sabato 14 aprile 2012

I PAPAVERI DEL PROFESSORE

 di Giuseppe Ruffino






        Fra pochi giorni ricorre l'anniversario del "25 Aprile", data simbolo della Liberazione dal nazifascismo. Per questo ho pensato di inserire il lungo racconto che scrissi nel 1998, poi pubblicato nel 2000 dall'EDITORE COPPOLA. Non l'avrei riproposto sul blog se, al di là della storica ricorrenza, la narrazione non si fosse profondamente ispirata alla realtà terrasinese dell'immediato dopoguerra. 


  Nel 1999, col titolo originario La Resistenza di Pietro, lo presentai al Concorso Nazionale Anteka Erice, ottenendo il 1° Premio assoluto per la narrativa. Oggi, a distanza di tanti anni, ho provato in alcune parti a rimodularne lo stile, lasciandone del tutto immutato l'intreccio narrativo. 



Nota introduttiva

Sul finire degli Anni Sessanta, quasi ventenne, conobbi un uomo sanguigno, concreto, senza fronzoli. La sua personalità mi colpì immediatamente. Mi piaceva il suo modo di parlare e, soprattutto, mi affascinavano i suoi racconti di vita vissuta da partigiano fra le montagne e le valli piemontesi.
È a lui e alla sua audace impresa, infatti, che mi sono ispirato.

Si chiamava Pietro Galati (“Alati” in dialetto) e aveva fatto ritorno in Sicilia dopo un lunghissimo periodo trascorso a lavorare, sin dall’immediato dopoguerra, tra le fabbriche di Torino, essendo là rimasto fin dopo la Liberazione.
A Terrasini ci accomunò l’impegno politico nel PCI, quando l’aria che si respirava, le passioni e gli ideali, erano in generale di livello ben diverso rispetto all'oggi!
Da allora sembra siano passati cent’anni. E invece, dal 1980, quando fu stroncato da un infarto, ne sono trascorsi solo venti. (NdA: alla data di oggi trentadue).
Con Pietro “Alati”, dunque, potevo per la prima volta uscire dalle letture più o meno rievocativo-oleografiche sulla Resistenza, ritrovandomi gomito a gomito con un esempio vivente di autentico ex partigiano, per di più Medaglia d’Argento al Valore.

Custodisco gelosamente l’audiocassetta della sua voce che, senza enfasi o autoesaltazione, spiega ai bambini la Resistenza in Piemonte, raccontando la sua straordinaria impresa lungo le sponde del Taro. In prossimità del 25 Aprile 1979, un anno prima che morisse, lo avevo infatti invitato a scuola tra i miei alunni di quinta elementare e lui, con quell’impegno civile che lo distingueva, s’era volentieri sottoposto alle loro domande, rispondendo con assoluto distacco.
Oggi, col pensiero rivolto al futuro, voglio continuare a sperare che i miei “papaveri” di allora ne conservino ancora intatta memoria.

Terrasini, 1999

 
Prefazione
di Vito Mercadante
        
“I papaveri del professore”, opera prima di Giuseppe Ruffino, attraverso una struttura complessa che lega due vite, appartenenti a due generazioni contigue, ha come fine, dolorosamente accettato, il tramonto in Sicilia di un momento epico che aveva fatto sperare gli uomini più pensosi e più impegnati sull’onda del movimento contadino teso a strappare la terra ai baroni e alla mafia.
Diverse sono in questi giorni le opere che trattano lo stesso tema con la stessa amarezza che non è affatto quella soggettiva e lirica, che la scuola idealistica vuole vedere come scaturigine della poesia, perché, al contrario, questo struggimento per una speranza delusa nasce da fatti oggettivi.
A questo punto si può pensare che, per quanto validamente storici, questi lavori letterari operano nella mente dei lettori in maniera negativa, lasciando in essi la precisa idea che la Sicilia sia irredimibile.
No, al contrario, essi vogliono, forse con un suggerimento sotterraneo, sollecitare la parte migliore della gente siciliana ed italiana.
Non fa certamente eccezione a questa categoria di libri l’opera di Ruffino che rappresenta, senza voglia di visibilità, un personaggio impegnato come educatore e come politico, un continuatore della grande tradizione di maestri elementari come Lorenzo Panepinto e come Sebastiano Figlia, tesi a dare dignità europea alla nostra Isola.
Il professore Placido Alati, protagonista di questo romanzo, di fronte all’apatia dei suoi alunni di un liceo di Palermo, pensa con avvedutezza didattica ed educativa, di accantonare il programma di storia e di assumere come tema delle lezioni una provocazione, come quella di narrare loro la vicenda di un suo zio, Pietro, uno sbandato del disfacimento della IV Armata del generale Vercellino, che con un’ottima e civile scelta di campo, nell’ottobre del ‘43, entra a far parte di una brigata partigiana. È una provocazione perché in quella storia, apparentemente iscritta nel momento e nello spazio, è il nodo non soltanto della storia d’Italia, ma anche della Sicilia. Vogliamo ricordare, ad esempio, il forte significato assunto dalla scelta del nome di battaglia fatta da Pompeo Colajanni: “Barbato” a ricordo del grande protagonista dei Fasci siciliani che non furono in grado di risolvere l’annoso problema della rottura del feudo, causa dell’arretratezza siciliana, per la forza della mafia e del potere centrale che anticipò con il blocco della democrazia la dittatura fascista.
Così per i siciliani, non certamente tutti, che vissero quella avventura, si apriva la necessità di un’altra battaglia, quella da condurre contro il feudo e la mafia per continuare e dare senso alla lotta partigiana intrapresa nel Nord.
         Per il professore Alati, allora, affrontare questo tema di discussione, significa legare la storia, quella fastidiosa disciplina, poco recepita nei suoi valori dagli alunni, alla realtà in seno alla quale vivono. Educazione civica, memoria e studi si legano assieme e rappresentano una forte scelta come motivazione nei confronti dell’impegno scolastico, della vita.
E già la stessa immaginazione di una tale struttura narrativa è segno di poesia. Ma essa si manifesta anche nella sapienza con cui viene studiato ed espresso con realismo il rapporto che s’instaura fra il partigiano Alati ed i suoi compagni, fra il siciliano sanguigno e violento ed i compagni continentali riflessivi e rispettosi delle norme e degli ordini del Comitato di Liberazione Nazionale.
Pietro, nome di battaglia “Pescatore”, non tollera che tipi come la “Belva”, ferocissimo comandante repubblichino a causa di una ideologia vissuta visceralmente, vengano trattati come prigionieri di guerra; vuole la loro liquidazione fisica secondo la legge del taglione.
Tutti i compagni si schierano contro di lui, perfino la dolce Rita, ma lui pensa di fare il suo dovere, che è quello molto sentito dai siciliani, di far provare al reprobo la sensazione dell’indegnità umana cui s’era per scelta piegato.
Il “Pescatore”, dopo un cammino lunghissimo a piedi e con mezzi di fortuna, ritorna in Sicilia per cambiare le cose dopo l’avventura storica fortemente vissuta nel Nord. Ma farà una brutta fine non appena avrà detto ad un suo parente di cui si fidava, in quanto antifascista, dei suoi propositi di continuare la lotta intrapresa nel Nord, per la riscossa della Sicilia.
E qui siamo col giallo storico di Sciascia. Imprevedibili sono gli atti e le persone che operano in Sicilia perché non venga intaccato più di tanto l’equilibrio alquanto instabile, instaurato dalla mafia e dai suoi dintorni. E da qui è facile passare all’altra storia di cui s’è parlato all’inizio: quella dell’altro protagonista, il professore Placido Alati, il nipote di Pietro. Anche lui lotta alcuni decenni dopo per gli stessi motivi; una lotta disperata condotta da pochi amici fra l’indifferenza di molti. Ma accadrà che una di loro, che ha in mano documenti per mettere alla gogna il solito politico in doppio petto che lavora per la mafia, viene aggredita a casa sua da due malviventi che le strappano le prove occorrenti per la denuncia. Il proposito della giovane aristocratica era conosciuto soltanto dai cinque amici. Chi ha tradito? All’ultimo si perviene all’assurda conclusione, raggiunta per mezzo dei soliti sofismi tipicamente siciliani.
Un libro, quindi, interessantissimo per l’intreccio sapientemente compiuto di varie storie sboccanti tutte nello stesso esito, per il realismo con cui vengono rappresentate, per l’amarezza combinata con una sottile ironia che percorre tutto il testo, per l’impegno civico che l’ispira, per la maturità di un’opera prima, per la forte carica educativa che lo pervade, valida per essere utilizzata nelle scuole per le generazioni alle quali, speriamo, la ormai martellante onda antimafia montata in ogni campo possa offrire i mezzi, la conoscenza e la voglia di un definitivo riscatto.

v.m. 

