciturno, che si teneva le sue nostalgie e la sua
solitudine dentro con grande dignità», racconta Alvaro Bolognini, partigiano
del Gruppo tolentinate. «Pronto in qualsiasi momento, dove occorressero spalle
forti e coraggio a tutta prova, senza mai chiedere sconti per sé». «Un ragazzo
d’oro» -aggiunge Elso Brandi, veterano del gruppo-. Un coraggio da leone, pronto
a dare tutto. Se non c’era cibo a sufficienza, rinunciava alla sua parte, senza
mai risparmiarsi».
Tolentino ha
avuto tra i caduti per la sua libertà quattro siciliani: il leggendario comandante
Emanuele Lena, Salvatore
Ficili, Pino Guerrieri e Giacomo Saputo… Se nel Centro-Nord e all’estero
moltissimi furono i meridionali in prima linea come partigiani e comandanti, tra loro i Siciliani occupano senza dubbio
un posto di rilievo. Più che
parlare di “Resistenza” in Sicilia e nel Sud d’Italia, dunque, va sottolineato
il ruolo della Sicilia nella Resistenza Italiana».(N.d.R.: è singolare notare come spesso,
tra i partigiani siciliani, ricorresse il nome di battaglia “il Siciliano”,
come a voler sottolineare un tratto distintivo, un picco d’orgoglio, un
sottolineare “…ci siamo anche noi”). «Richiamato alle armi nel maggio del
1943 fu assegnato a S. Severino Marche (MC) in forza al 5° Reg.to fanteria
“Aosta”. Dall’ottobre successivo entrò a far parte del gruppo armato tolentinate, partecipando a tutta la sua attività. Catturato a Caldarola
il 19 marzo del ’44, fu fucilato a Montalto il 22 successivo».
«Le frazioni di
Montalto e Vestignano furono teatro, il 22 marzo del ’44, di una strage compiuta
dai nazifascisti nel corso di una vasta azione di rastrellamento che interessò in quel periodo
l’Alto maceratese. Fin dagli ultimi mesi del ’43 molti giovani provenienti da Tolentino e dalle località
vicine si erano raccolti nelle Frazioni
(circostanti). Intanto iniziava nel settore a ridosso dell’Appennino
umbro-marchigiano l’attività di numerosi gruppi armati. Nel marzo del ’44 fu quindi deciso dalle autorità nazifasciste
di attaccare in forze la zona. Un consistente numero di giovani e giovanissimi,
che stavano in attesa di armi ed
organizzazione, fu sorpreso da un reparto misto di fascisti e tedeschi. Alcuni
giovani caddero nel tentativo di sfuggire all’accerchiamento, mentre il resto
dei catturati fu allineato lunga la strada che conduce a Montalto. Nella tarda
mattinata iniziò la fucilazione, che fu immediatamente eseguita su gruppi di quattro
o cinque da un plotone d’esecuzione improvvisato…».
Il punto esatto in cui fu fucilato G. Saputo (foto scattata alcuni giorni dopo l'eccidio) |
PIETRO GALATI
Medaglia d’Argento
Pietro
Galati nacque nel 1921. Apparteneva ad
una famiglia numerosa di laboriosi artigiani. A 19 viene richiamato al fronte, soldato
nel Regio Esercito. Dopo l’8 settembre si sbanda, così come tantissimi rimasti
senza comando nella drammatica incertezza seguita all’armistizio. Entra a far
parte delle formazioni partigiane che operano tra Liguria e Piemonte, in particolare
col Comandante Gino Cacchioli (detto Beretta). Il nome di battaglia di Galati
fu “Pietro il Siciliano”. Fece parte della Formazione cattolica «Cento croci
per la Resistenza». Celebre, tra l’altro, l’impresa di cui fu protagonista sul fiume Taro.
Un eccezionale atto
di coraggio che gli valse la Medaglia d’Argento
della Resistenza al Valor Militare.