  


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I papaveri del professore
Il non ritorno nell'isola intorno al mare


PROLOGO


L’ombra di Pietro

«Professore, mi dispiace», si giustificò Luciano, «ma oggi sono impreparato. Ieri c’è stato un gran casino in famiglia e allora ...!».
 Luciano era uno studente svogliato, ma in compenso sempre tirato a lucido, per questo i compagni lo chiamavano "Parfum" anche per via del padre, proprietario di una rinomata profumeria del centro.
Lo fissai infastidito. «Dolente per il tuo ... casino, ma proprio da te, che sei tra i più ... impegnati», feci ironico, «non me lo sarei mai aspettato!».
«Sa, professore», insistette con l’aria di chi vorrebbe far credere chissà quali sciagure,  «questioni familiari … Quando il diavolo ci mette la coda …!».
L’avrei preso a schiaffi quell'impomatato, ma ovviamente la mia era solo un'inconfessabile fantasia. La verità è che non sopportavo le banalità: se mi avesse inventato una storia incredibile, avrei forse fantasticato di schiaffeggiarlo meno. 
«E già», sbuffai, «un giorno la coda, un altro le corna. Mi sa che prima o poi dovremo interpellare un buon esorcista!».
Luciano per qualche istante sventagliò occhiate a destra e a manca per sincerarsi che tutto finisse lì.
«Non gli dia retta, professore», s’intromise a quel punto Francesca con quella cadenza strascicata, mentre, come nulla fosse, si passava l’ombretto sulle palpebre, «il fatto è che ieri s’è versato addosso un’intera bottiglietta di … parfum, e così si è intossicato per inalazione».
Abituato com’ero a quelle battute, non mi curai più di tanto dell’esplosione di risa e di altre pesanti infiorettature che seguirono. Anzi, ad esser sincero, in fondo in fondo ci godetti un po’.

Spalancai con decisione il registro, cominciai a chiamare l’appello e la calma prese pian piano il sopravvento. Sembrava l’inizio di una ordinaria lezione di un qualunque giorno dell’anno, ma dovetti presto ricredermi: dal fondo dell’aula, infatti, chiese di intervenire Ruggero, uno fra i più riflessivi ed acuti della terza C.
 Le sue parole avrebbero occupato la giornata. Anzi: avrebbero dato linfa all’intero anno scolastico.

«Giovedì scorso», cominciò, «lei ci ha esposto le ragioni culturali, ideali ed umane che dettero vita all’antifascismo militante prima e alla Resistenza armata poi». Ruggero tacque un attimo, come a voler trovare le parole più adatte. «Ebbene», proseguì, «particolarmente in Sicilia, però, sappiamo che tutto questo avvenne solo in minima parte poiché, per i noti accadimenti storici, la Resistenza fu praticamente inesistente. Ora io le chiedo se e quanto questo aspetto abbia inciso sui successivi sviluppi civili e democratici della nostra Isola».
Mi aggiustai sulla sedia, tentando così di dissimulare il piacere che quel tipo di domanda mi aveva procurato. 
«Caspita, Ruggero …!». Mi alzai preso da sottile frenesia e mi avvicinai alla grande finestra. Piovigginava. Guardai giù nel cortile: Eloisa, perennemente in ritardo, trottava verso l’ingresso.

Da tempo speravo in un simile interrogativo, calato ora come filo a piombo. Dopo anni di dubbi, di incertezze e di riserve, era forse giunto il tempo di decidermi a mettere "in piazza" la storia della mia famiglia. Quella storia che, in paese, s’era fatto di tutto per dimenticare o, peggio ancora ... per camuffare.

 * **

Mi chiamo Placido Alati e, dal momento che mi accingo a raccontarvi di me e della mia famiglia -poiché per nessuno è indifferente il luogo in cui si nasce, si vive e si ... muore-, credo sia importante precisare che sono di Torrechiara, modesto centro peschereccio della provincia di Palermo. 

Mio padre, un povero pescatore, si chiamava Salvatore e mia madre Mariella. Dopo il liceo ero riuscito a concludere gli studi entro il normale corso di laurea, grazie non solo al mio costante impegno e agli enormi sacrifici dei miei, ma anche e soprattutto al sostegno materiale ed umano di un prete non comune, Don Roberto Lino, morto anni fa ad Erice, suo paese d’origine.
Quello era il periodo del dopoguerra segnato non da povertà, ma da autentica miseria, e mio padre, ciò malgrado, per un antico giuramento fatto a suo fratello Pietro poco prima ch’io nascessi, s’era impegnato pure gli occhi per farmi studiare. A causa di quella promessa mi aveva sempre categoricamente vietato di imbarcarmi ed io, quantunque covassi un cupo risentimento contro quel divieto tanto rigido quanto misterioso, alla fine avevo dovuto accettare. Ma nell’intimo non ero mai riuscito a darmi pace: ero o no figlio di pescatori? Dunque perché, a differenza di tutti gli altri, mi era stato impedito di fare i conti col mare? Per lungo tempo mi ero sentito diverso, escluso, respinto ai margini di quel mondo, come fossi privo di braccia. E, addirittura, non era stato raro che fantasticassi sulla mia origine, fino a spingermi a credere che non fossi figlio di Salvatore e Mariella, ma il frutto proibito di chissà quale amore clandestino, consegnato loro in custodia.
Ricordo che durante le lunghe estati, mi costruivo barchette di latta usando grossi recipienti cilindrici, quelli per le sarde sottosale. Così me ne stavo a giocare per intere mattinate fra gli scogli deserti della Praiola, taliatu da mia madre dalla finestra della cucina che dava a strapiombo sulla cala. Lì, solitario, mentre gli altri con le sardare scivolavano lungo l’orizzonte, fantasticavo grandiose battute di pesca o salvataggi impossibili; amicizie con polpi enormi e con delfini argentei guizzanti tutt'intorno.

Una bella mattina di agosto, già cresciutello, avendo concluso proprio quell’anno le elementari, mentre me ne stavo seduto su uno scoglio con i piedi a pelo d’acqua, proprio Don Roberto Lino era sceso nella caletta per svelarmi le vere ragioni di quel misterioso divieto. Lui aveva conosciuto lo zio Pietro fin da quando era tornato dal nord col carico della sua storia.
Sensibile com’era, don Roberto aveva da tempo intuito la mia firnicìa e così, quella mattina, aveva finalmente deciso di venirmi a parlare. Tra le altre cose, conservo ancora nitido il ricordo di una imprevista quanto puerile (ma per me allora "stupefacente") scoperta fatta quel giorno. Mi era venuto incontro saltellando tra gli scogli con la tonaca un po’ sollevata, come fanno le donne per non bagnarsi la gonna, e con quel buffo satariàri aveva un po’ svelato i causi sotto la tonaca, e io mi ero scrupuliàtu, quasi mi fossi intrufolato fra le sue segretezze.
Ad un tratto aveva rallentato quell'andatura per piegarsi ad afferrare, come un gabbiano a fior d’acqua, una mia barchetta in bilico tra gli scogli. Quindi s’era messo a rigirarla davanti agli occhi, mostrando interesse come in tutte le cose.
«Come caspita fai … a modellare sta lanna?», mi aveva chiesto con quel vocione rauco, mentre mi calava un lieve pugno in testa.
«Cu un cuculuni», gli avevo risposto compiaciuto.
«Sei fermo all’età della pietra?», e avevamo riso insieme come due ragazzini.
Poi don Roberto aveva guardato per qualche istante verso l’orizzonte e  assorto, con l'indice puntato verso le sardare, mi aveva chiesto: «Ti sarebbe piaciuto andare con loro?». Era bravissimo, lui, a calare le cose puntute senza farle pesare. Ma quella volta avevo sentito dentro un rivùgghiu di sangue, come quando sai che sta per arrivare qualcosa di importante. E quando mi ero deciso a rispondergli, mi ero fatto cauteloso con le parole per controllare meglio quel ribollìo. Avevo confermato che sì, mi sarebbe piaciuto, e avevo pure aggiunto che, però, c’era quel famoso divieto ...!
«Lo so, lo so … Ma tu devi capirlo quel brav’uomo di tuo padre», aveva detto mentre mi scunzava i capelli con la mano. «Lui è fatto così. Lo fa per il tuo bene: ha deciso di farti studiare, l’ha promesso solennemente ed è sicuro che se solo una volta mettessi piede in barca, sarebbe la fine. L’ha promesso a tuo zio Pietro, diversi anni fa, un anno prima che tu nascessi». S’era interrotto un attimo per rimettere tra gli scogli la barchetta. «Dice che è impossibile per un Alati resistere al mare, e che finiresti come tuo nonno, che in barca rischiò di morire di vecchiaia».


Ancora lo zio Pietro, dunque!
In famiglia ritornava spesso, come l’ombra incombente di un oracolo regolatore delle nostre vite. A volte, in quegli afosi imbrunire estivi, lo immaginavo seduto sulla panchina in pietra, davanti casa, a contemplare il tramonto; una gamba ripiegata fra le mani intrecciate, la sigaretta pendente fra le labbra. Ma il volto che di lui mi rappresentavo, non avendolo mai conosciuto, né esistendo sue fotografie, era sempre immaginario se non del tutto assente. Altre volte, nelle chiare notti di luna piena, mentre tentavo di addormentarmi nella piccola alcova al piano di sopra, lo vedevo ombra tra le ombre proiettato sulla parete di fronte. Stava ritto ai piedi del letto come un monumento, una mano in tasca, l’indice sulle labbra: “sciii … sciii … sciiii ...!”. Come dire: zzìttuti, accetta il tuo destino.
Così mi ero poco per volta rassegnato, nonostante sapessi che in quel modo si sarebbe estinta un’antica dinastia di pescatori. Ma col trascorrere degli anni, come a volermi riscattare da quell’involontario tradimento, m’era cresciuto prepotente il desiderio di dedicarmi anima e corpo allo studio delle tradizioni marinare. Così, anno dopo anno, girando per l’Isola, avevo collezionato e annotato ogni particolare, e ricostruito in scala ogni tipo di barche da pesca, molte delle quali oggi non più in uso.  

* * *

Il felice momento, contrassegnato dall’interrogativo di Ruggero in classe, cadeva invece moltissimi anni dopo. Era il 1999. 
A quel tempo avevo superato i cinquanta e da venticinque insegnavo storia e filosofia in un liceo del capoluogo, un tempo lussuosa dimora dei Gallidoro, antica famiglia dell’aristocrazia palermitana. 

Ogni mattina, puntuale come un maggiordomo svizzero, quel maledetto di Gino, che mai e poi mai avrei saputo allontanare in malo modo, un minuto prima che alle sei scattasse la suoneria dell'orologio, mi svegliava con una delicata pressione della zampetta sul naso. Dopo tanti anni di vita in comune, quella peste aveva registrato a perfezione le mie abitudini, per cui non avevo scampo: con le buone o con le cattive, fosse estate, inverno, festività comprese, mi costringeva a lasciare il letto travolto dalle sue fusa. Le versavo un po' di croccantini nella ciotola, gli rinnovavo l'acqua, e mi preparavo il caffè e latte, accompagnandolo con una fetta di pane tostato spalmato di miele, il che continuo ancora oggi puntualmente a fare, mentre Gino da tempo non c'è più! 
Cascasse il mondo, mi sbarbavo a giorni alterni, mentre Gino, seduto immobile come una porcellana sul davanzale della finestra, seguiva affascinato gli strani movimenti intorno al mio viso cosparso di una misteriosa sostanza soffice e bianca. 
Vito Cardinale (tempera) 
Piovesse o tirasse vento, montavo sulla vecchia bicicletta e raggiungevo alle sette e un quarto precise la stazioncina ferroviaria, incatenavo la bici a un palo e saltavo sul treno per Palermo. Alle quindici ero di ritorno, ma dovevo arrangiarmi da solo a mettere qualcosa sotto i denti. D’altronde l'avevo scelto io il celibato, pur essendo (così commentavano le intenditrici) appetibile per il portamento atletico ed i modi garbati. A quanti mi sollecitavano a compiere il gran passo, rispondevo che in fondo il matrimonio e i figli non facevano per me.
Qualche tempo prima, inoltre, era accaduto un qualcosa che mi aveva messo in corpo una strana inquietudine. Un giorno, mentre mi radevo, lo specchio mi aveva rivelato alcuni particolari del viso che non mi sarei aspettato: due piccoli afflosciamenti, due accenni grinzosi, stavano pian piano insediandosi proprio attorno alle orbite: “rughe” le chiamavano le donne in preda al panico. Non solo: esaminando più attentamente, mi ero pure accorto che le guance, in basso, appena sotto le mandibole, finivano un po’ cascanti e, nonostante le avessi studiate tutte per non badarci, gli occhi, tutte le volte, finivano con l’incollarsi sempre lì. Figuriamoci! Non era affatto l’estetica a crucciarmi né, tantomeno, il naturale pensiero della morte quanto, piuttosto, l'amara scoperta dell’inizio del declino, del lento incedere della senescenza scandito dalla malattia e dal dolore o, peggio, dalla demenza senile. Più volte, aggrovigliato in quei pensieri, mi ero sentito intrappolato come uno scarafaggio nella stoppa, spingendomi sempre più a riflettere sulla mia solitudine; a meditare sul modo in cui si era venuta svolgendo la mia vita.
In tutti quegli anni vissuti con i miei studenti, si erano susseguiti tanti e diversi modi d’intendere e affrontare la vita. Ed io li avevo vissuti tutti intensamente: il Concilio di Roncalli, il Sessantotto, il terrorismo, la caduta del Muro e delle ideologie, le stragi mafiose, il pentitismo e, infine, la rivoluzione informatica che mi aveva relegato fra le schiere dei nuovi analfabeti, testimone di un’epoca che, almeno per me, si apriva incomprensibile.
Così, in questo bufera, la riflessione sull’importanza dello studio della storia era finita con l’assumere i contorni d’un imprescindibile valore etico, ossigeno, unico appiglio in grado d’infondermi certezze e speranze.
«La conoscenza storica è il seme della vita», soleva spesso ricordarmi Don Roberto. Per questo rigettavo il nozionismo, insistendo molto, invece, sugli accostamenti epocali, sui raffronti e sulla ricerca viva. Ma i ragazzi, malgrado ogni mio sforzo, sembravano attratti da ben altro. Intontiti dal turbinio informatico, non sembravano più in grado di controllare i tratti fondamentali della loro vita. Per questo avvertivo urgente e necessario intraprendere strategie alternative, nuovi metodi di studio e percorsi di ricerca; trovare uno spunto, un quid … ecco, un quid che li emozionasse … E già, le emozioni: dov'erano finite?! In realtà, per riuscirvi, avrei da tempo saputo in cuor mio quale strada imboccare, ma era pur vero che questa decisione avrebbe dopo tanti anni rimesso in piazza la mia vicenda familiare, il che, data la mia riservatezza, non mi aveva mai del tutto convinto.

***

L’interrogativo di Ruggero rappresentava in quel momento l’ultimo colpo per incrinare l’involucro, anche se, in verità, nelle settimane precedenti, un episodio in apparenza marginale, era stato altrettanto decisivo per fiaccare le mie … resistenze. Era accaduto una mattina di una splendida domenica novembrina. 
Mi ero alzato all’alba per svolgere un lavoro domestico che solitamente mi impegnava un paio di volte all’anno e che mai ad alcuno avrei delegato. Consisteva nello spolverare e riordinare la libreria dello studio che occupava un’intera parete fino al soffitto. Quel lavoro assumeva le cadenze di un autentico rito ed era frequente che, durante quell’opera, che durava un'intera giornata, mi finisse fra le mani qualche libro ancora incartato. La lettura era la mia linfa vitale, ma ciò che in fondo mi appagava era l’atto in sé del comprare. Era una frenesia la mia: ne compravo di tutti i tipi e le dimensioni, magari attratto semplicemente dal titolo o dalla  copertina, ma poi accadeva spesso che, lette le prime trenta pagine, mio limite massimo per innamorarmene, li riponessi fra gli altri, ripromettendomi  di riaprirli a data da destinarsi.
Quella domenica mattina, invece, schiacciato come una sarda, me n’era capitato uno che non aveva certo l’aria d’essere immacolato. La copertina blu, attraversata da una striscia bianca, la conoscevo bene: ritraeva il negativo fotografico di un gruppo di uomini armati. Sagome scure procedevano in fila sulla cresta di una montagnola; sullo sfondo una tenue foschia gelata avvolgeva alberi dai tronchi esili e dai rami scheletrici rivolti al cielo. Si trattava di un volumetto che da anni non prendevo in mano, intitolato “I miei sette figli”, una lunga intervista di Renato Nicolai ad Alcide Cervi, con prefazione di Sandro Pertini, il Presidente partigiano. “Per la miseria: guarda un po’ chi si rivede!”, avevo commentato tra me e me. Per il mio diciottesimo compleanno me l’aveva regalato Don Roberto. Mi ero commosso nel leggerlo: era la prima volta che mi accadeva, il che non si sarebbe mai più ripetuto per nessun altro libro. Ma quella storia, più d'ogni altra, mi aveva spalancato nuovi orizzonti, aiutandomi a considerare sotto una nuova luce il mondo in cui mi trovavo e la storia di mio zio.
Col pollice avevo fatto scorrere lentamente le pagine, fermandomi a caso su una. Era quella in cui Alcide, il vecchio padre, diceva: 

“...Questo lo voglio dire chiaro, perché chi ha cultura non pensi sbagliato sul nostro conto, che siamo riusciti a fare certe cose solo con le braccia o perché siamo più spicciativi degli intellettuali. Vedete per esempio il paragone con la quercia. Mi hanno detto sempre così, nelle commemorazioni: tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta. Va bene, la figura è bella e qualche volta piango, nelle commemorazioni. Ma guardate il seme. Perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme...”.

Avevo interrotto la lettura, fatto scivolare in una tasca della giacca il libro e m'ero trasferito al piano di sopra, dove s’apriva un terrazzino su cui si arrampicava un vecchio pergolato che per tutta l’estate offriva grappoli speciali. Lì solitamente mi rifugiavo per riflettere, godendo di un raro panorama. Infatti, la casetta, ereditata dai miei e che diversi anni prima avevo rimodernata per viverci felice come il guardiano d'un faro, dominava il mare con la sua costa sinuosa interrotta soltanto dal porticciolo. Come spesso facevo, avevo percorso con lo sguardo il molo maestro: dopo una notte di sudori, la piccola flotta peschereccia riposava nello specchio scintillante. L’aria, insolitamente tersa fino all’orizzonte, creava rari effetti, illudendo l’occhio di poter cogliere, a un tiro di balestra, Ustica, adagiata come un pachiderma.
“Forse è giunto il momento di parlare ai ragazzi della vita di mio zio Pietro”, avevo riflettuto, tornando ad osservare la copertina del libro, “devono emozionarsi, partire da vicende dirette, vicine a loro; devono penetrare nella storia ... Me ne infischio del programma ... questo è il Programma, per la miseria!”
Senza accorgermene, avevo cominciato a riordinare i ricordi, a rimettere in fila tutti i tasselli di quella straordinaria vicenda di cui mio padre e Don Roberto mi avevano fin da ragazzo parlato. E c’era stata pure un’altra persona che mi aveva raccontato altri particolari che nessun altro poteva conoscere. Era un uomo di studi e d’azione, che aveva condiviso con lui, umile pescatore, quell’esaltante esperienza. Si trattava del professor Giacomo Vergara, divenuto, nell’immediato dopoguerra, ministro della pubblica istruzione del governo provvisorio e, successivamente, titolare della Cattedra di Storia Contemporanea nell’Università di Torino. 