Vogliamo qui
ricordarlo, riportando alcuni brani tratti dal volume di Camillo Del Maestro
«Cento croci per la Resistenza».
Pietro Galati: «Mi sono arruolato coi partigiani nel
marzo ’44 con la “Centocroci”. Un episodio interessante l’ho vissuto nella
presa di Ostia. Comandavo una compagnia. Non riuscivamo a stanare i tedeschi e
gli uomini volevano farsi sotto, ma l’ordine era di attendere. Poi improvvisamente
ci siamo trovati fuori tiro e abbiamo centrato col “bazooka” una postazione di
mitragliatrice su una finestra e ci è stato possibile far fuori tutto il
reparto rintanato nella casa-fortezza. Abbiamo scovato il cap. Allan rintanato
nella cantina intento a bruciare documenti e denaro: si aspettava che lo
facessimo fuori, secondo quello che andava dicendo di noi la propaganda
nazi-fascista; gli abbiamo semplicemente sostituito gli stivali lucidissimi con
un paio di scarpe sfondate di un nostro partigiano…».
LUNGO LE SPONDE DEL TARO, 28
APRILE 1945
«…Continuano
frattanto gli scontri delle pattuglie. Alle 11 due distaccamenti, quelli di Piero il Siciliano e di Dario (detto Castagnoli), prendono
all’insaputa del comando l’iniziativa di attraversare il Taro all’altezza
dell’attuale bivio d’inizio della Fondovalle e, non trovando resistenza, si
addossano alla scarpata della linea ferroviaria… oltre al quale si avvertono
rumori confusi. Nell’incoscienza dei vent’anni i due comandanti decidono di tentare
l’azione di forza allettati dal lauto bottino di prigionieri, ma arrivati in
piedi tra i binari lo scenario che li attende è di una dimensione impossibile:
migliaia di uomini in armi sono ammassati in un groviglio indescrivibile di
automezzi e cavalli. Fortunatamente i tedeschi non sparano e si genera una
mischia fatta coi fucili usati come clave e, appena possono i partigiani, senza
subire perdite, si rigettano nel greto del Taro e guadagnano la base. Soltanto
Piero il Siciliano resta coinvolto e isolato nella rissa, ma con sangue freddo
afferra un maresciallo alle spalle e con la pistola puntata alla nuca lo
costringe a salire su una delle tante autovetture disseminate lungo la strada e
a pilotarlo verso il centro e poi il ponte, arrivando fra i commilitoni
sbigottiti col prigioniero…».
"Comandanti a rapporto" si legge nella didascalia del libro "Centocroci ...". Galati al centro indicato dalla freccia |
La libertà vive finché vivono coloro i quali sperimentarono la
tirannide.
Polibio
Edizione clandestina dell'ottobre del 1943 |
Salvatore Palazzolo
Nacque nel 1921 da famiglia di contadini e
piccoli allevatori. Fin da ragazzo non si risparmia nel lavoro. Ben piantato, sveglio
di testa e svelto di mano, lo dimostrerà a vent’anni quando, inviato sul fronte
Jugoslavo con le truppe d’occupazione italiane, dopo l’armistizio dell’8
settembre del ’43, di fronte alle prepotenze ed ai soprusi delle camicie nere colà
inviati, scappa, entrando nelle formazioni partigiane jugoslave guidate dal Maresciallo
Tito (Josip Broz) che avrebbe presto riunito, in un’unica Repubblica
Confederale Socialista, le varie etnie che popolavano (e popolano) il teritorio
Jugoslavo.