Appena laureato, spinto dalla curiosità alimentata in tutti quegli anni, ero riuscito a rintracciarlo, decidendo di recarmi in quella città per conoscerlo di persona. Il professor Vergara, ormai pur avanti negli anni, mi aveva fornito molte informazioni con un linguaggio di raro taglio che avrebbe incantato chiunque. Egli, oltre alla lucidità di mente, aveva pure conservato intatta quell’aura di eroico mistero comune a tanti della sua generazione, impastata di sapienza e di antiche certezze, ma anche di furore, di paure e debolezze che la guerra aveva impresso. Il vecchio professore, poi, come un ragazzino, s’era infiammato di contentezza allorché, il nipote del suo indimenticabile amico e compagno, aveva accettato di essere suo ospite per tutto il tempo che avesse voluto. 
«E impressionante la tua somiglianza col Pescatore ... proprio come due gocce d’acqua!», aveva a un certo punto mormorato, fissandomi a lungo. Mi ero sentito quasi imbarazzato da quegli occhi vivissimi che indugiavano sul mio volto. «Ed ora che ti osservo meglio, mi ritorna in mente un vecchio debito, un impegno di trent’anni fa, preso con lui in questa stessa città il giorno della Liberazione, quand’era già pronto per ritornare nella sua Sicilia. Ma non potei rispettarlo quell’impegno, a causa del precipitare degli eventi ... degli impegni indifferibili cui fui chiamato in quei mesi dell'immediato dopoguerra». Si era interrotto e un’espressione triste gli aveva per un attimo velato il volto. «Ma io sto correndo troppo», aveva poco dopo sospirato. «Va’ a sistemarti nella tua stanza e quando sarai ben riposato ti racconterò fin dall’inizio ... tanto, abbiamo tutto il tempo che ci occorre».
E così eravamo rimasti tappati in casa tre giorni interi e, a parte le brevi  pause per il pranzo e il suo abituale riposino pomeridiano, la rievocazione dei ricordi era andata a volte come fiume tranquillo, altre tumultuoso, evocando circostanze, luoghi ed episodi così sanguigni che più volte avevo creduto di riviverli.
Dopo un paio di mesi dal mio ritorno in Sicilia, avevo letto sul giornale la notizia della sua improvvisa scomparsa: «L'illustre Prof. Giacomo Vergara (...) valoroso resistente contro l'occupazione nazista e i repubblichini fascisti di Salò, ministro della Cultura del Primo Governo provvisorio libero, è improvvisamente morto a 85 anni questa notte nella sua abitazione di Torino (...)»
Ero rimasto sorpreso dall'inattesa notizia, svuotato dentro, come se l’epoca che mi conteneva fosse al trapasso.


* * *


Immerso in quel fiume di ricordi, davanti alla finestra che dava sul cortile della scuola, non risposi subito a Ruggero.  
Intanto Eloisa, la ritardataria, che poco prima avevo intravisto trotterellare verso l’ingresso, era piombata in classe con un innocente "mi scusi professore …" al quale avevo opposto un secco "siedi e ascolta …". Mi aveva guardato con espressione interrogativa, ma il mio indice, che le indicava la sedia, non lasciava dubbi.  
Tra gli sguardi impazienti degli altri, infine mi decisi e risposi a Ruggero. 
«Il tuo non è un semplice interrogativo, ma una riflessione molto acuta, che rivela ben altri approfondimenti che non il semplice testo scolastico», dissi visibilmente compiaciuto. «Potrei rispondere in due modi: in astratto-teorico o in concreto-vissuto. Voi quale preferite?».
Un coro optò per il secondo, quantunque non fosse loro del tutto chiaro lo sbocco concreto della scelta. Alcuni chiesero chiarimenti, ma io risposi che  presto avrebbero da soli trovato le risposte.
«Bene, in ogni modo, da oggi iniziamo una nuova esperienza», precisai con tono solenne. Quindi guadagnai il centro dell’aula, trascinai con me la poltroncina e sedetti fra loro, ma in modo tale che tutti potessero guardarmi in viso.
«Vi racconterò una storia vissuta, la vera storia di un partigiano, un mio zio, fratello maggiore di mio padre, Medaglia d’Oro della Resistenza. Si chiamava Pietro e aveva scelto come nome di battaglia Pescatore. Non so quanto tempo impiegherò a raccontarvela, vedremo. Posso soltanto anticiparvi che per alcuni sabati, a iniziare da questo, aggiungerò un nuovo capitolo».

Eloisa a quel punto alzò timidamente la mano: «Professore, mi scusi, ma non c’ho capito niente …! Che dobbiamo fare …?». 
Non le risposi. Non c’era bisogno di aggiungere altro poiché ero certo che, nelle settimane successive, Eloisa avrebbe compreso da sé anche la fondamentale importanza etica e civile della puntualità da cui, in determinati frangenti, poteva dipendere la vita o la morte!



PRIMO SABATO

Il ritratto


Piemonte, luglio 1944, iniziai.
Manca poco meno di un anno alla fine dell’oppressione nazifascista. Gli anglo americani premono prima da sud e poi anche da nord e, come già sapete, da circa un anno, a Salò, sulle dolci rive del Garda, Benito Mussolini, sotto il diretto controllo dei nazisti, ha fondato la Repubblica Sociale Italiana, estremo tentativo di salvare il suo regime.
L’Italia più che mai appare ora in ginocchio non solo materialmente, ma soprattutto è dilaniata nel profondo delle coscienze: uomini e donne, giovani e vecchi d’ogni estrazione sociale, culturale e fede politica, al di là delle opposte sponde cui sono approdati, pagano un altissimo prezzo.
In questo tragico contesto, fin dall’indomani dell’Armistizio dell’8 settembre 1943, un umile pescatore siciliano, giovane soldato sbandato del regio esercito, sceglie d’istinto la via della resistenza armata. Pietro Alati è il suo nome, conosciuto in seguito, tra le valli piemontesi, col nome di battaglia  Pescatore.  


* * *          

Benché come gli altri sfinito, quel giorno fu il solo a resistere al sonno. In piedi, appoggiato di schiena a un abete, scrutò dall’alto il fondovalle, lungo la strada che scendeva come nastro al vento.
Dopo quasi due anni era già una leggenda vivente. Più che parlare agiva, aveva innato l’istinto del guerrigliero. Passionale, dotato del magico intuito di quei pescatori che dallo sciabordio sentono i branchi di squali in arrivo, spariva coi suoi compagni nel momento giusto, come inghiottito dalla terra, per ricomparire d’improvviso dal nulla. Anche per questo i fascisti non gli davano tregua, ma lui stava sempre all’erta, pure quando dormiva. Ed era raro, se non impossibile, sorprenderlo disarmato della sua “Beretta” o privo della sua casacca verdina con dieci tasche sparse qua e là, trafugata chissà dove o a chi; affermava fosse di fattura inglese e mai a nessuno rivelò cosa custodisse in tutte quelle tasche. Ma pure chi incrociava il suo sguardo velato dalla nostalgia del suo mare, capiva subito ch’era sensibile come un bambino.

Anche quel pomeriggio di luglio, dopo due giorni e due notti di marcia estenuante, era riuscito a porsi in salvo coi suoi compagni. Stremati, s’erano accasciati al suolo all'interno di una cavità ben nota ai partigiani della valle. Pian piano s’erano poi avvicinati alla vicina sorgiva e, oltre ad affondarvi la testa, avevano bevuto a lungo per cedere infine, uno dopo l’altro, a un sonno profondo. 
Pietro, invece, indugiò ancora a studiare l’immensa vallata. Non notò indizi di insidie e così, di schiena, come si trovava, scivolò sfinito lungo il fusto dell’abete, adagiandosi al suolo cosparso di aghi. Osservò Rita al suo fianco, con quei suoi lunghi capelli ingarbugliati e i volti degli altri compagni: com’erano belli pur se provati dalle fatiche e dalla fame. In ciascuno vi si leggeva una storia; c’era impresso il distacco dai loro cari, dagli amici, da una donna, da una vita normale, senza la morte in agguato in ogni anfratto, lungo il greto di un torrente, dietro un albero o una finestra socchiusa. E s’era chiesto se anche dall’altra parte, tra i fascisti, giovani come loro, si vivevano le stesse sensazioni! Ma soprattutto si chiedeva cosa sarebbe accaduto se fosse sopravvissuto a quell’infame guerra: sarebbe stato realmente possibile, per lui e per i suoi compagni, riannodare il filo di una esistenza normale?
Sistemò la Beretta al fianco, continuando a rigirarsi intorno a quei pensieri. “Un’esistenza normale?”, ripeté fra sé, e gli salì un groppo in gola: rivide i volti dei compagni caduti poco prima sul ciglio di quella curva maledetta e udì ancora le raffiche e le urla disperate. Erano rimasti in quindici, Rita compresa.

Tre giorni prima, a Piedivalle, mentre tentavano di ricongiungersi alle altre formazioni, erano incappati in una colonna motorizzata di nazifascisti in perlustrazione. L’ordine del Comitato di Liberazione di zona , ricevuto attraverso le staffette, era tassativo: “Le formazioni in avvicinamento al punto di raccolta, in caso di fortuito contatto col nemico, devono astenersi dall’attaccare per primi poiché qualsiasi azioni potrebbe nuocere in questa delicata fase di cui si dirà di presenza”.
Da qualche tempo era nell’aria che qualcosa di importante e decisivo covava negli alti comandi, così com’era evidente che, in quella particolare circostanza, era stato loro impossibile rispettare quell’ordine. Infatti, giunti in prossimità di Piedivalle, erano stati costretti ad attraversare la provinciale in un tratto cieco, che curvava a gomito. Allineati, quasi tutti avevano già superato in rapida successione quel punto critico quando, d’improvviso, era sbucata dalla curva la testa di una sparuta colonna nemica, proprio nel momento in cui -dannata sorte!- passava l’ultimo dei suoi, Gianni. Nell’inevitabile scontro a fuoco, tre di loro e due nemici erano caduti, mentre gli altri fascisti erano precipitosamente tornati indietro a chiedere rinforzi. I mastini non avrebbero mollato e nel giro di niente ne avrebbero avuto almeno il triplo addosso.
Ma, ad un tratto, mentre piangevano i compagni caduti e stavano per riprendere la fuga, avevano udito il rombo sgangherato di un motore. S’erano appiattiti al suolo, ma avevano presto intravisto un camioncino arrancare verso di loro, e un fazzoletto sventolare dal finestrino. «Montate su, prima che vi facciano a polpette», aveva gridato il giovane alla guida del mezzo. Dimostrava non più di diciassette anni e da tempo spiava i movimenti dei fascisti. Italo - questo il suo nome - con quell’azione per lui tanto audace, aveva loro evitato molte ore di marcia, sottraendoli a morte sicura. 
Ma ormai erano lì, al sicuro, in quella piccola cavità ben celata. Da lì, calmate le acque, avrebbero presto ripreso il cammino interrotto.

Pietro accese una sigaretta. Non solo era l’ultima ma pure sgualcita e quasi svuotata. Chissà quando ne avrebbe avuto delle altre decenti. “Porca vacca!”, pensò, “l’ultima come per i condannati a morte”. Aspirò forte, mentre, con gesto automatico, trasse da una tasca anteriore della casacca una foto malconcia. Ritraeva suo padre e i fratelli in barca, nel porticciolo naturale, pronti a salpare per la pesca. Chissà chi gliel’aveva fatta? Com’era ancora giovane Giuseppe … poco più di un bambino! E Salvatore … Chissà se continuava a tuffarsi dai faraglioni per fare pomata davanti a Mariella. E quanto gli mancavano i silenzi di suo padre con le sue incazzature! Stavano tutti e tre in piedi sulla barca, i remi ritti ai fianchi come in un presentarmi, e un lieve sorriso di speranza. Lui, Pietro, era il maggiore dei figli, richiamato in quell’assurda guerra, ma il buffo destino lo aveva costretto tra i monti a "pescare" ... nazisti e fascisti.
      Era incredibile la circostanza e il modo in cui Pietro aveva ricevuto quel ritratto. Gliel’aveva letteralmente lanciato alla stazione di Torino, dal finestrino di un treno in movimento, un compaesano, un certo Ciccio, che lui conosceva bene, figlio del sagrestano della "Provvidenza", la chiesetta a fianco di casa sua. Anche Ciccio era stato richiamato in guerra e il padre di Pietro gli aveva affidato il ritratto come una reliquia, sicuro che avrebbe prima o poi incontrato il suo Pietro, come se il continente fosse una ciucca di terra. Ma alla stazione era accaduto l’impossibile. Ciccio, l’anno precedente, proprio due giorni dopo l’Armistizio dell’8 settembre, in un mattino tumultuoso e disperato, l’aveva intravisto per pochi attimi lungo il binario, confuso tra migliaia di altri.
Pietro già fin da quella data aveva scelto da che parte stare e niente e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. Non era stata facile la decisione, soprattutto per un giovane umile e semplice come lui, cresciuto tra le litanie parrocchiali e le virili parate di regime; nutrito, com’era stato fin dalla culla, dell’odio di ciò che andava odiato e dell’indiscusso amore per l’idolo da amare.
Quel mattino -dicevo-, tra la folla sbandata della stazione torinese, mentre si faceva largo su un marciapiedi per il suo primo incontro clandestino, rifletteva anche su quanto, Nino Sacco, un lontano vecchio parente, che si definiva antifascista, gli aveva detto quel lontano giorno della partenza da Torrechiara. Ma ad un tratto aveva udito la voce concitata di qualcuno, con un tono e una inflessione a lui del tutto familiare, e per un attimo aveva creduto di sognare, di non trovarsi in quel luogo così lontano dalla quiete del suo paese, dalla sua gente di mare. Qualcuno, infatti, in quella baraonda, aveva urlato: «Santu Ddiu... Pietru... propriu tu si! To patri aveva ragione, propriu tu si!». Ciccio, strabiliato come un bimbo, si era sporto fino alla cintola dal finestrino di un treno stipato all'inverosimile, diretto chissà dove. A fatica era riuscito a tirar fuori il ritratto e, avendo il treno già iniziato la corsa, l’aveva lanciato giusto in tempo su quell’incredibile brulichìo di teste.

Ma ora Pietro era lì, ai piedi dell’abete, lontano dal suo mare. Anche lui finalmente cedette al sonno, il ritratto serrato fra le dita, lievemente cullato dal sogno delle onde, mentre il sole scendeva di là, tra i monti più alti.
Fu Rita a svegliarlo in piena notte per l’ultimo cambio di guardia, ma non riuscì a riprender sonno e così rimase sveglia accanto a lui. Da troppo tempo non si parlavano in tutta tranquillità, e quella parve a lei l’occasione migliore. Ma per alcuni minuti non  riuscirono a dir parola: nel loro intimo ristagnava il dolore per i compagni caduti e, in quel momento, il silenzio parve più eloquente di qualsiasi parola. La dura realtà della guerra, la spietatezza di quella vita impossibile, li aveva inaspriti, ma non fino al punto di accettare come niente la loro morte. Il cielo era limpido come non mai e la luna rischiarava ogni cosa. 
Pietro sentì il bisogno di un’altra sigaretta. «Rita, hai da fumare?». Sapeva che le donne facevano sempre scorta d’ogni cosa: bastava solo chiedere e, come illusioniste, facevano spuntare l’impossibile. Non s’era sbagliato: Rita infilò la mano minuta nell’inseparabile zaino e ne trasse un pacchetto semi pieno. 
«Prendi, fuma, cos’altro ci resta!», disse lei.
«Cosa avremmo fatto senza di te?», commentò Pietro come a volerla ringraziare, ma si rese conto di aver parlato a sproposito ripensando ai compagni caduti, e per un attimo si sentì sprofondare. Tentò allora di rimediare.
«Rita, cosa farai quando tutto sarà passato?».
«Se tutto andrà come io penso, tornerò a insegnare. E tu?».
«Io? Io tornerò a ... pescare».
«Perché, finora cos’hai fatto?», e tentarono di soffocare la risata per non svegliare i compagni.

* * *

Rita era una giovane ebrea, ma non si era mai sentita diversa ... e poi per cosa e perché? Ma il 1938 aveva anche per lei segnato una tappa, un punto di non ritorno, un marchio indelebile. Il regime aveva promulgato le leggi razziali con la complicità del re ed il silenzio del Vaticano e di lì a poco, come per tanti altri e a tutti i livelli, sarebbe stata cacciata da un liceo di Torino nel quale insegnava. Con i genitori si era fermamente opposta alle insistenze di amici e pa­renti perché abbandonassero l’Italia, ma alla casa di via Pisacane, alla sua Torino, non avrebbe mai rinunciato. E neppure dinanzi alle notizie sempre più attendibili di deportazioni aveva mutato idea. Ma un pomeriggio del dicembre del ‘43, mentre lei era fuori a dar lezioni private, alcune SS, affiancate da altri della milizia fascista, avevano bussato alla porta di casa, mentre di sotto s’erano pian piano raccolti alcuni curiosi. Confusi tra questi c’erano pure due operai della FIAT abitanti del rione, già collegati ai primi nuclei della resistenza urbana.
Gli sgherri erano scesi poco dopo con i genitori di Rita e li avevano sospinti con le armi puntate sul camioncino. Proprio in quel preciso momento Rita, di ritorno a casa, stava percorrendo via Pisacane e così i due operai, conoscendola di vista e avendola scorta in lontananza, le erano corsi incontro, l'avevano bloccata a fatica, tappato la bocca e, sospinta nell’androne d’un palazzo, ve l’avevano trattenuta a forza fin quando i genitori non erano stati portati via.
Rita non li avrebbe più rivisti. Era rimasta nascosta in casa di uno di quegli operai e, alcuni giorni dopo, su richiesta di Rita, l'avrebbero messa in contatto con i gruppi della resistenza armata torinese.