Salvatore Palazzolo, noto in paese col
soprannome di Turi-Turé (così veniva chiamato da un allevatore di bestiame
presso cui da ragazzino lavorava come aiutante) divenne famoso tra i partigiani
jugoslavi per l’eccezionale coraggio, la generosità e la schiettezza dei suoi
modi. Sul campo di battaglia conobbe personalmente il leggendario Maresciallo Tito
che lo abbracciò fraternamente per il coraggio e la prontezza dimostrati,
promuovendolo sul campo “Maresciallo”. Josip Broz Tito, dunque: lo stesso
dinanzi al quale sfilarono i Grandi di tutto il mondo alla sua morte avvenuta
nel maggio del 1980. Nel 1971, dopo ripetuti inviti da parte del Governo
Jugoslavo (Tito ancora in vita), ritirò l’alta onorificenza ufficiale (che a
parte riproduciamo) per gli altissimi meriti conseguiti nella lotta di Resistenza
contro il nazi-fascismo.
Salvatore Palazzolo è morto nel sonno il 21
marzo del 2008 all’età di 83 anni. Solo il giorno prima aveva falciato l’erba
nel suo podere. Nonostante l’età, non stava mai inoperoso. Forse i postumi di
un’influenza gli sono stati fatali. Negli ultimi tempi, come a voler
patteggiare con la morte, andava ripetendo nel suo colorito dialetto,: «Pi
cuomu mi curcu vogghiu agghiurnari» (quando giungerà “l’ora”, spero solo di
morire nel sonno senza soffrire o dar fastidio ai miei).
Come s’è visto, è stato puntualmente accontentato,
mentre non si è fatto in tempo a raccogliere in modo organico il
racconto della sua esperienza di partigiano (storia conosciuta da sempre in
modo frammentario). Ma, per fortuna, Enrico
Musso ci ha pensato in tempo, registrando compiutamente la sua vicenda (pubblicata tra i primi post del blog nei mesi trascorsi).
Filippo Viviano
Filippo Viviano
Filippo Viviano a 21 anni in una foto ricordo in posa in uno studio fotografico di La Spezia, qualche settimana dopo la fine della guerra.
Di famiglia contadina, nacque a Terrasini il 1° settembre del 1922. Dalle scarne notizie raccolte, si sa che dopo l’8 settembre si arruolò in una delle tante Formazioni garibaldine operanti in Liguria, nell’entroterra spezzino. Audace e generoso, si racconta di lui che, avendo saputo di un imminente rastrellamento sui monti di La Spezia, nonostante fosse febbricitante, riuscì a raggiungere i suoi compagni per avvisarli in tempo del pericolo. Subito dopo la guerra fu dato per disperso, ma grande fu l’emozione dei parenti quando lo videro spuntare dal nulla sano e salvo. Per i suoi meriti gli fu offerta dal governo di allora la possibilità di arruolarsi nella Polizia di Stato, ma rifiutò preferendo il lavoro di contadino. Fu sempre fiero della sua esperienza di partigiano tanto che a Terrasini tutti lo conoscevano come “U Partigianu”. Provò pure la triste e dura esperienza dell’emigrazione in Francia dove, purtroppo, fu dolorosamente segnato dalla morte di un figlio in un incidente stradale di cui non riuscì più risollevarsi. Ritornato a Terrasini, morì tragicamente nell’agosto del 1980.
(Schizzo) Pompeo Colajanni, di una prestigiosa famiglia palermitana, leggendario comandante partigiano in Piemonte |
LA GUERRA DI PIERO
(di F. De André)
che ti fan veglia
dall’ombra dei fossi
ma sono mille
papaveri rossi.
«Lungo le sponde
del mio torrente
voglio che
scendano lucci argentati,
non più cadaveri
dei soldati
portati in braccio
dalla corrente».
(……………………)
… Cadesti a terra
senza un lamento
e ti accorgesti in
un solo momento
che la tua vita
finiva quel giorno
e non ci sarebbe
stato ritorno.
Ninetta mia,
crepare di maggio
ci vuole tanto,
troppo coraggio…
…E mentre il grano
ti stava a sentire
dentro le mani
stringevi il fucile,
dentro a la bocca
stringevi parole
troppo gelate per sciogliersi al sole
troppo gelate per sciogliersi al sole
(....................)
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