* * *

Rita aveva smesso di ridere e s’era fatta improvvisamente seria. Ad un tratto chiese a Pietro: «Cos’è che realmente t’ha convinto a finire quassù? A me non l’hai mai spiegato».  
«Veramente», rispose lui sorpreso, «non l’ho mai spiegato a nessuno, ma visto che me lo chiedi, ed io stanotte mi sento di parlare …».
«Dài, forza, racconta allora», lo incitò Rita come una ragazzina impaziente, ma s’interruppe un attimo e aggiunse come sentendosi in colpa: «Ma lo sai che all’inizio, appena entrato nella nostra formazione, sospettavamo che ... fossi ... una spia e ti tenevamo sotto controllo?».
«È normale: guai se non lo facevate», rispose Pietro impassibile, e aggiunse che era inevitabile sospettare dal momento che nessuno lo aveva politicamente accreditato. «In fin dei conti chi ero io se non un povero sbandato uscito dal nulla che, tra l’altro, puzzava di pesce? e poi...». Pietro esitò un attimo.
«E poi cosa...?», insistette lei.
«E poi, quel mio... accento siciliano, non credo che mi aiutava ...!». Pietro esitò ancora. Non avrebbe dovuto rivangare certe cose: erano solo vecchie sensazioni. S’era lasciato prendere la mano e, risentito con se stesso, cercò di riacciuffare l’argomento iniziale. «Ma se non sbaglio, non è da questo che siamo partiti».
«E già, non è da questo ...», rimarcò Rita con l'aria di chi non sopportava quel tipo di argomenti.
«Se non sbaglio, volevi sapere», riprese Pietro, «come mai sia finito quassù, con voi, a far la festa a fascisti e nazisti».
«Appunto, a pescare tra i monti», ironizzò ancora Rita.
Pietro la guardò e sorrise. E mentre la guardava, si accorse per la prima volta quanto fosse bella, sensibile e ... istruita!
Pietro iniziò dal giorno della partenza da Torrechiara. Si era nell'autunno del '40 e ricordò come in quegli anni ogni cosa gli sembrasse giusta e scontata. A scuola, in chiesa, nelle parate, nelle esercitazioni del sabato ... era sempre la stessa musica.
«A salutarmi alla stazioncina c’era la mia famiglia al completo oltre a un lontano cugino di mia madre, Nino Sacco, un vecchio operaio, l’unico antifascista dichiarato del paese che aveva lavorato vent’anni a Milano, ma era considerato ormai tanto innocuo che lo stesso podestà non lo calcolava. E così, prima che il treno partisse, Sacco mi prese di lato e mi disse: “Ascolta, Pietro, tu sei ancora picciotto e credi che il mondo inizia e finisce qui, a Torrechiara, e invece vedrai quanto questo mondo è carogna e complicato. Gli uomini e le donne pensano e agiscono in mille modi diversi. Sono quanto e come i pesci nel mare che è grande e profondo. Ma ricorda: i pesci, neanche quando finiscono nelle reti sono fra loro tutti uguali”.
«Soltanto dopo», proseguì Pietro, «sperimentando la natura di quest’infame guerra che ruba i figli al mare e alla terra; osservando i gerarchi incollati alle loro amanti e i loro capelli impomatati; constatando la fuga di altri con soldi e gioielli, ho compreso il significato di quelle parole e così, nel momento giusto, ho tagliato ... la rete».
«Bella metafora quella del tuo parente, interessante risposta la tua», esclamò Rita e, arruffandogli affettuosamente i capelli, precisò: «Non mi pare che puzzi più di altri ... e poi il tuo accento mi fa impazzire!».
Pietro sorrise come un bambino, tirò fuori da una tasca una pezzuola unta di olio e, soddisfatto, si dette a oliare mitra e rivoltella.
L’alba era ormai sopraggiunta e bisognava muoversi in fretta.

* * *

La valle, fino al piano, dopo un difficile scontro protrattosi per giorni, era quasi del tutto libera grazie anche allo spontaneo appoggio della popolazione e alle favorevoli condizioni del tempo. Restava soltanto un breve tratto lungo il fiume Taro dove un battaglione tedesco, dotato di armi pesanti, di mezzi e ben protetto dalle alte sponde del fiume, continuava a dar filo da torcere alle numerose formazioni partigiane affluite nella zona. La situazione di sostanziale stallo preoccupava non poco e, tuttavia, il generale arretramento nazifascista nell’intera regione aveva consentito al Comando Unificato di Liberazione di trasferirsi provvisoriamente nel Palazzo municipale di Pianoro, alcuni chilometri più in giù di Piedivalle. Ma di lì a poco, in questa situazione fluida, tesa e a tratti confusa, avrebbe preso corpo, proprio lungo il Taro, quella che sarebbe stata ricordata come la più straordinaria tra le imprese del Pescatore alla testa del suo gruppo.
Pietro e i suoi compagni, da oltre due giorni, disinformati della generale evoluzione in atto nell’intera zona, avevano abbandonato il rifugio per riprendere il cammino interrotto. Ma ben presto le staffette li avevano avvertiti della situazione di stallo venutasi a creare lungo il Taro. Nel Comando generale di zona, vista la situazione critica, c’era molta apprensione per loro e, pertanto, se ne sollecitava l’avvicinamento alla base di Pianoro.
A un certo punto, però, Pietro e i suoi avevano deviato verso la maledetta curva: non avrebbero mai potuto rassegnarsi al pensiero di quei poveri corpi abbandonati! Quando vi giunsero constatarono, però, che mani pietose li avevano sepolti e provarono un gran sollievo. Chi altri, se non Italo, il loro salvatore, aveva potuto provvedervi? Si accostarono con cautela alla casa. Era tutto chiuso, silenzio, il camioncino sparito. L’unico segno di vita, un galletto razzolante. Non era prudente, però, attardarsi oltre in quei paraggi e così decisero di proseguire il cammino, sperando che prima o poi avrebbero rivisto Italo. Solo Luigi si attardò qualche minuto in più. La fame si tagliava a fette e quel galletto cadeva a puntino. Cercò frettolosamente le uova poiché, se c'era un gallo, non potevano mancare le galline, e se c'erano galline, c'erano uova infilate da qualche parte. Cercò rapido in tutti gli angoli, niente: chissà dove le avevano nascoste e da dove fosse piovuto quel pennuto. I compagni, intanto, s'erano messi in marcia e gli gridarono di far presto. Solo il tempo di ... afferrarlo e li avrebbe raggiunti. Prima di quanto sperasse riuscì, fra gli starnazzi del poveretto, nella difficile impresa, lo ribaltò, gli stirò il collo in un baleno e lo infilò nello zaino; quindi in pochi secondi raggiunse gli altri. Quando fu accanto a Pietro gli dette una gomitata contro il braccio e gli spalancò lo zaino sotto gli occhi: «Quando rintracceremo Italo», disse raggiante, «lo ringrazieremo anche per questo!».

Giunti in vista di Pianoro, scrutando col binocolo, si erano fatte idee ben precise sulla viabilità, sui punti meno esposti, sui tracciati più brevi e, soprattutto, sull’esatto posizionamento lungo il fiume della tenda degli ufficiali nazisti. A un certo punto avevano deciso di sostare il tempo necessario di studiare, nei minimi particolari, un piano d’azione ed era apparso chiaro che questo si sarebbe potuto attuare solo a condizione di riuscire a reperire un paio di divise naziste, cosa cui avrebbe provveduto Rita.
Rita, però, aveva partecipato alla discussione dando segni di forte dissenso sull’operazione e, solo quando era apparso tutto deciso, era intervenuta energicamente chiedendo che si mettesse ai voti la proposta di Pietro. «Siete dei bambocci esaltati», aveva urlato incollerita, «vi rendete conto di avere totalmente perso il contatto con la realtà?!».
L’avevano guardata interdetti e lei aveva rincarato. «Non capite che equivale a un suicidio ... meno di un’esibizione da circo? Non vi bastano i compagni già caduti? Vi impedirò questa follia che vorreste attuare senza neanche informarne il Comando». Quindi d’impeto aveva afferrato Pietro per la casacca, all’altezza della gola e, scuotendolo, gli aveva ripetuto gridando: «Ve lo impedirò a tutti i costi e con ogni mezzo... Oltre alle spiegazioni che dovremo fornire per la morte dei compagni, ammesso che si resti vivi, ci vuole pure questa follia!».
Pietro aveva staccato lentamente la mano di Rita dalla casacca. «Ascolta», aveva esordito a nome di tutti, «questo è il tempo in cui le parole sono un tutt’uno con l’azione. Tu sei stata preziosa, come ciascuno di noi lo è stato e lo è. Nessuno ci ha però obbligati a compiere la scelta», aveva a quel punto rimarcato, battendo con forza il pugno contro un ramo. «Piaccia o meno», aveva aggiunto, «siamo in guerra, e la morte è sempre nel conto. Tu, Rita, vedi … comprendiamo la tua ansia, ma non vediamo con chi dovremmo giustificarci se non con la nostra coscienza. Il problema, allora, è un altro: è giusto o non è giusto ciò che abbiamo deciso di fare? Per noi lo è poiché è certo che, se l’azione riuscirà, come noi crediamo, potranno essere risparmiate molte vite. In caso contrario, male che vada, saremo al massimo in un paio a cadere: io e Giacomo».
«E già, hai detto niente: parli di uomini come fossero birilli! Ma cosa avete in testa?!», gridò Rita, scaraventando con rabbia lo zaino a terra. 
A quel punto, Giacomo Vergara, il più anziano del gruppo, che aveva seguito la scenata un po’ in disparte, s’era deciso ad intervenire. Era un bell’uomo alto e asciutto, finemente colto. Sull’esperienza di quella vita, s’era pian piano costruita una rudimentale filosofia che aveva finito col contagiare un po’ tutti. «Noi siamo degli illusi, crediamo di modellare il mondo», le aveva detto con fare fraterno, «ma in realtà galleggiamo nel mare degli eventi e non determiniamo che qualche briciola di verità e di giustizia poiché, se ci rifletti, queste dipendono solo in parte da noi. È, piuttosto, la spinta vitale delle cose, il fluire e l’intreccio degli stessi eventi a determinare i nostri atti. A noi, nell’arco della nostra vita, è concesso di compiere forse soltanto un paio di scelte fondamentali, quelle per le quali varrebbe financo rischiarla la vita. Forse non è vero», aveva proseguito dando fondo a tutta la sua capacità persuasiva, «che una di queste scelte l’abbiamo già abbracciata nel momento stesso in cui abbiamo deciso di lottare tra queste valli? Non è forse ciò che ci è realmente accaduto? E lo stesso non è probabilmente accaduto ai giovani repubblichini convinti di stare dalla parte giusta? Io lo sento da che parte stanno verità, inganno e ragione, ma solo i fatti», aveva concluso pensoso, «potranno un giorno suggellarlo dinanzi al mondo».
«Giacomo, ma non ti rendi conto», aveva ribattuto Rita, «di confondere tutto e tutti...? Siamo noi e solo noi a determinare gli eventi, con le nostre idee, con le nostre scelte e passioni, con i nostri sentimenti ...».
«A determinarli? Sì, ma se agisci», aveva obiettato Giacomo, «in caso contrario a subirli!».
«Fate come credete», aveva infine sussurrato Rita impotente e, come spesso le accadeva in quei frangenti, il pensiero era corso ai suoi genitori. Per stemperare l’angoscia, s’era persa a vagare con la sguardo nella vallata silenziosa e da quel momento non aveva più aperto bocca, proseguendo il cammino con la morte nel cuore.

* * *

Lungo le sponde del Taro, Karl Steiner, ufficiale della Wehrmacht, comandante di quel che rimaneva del suo battaglione, anche quel giorno, dopo l’ennesima notte d’insonnia, s’era definitivamente alzato quando già albeggiava.
Sorseggiando del the dinanzi l'apertura della tenda, osservava inquieto l’andirivieni di soldati. Si sentiva fiaccato: mai come allora s’era trovato in situazioni tanto critiche. Da giorni, sino a tarda sera, era stato un continuo martellare e ora anche lui era in attesa di un’altra terribile giornata. Le munizioni ormai scarseggiavano e, realisticamente, era impensabile fidare su altri rifornimenti. 
 La sua esistenza, vissuta nel mito di un impero di razza mai nato, gli appariva ora come un vascello traboccante di menzogne, miseramente infranto lungo le sponde di un fiume straniero. Non aveva forse sfilato anche lui, giovane germoglio di stirpe guerriera, gli occhi ridenti rivolti al glorioso futuro, dinanzi allo sguardo esaltato del suo nume? E non aveva goduto anche lui, in tempi migliori, dei privilegi della sua casta? Si chiedeva, ora, dove fosse finito e per chi? per cosa? perché? e che ne sarebbe stata della sua famiglia, della sua vita?

Poco più in là, in quello stesso momento, Pietro e Giacomo, tesi, pallidi, andando lentamente a ritroso, sbucarono dal nascondiglio ricavato nella notte tra la vegetazione fluviale, proprio all’interno del campo tedesco. Indugiarono appena il tempo necessario e, sempre con le spalle rivolte ai soldati nemici, finsero di urinare tra le sterpaglie. Poi, con grande naturalezza, si volsero verso le tende, affibbiandosi le patte dei calzoni delle loro ... impeccabili uniformi della Wehrmacht e, conversando in tedesco, si diressero, come fossero stati lì da sempre, verso la tenda del colonnello Steiner. In realtà solo Giacomo parlava mentre Pietro, arrestandosi di tanto in tanto ad annuire con vistosi movimenti del capo, fingeva d’interloquire con un monotono “ja...ja”, l’unico suono da lui in grado di pronunciare.
La lieve foschia mattutina ovattava l’aspro parlottio e il rassegnato andirivieni dei soldati. Ed era proprio quel parlare aspro e misterioso che suscitava in Pietro un senso indefinibile di smarrimento. Un impercettibile tremore gli aveva inoltre preso mani e gambe, ma presto s’avvide che più procedeva, più si sentiva speranzoso e sicuro. Il merito era soprattutto di Giacomo, che parlava correntemente il tedesco, avendo vissuto per oltre dieci anni in Germania, ad Amburgo. 
Egli vi aveva frequentato le scuole elementari e medie, essendo suo padre, Giulio Vergara, addetto al Consolato italiano in quella città. Negli anni vi era spesso ritornato, avendo stretto salda amicizia con un gruppo di studenti tedeschi che, come più tardi avrebbe appreso, erano stati internati nel campo di Belsen a causa delle loro idee antinaziste. Quell’evento aveva profondamente segnato la sua esistenza, non riuscendo mai a darsene pace.
Successivamente, nell’Università di Torino, rotto ogni indugio a causa di un tragico episodio di cui era stato vittima un suo professore antifascista, Augusto Ripamonti -episodio che lo aveva ulteriormente convinto dell’odiosa natura del regime e dello scellerato imperialismo germanico- era entrato in contatto con un gruppo antifascista e, da lì, il passo nella lotta armata era stato breve.
Giacomo era l’unico esempio, del gruppo del Pescatore, di intellettuale puro che avesse, cioè, compiuto la sua scelta per maturazione ideologica, ma anche sulla spinta dei rapporti a dir poco burrascosi col padre, cui non perdonava l’adesione a quegli sciagurati regimi.

Disinvolti, interpreti temerari della messinscena, raggiunsero l’ingresso della tenda del colonnello tedesco piantonata da un soldato dall’aria indolente. «Dispaccio urgente per il signor colonnello», annunciò Giacomo in perfetto tedesco. Il piantone, senza batter ciglio, fece cenno di passare, ma ad entrare con passo sicuro fu il Pescatore, tenendo ben in mostra un foglio ripiegato. Giacomo, invece, restò fuori a conversare circospetto col piantone.

L’imponente figura di Steiner gli si stagliò di fronte. In piedi, curvo su un tavolinetto, era intento a esaminare alcune carte topografiche. Steiner alzò lo sguardo, fissandolo con occhi interrogativi. Pietro non accennò minimamente al saluto nazista, e per un attimo ebbe la sensazione che lo stesse aspettando, come se la sua improvvisa presenza fosse da sempre impressa nella sua mente.
«Che c’è?», chiese calmo Steiner.
Pietro gli porse il foglio e si limitò a dire in italiano di leggere. L’ufficiale non batté ciglio e, ostentando indifferenza, non parve curarsi del foglio. Ma non riuscì a dissimulare l'impercettibile fremito che dalle labbra gli si spense sul mento, e solo allora accennò a una reazione con la sua Mauser. Pietro, però, lo anticipò con un balzo e, scuotendo il capo in segno di rimprovero, gli trattenne pacatamente la mano sulla fondina. Quindi, senza iattanza, gli fece segno di consegnargliela.
Steiner parve esitare un istante, poi reclinò leffermente il capo ed emise un sospiro. Ma non si senti umiliato: il fare misurato di quel giovane, gli aveva reso dignitosa la resa. Si sfilò lentamente la fondina e la pose nella mano aperta di Pietro. Steiner l’osservò meglio: la pelle olivastra e gli occhi grandi e neri come carbone, contrastavano con la divisa che indossava!
E fu allora che vide definitivamente crollare il suo mondo.  

«Legga, perdio, legga!», gl’intimò Pietro, calando una poderosa manata sul tavolinetto su cui stava spalancato il finto dispaccio.
Steiner si riscosse, prese il foglio tra le mani e lesse ciò che Giacomo aveva scritto in perfetta tedesco:
Chi le sta di fronte è un partigiano che non parla la sua lingua. Proviene dalla Sicilia ed è qui, come tutti noi, a combattere per riscattare l’onore d’Italia. Odiamo questa guerra, non siamo stati noi a volerla, così come non vorremmo proseguirla vanamente un giorno di più. Ma ciò dipende solo da lei. Sinceramente vorremmo, invece, che tornaste nella vostra terra, evitando altre rovine a noi e a voi stessi. Lasci, dunque, il Suolo italiano, consegni le armi: la frontiera è vicina, sarete presto in salvo. E consegni pure, nelle mani dell’Esercito di Liberazione, i giovani fascisti repubblichini che sono tra voi e ai quali garantiremo un regolare processo. La informo inoltre che, fuori da questa tenda, altri patrioti ben mimetizzati l’attendono: nell’interesse di tutti, non compia gesti inconsulti. Il patriota Alati dovrà puntarle la rivoltella alla nuca. Disponga che una camionetta sia pronta per condurla celermente presso il nostro Comando dove resterà in ostaggio fino alla verifica del preciso rispetto delle condizioni poste.
W L’ITALIA LIBERA”.

L’ufficiale della Wehrmacht si ricompose, commentando in uno stentato italiano: «Bravi partizano! Solo itagliano hano fantàsia».
«Finiscila con queste minchiate», lo interruppe Pietro, «spirùgghiati, chiama l’aiutante in campo e fai partire gli ordini».
Anche Giacomo, ad un fischio di Pietro, entrò nella tenda per uscirne subito dopo assieme col colonnello ben stretto fra loro.
La Beretta vibrava alla nuca di Steiner quando, in un silenzio irreale, montarono sulla camionetta e, avviato il motore, partirono rapidi verso Pianoro, lasciando avvolti in una nuvola di polvere i soldati impotenti.


* * *

«Scusi, professore, se la interrompo», disse imbarazzata Emma, una brunetta dagli occhi a spillo.
«Di’ pure, Emma».
«Potrà sembrarle banale, ma una foto di suo zio esiste? E se sì, potrebbe farcela vedere uno di questi giorni?».
«Ho capito», risposi impassibile. «Se la cosa può aiutarti, be’ … allora, in un certo senso posso fartela vedere subito: guarda me e vedrai mio zio Pietro in carne ed ossa».
Emma fece un’espressione delusa, tutti gli altri risero, ma io mi sentii incoraggiato poiché la curiosità rivelava l’interesse catturato.

«Ragazzi», dissi allargando le braccia, «la campanella è inesorabile: devo lasciarvi, mi aspettano i vostri compagni di terza B. Proseguiremo il prossimo sabato».
Uscii dall’aula e piegai a destra per il corridoio. Alle mie spalle udii un insolito, sommesso brusio.



Fotografie compromettenti


Durante il viaggio di ritorno a Torrechiara non feci che pensare a quell’inizio di giornata: mi sentivo soddisfatto di come si mettevano le cose. Appena sceso in stazione sganciai la bicicletta dal solito palo e scivolai verso casa affamato come un lupo.

In quei giorni Torrechiara, nonostante le limitazioni sull’affissione, era stata tappezzata di manifesti elettorali d’ogni tipo e dimensione. Facce suadenti, sorrisi smaglianti, promesse accattivanti svettavano incollati in ogni angolo. 
Appena giunto dinanzi alla porta di casa, mi accorsi che neppure la mia via, pur scarsamente abitata, era sfuggita alla sorte. Infatti, nel muro della casetta di fronte, da anni disabitata, ne spiccava uno nuovo con caratteri cubitali:
BASTA CON LE CALUNNIE DI MARIO FERRO E DEI SUOI SOSTENITORI. DOMENICA 29 ALLE ORE 17 INCONTRO CON GLI ELETTORI AL CINE TEATRO VITTORIA”.

Il paese, in quelle settimane, era attraversato da forti tensioni, in un acceso contrasto tra “vecchio” e “nuovo”. Si trattava di un vero e proprio scontro epocale che anticipava il declino dei vecchi equilibri politico-affaristici: stava maturando, infatti, da una parte una nuova coscienza, una specie di processo di liberazione da anni di soprusi, di omertà e di paure; dall’altra andavano consolidandosi nuovi e più agguerriti apparati. Per la prima volta, poi, nei comizi e nei dibattiti, erano stati pubblicamente spiattellati i nomi dei capicosca e grande emozione aveva suscitato quello scontro caratterizzato da roventi polemiche e oscure minacce. Anch'io, dopo un lungo disincanto, ben consapevole dei rischi, m’ero tuffato nella mischia a sostegno del maestro elementare Mario Ferro, uno dei tre candidati a sindaco, quello accusato dal manifesto che mi stava di fronte. 

Non appena messo piede in casa, Gina come al solito mi venne incontro reclamando, con sonori miagolii, attenzioni e carezze. Per terra notai un foglietto che raccolsi: riconobbi subito la scrittura di Franco. Mi avvisava che alle 18 ci sarebbe stata una riunione riservata con Mario Ferro in casa di Irene. Franco era un mio vecchio amico col quale, fin da giovane, avevo condiviso tante battaglie. Misi in realzione il biglietto col manifesto e intuii che doveva trattarsi di questione piuttosto delicata.
Pranzai con comodo, misi qua e là in ordine, carezzai Gina e le versai altri  croccantini nella ciotola, seguii l'ultima parte del  TG delle 17 e infine, un po’ in anticipo, mi avviai in bici verso casa di Irene. Il cielo verso mare s’era fatto minaccioso, nuvoloni neri s’addensavano, lasciando prevedere che, di lì a poco, si sarebbe scatenato il diluvio.
Giunsi per primo. Irene, in realtà, abitava una villa ottocentesca ereditata dalla nonna materna, la baronessa Peralta. Sorgeva nella zona alta del contado, poco fuori dal centro abitato, su un pianoro ricco di  vegetazione da cui si dominava il paese. Alla villa si accedeva da un enorme cancello sorretto da due grandi pilastri in pietra arenaria. Da lì, fiancheggiato da mandarini e limoni, si snodava un viale tutto curve in terra battuta che, percorsi un centinaio di metri, piegava dolcemente a sinistra per terminare nello spiazzo di fronte la villa, circondata da maestose palme centenarie. Irene, grazie anche ad un’attenta manutenzione, era riuscita a conservarne quasi intatto l’antico fascino, pur sfruttandone solo un’ala, per lei più che sufficiente. Al piano superiore, le cui stanze si affacciavano su una balconata sempre ricca di gerani e grandi macchie di gelsomino, si accedeva dall’interno, per mezzo di un’ampia scala.

Ticchettai con le dita sui vetri di una persiana del portico al pianterreno. Lei aprì quasi subito. Mi apparve più del solito radiosa, il perfetto disegno delle labbra e i grandi occhi nocciola a mandorla. Mi prese per mano, mi baciò sulle labbra e mi condusse silenziosa lungo il corridoio che immetteva nella grande cucina-soggiorno. Mi precedeva con la sua inconfondibile andatura, i capelli ondulati che le oscillavano lievemente sulle spalle. Quella sera indossava un golfino beige con discrete applicazioni floreali sulle maniche, un fazzoletto di seta color nocciola, leggermente striato di verde, annodato al collo, e la gonna scozzese plissettata che le esaltava i fianchi.
Irene, intanto, mentre mi parlava del più e del meno, mi chiedeva della scuola e di quel mio progetto in atto, nell’attesa che fossimo al completo, occupò il tempo a preparare la macchinetta del caffè, le tazzine con la zucheriera e ad aggiungere un bel ceppo nella grande stufa in ghisa. Io, rimasto in piedi al centro dell’ampia cucina, sentendomi trascurato, a un certo punto la richiamai bonariamente: «Non sono venuto per assistere alle tue danze. Sta’ un po’ calma, smettila di girare come una trottola ... sediamoci qui sul divano!».
«Uuuh, come l’abbiamo passionale questa sera!», ribatté lei, proseguendo affaccendata come nulla fosse, «ma ti sembra questo il momento di effusioni?!». 
Aveva appena finito di dire "effusioni", che avvertimmo il sopraggiungere degli altri

Nubile, non più giovane, ma ancora attraente, fotografa d’eccezione, dal carattere volitivo e a tratti impulsivo, discendeva da una aristocratica famiglia di Torrechiara. Ma lei, Irene, aveva perso ormai ogni tratto dell’antica nobiltà familiare.
Diversi anni prima aveva intrecciato con me un’amicizia che s’era presto trasformata in qualcosa di più, ma si sa com’io la pensassi in fatto di legami e pertanto, dopo avere apertamente chiarito ogni aspetto di quel rapporto, lei m’aveva assecondato, condividendone in gran parte le ragioni. La relazione, proseguita senza particolari contraccolpi, s’era tuttavia mantenuta sempre nella riservatezza. In seguito avevamo iniziato a frequentarci con persone come Franco, Mario ed altri il che era avvenuto diversi anni prima, da quando, cioè, era stabilmente tornata da Mantova, città della madre, dove da fin ragazzina s’era trasferita per motivi familiari e di studio.
Da quando era tornata a Torrechiara, qualcosa di nuovo era però cominciato a crescere in lei: si sentiva più libera, più sicura; stava rigenerandosi, scrollandosi di dosso antiche paure come in un preludio d’attacco contro il confuso risentimento che nutriva per la sua terra. Questa indistinta condizione dell’animo, che affondava in un’antica e drammatica vicenda, stava ora tentando di analizzarla razionalmente, non per cancellarla dalla memoria e dalla storia, ma per affrontarla a viso aperto, nella sua obiettiva realtà politica e civile: un moto -pensava- che avrebbe dovuto investire l’intera Torrechiara.

Orfana di entrambi i genitori fin dai primi anni di vita, uniche due vittime di un banale incidente ferroviario nei pressi di Mantova, era stata allevata dalla baronessa, sua nonna paterna, che lei amava oltre ogni limite. La baronessa, però, ormai sola e avanti negli anni, sottoposta a un vile stillicidio di “espropri” da parte della cosca mafiosa del luogo, aveva dovuto più volte soccombere ai soprusi, morendone di crepacuore. Irene, concluso a tredici anni il ginnasio, aveva così dovuto abbandonare nel silenzio generale Torrechiara per trasferirsi a Mantova, presso una zia, sorella della madre. L’unica proprietà scampata alla rapina era la villa, quella in cui era nata lei e prima ancora suo padre e dove, in quel momento, io e gli altri, come in un atto di rivalsa civile e morale, studiavamo il modo di non far passare sotto silenzio le nuove prepotenze che si profilavano in paese.

Il maestro Mario Ferro, figlio di contadini, un tipo asciutto e longilineo, occhiali e sguardo rassicurante, giunse in ritardo mentre di fuori aveva già preso a diluviare.
«Scusate per il ritardo», disse, scrollando frettoloso l’ombrello sotto il portico, «ma sono stato chiamato in caserma. Il maresciallo è allarmato per il clima che si è creato in paese; è preoccupato soprattutto per noi, e mi ... anzi … c’invita ad andare più cauti!».
Intanto, mentre così parlava, col fazzoletto s’era messo ad asciugare in modo maniacale le lenti schizzate di pioggia. Sembrava non la finisse più con quell’operazione, come fosse stato colpito da una specie di tic nervoso.
«Perché non la smetti con quei benedetti occhiali e ci spieghi bene che è successo?», disse Irene spazientita.
«Niente, nulla di particolare; è solo il clima complessivo che preoccupa il maresciallo», precisò ancora Ferro che intanto aveva inforcato gli occhiali.  
«E tu cosa gli hai detto?», lo incalzò Franco.
Ferro esitò un attimo: «Io gli ho testualmente detto che andremmo avanti come è giusto che sia». 
«Andremmo …?! E domani, con quella manifestazione del Vittoria che dobbiamo fare? lasciare che Ravanusa rivolti come sempre la frittata?», intervenni io corrucciato.
«Assolutamente, no», intervenne Irene furente, «non dobbiamo permettere che stravolgano la verità dei fatti. Siamo nel ballo? bene, balliamo; inchiodiamo Ravanusa e i suoi degni compari alle loro responsabilità. Le foto in nostro possesso le abbiamo forse dimenticate? Suonano come un organo! Che aspettiamo? rendiamo tutto pubblico, lì, in piazza, e questi criminali vedrete che si squaglieranno come neve al sole».
Ferro impallidì. «Ne sei veramente convinta?», disse, «siamo sicuri d’essere tanto forti da sostenere l'impatto?».
Il dubbio insinuato da Ferro gelò tutti. Irene a quel punto balzò come una molla e decretò: «Il prossimo sabato sera, comizio in piazza. Salirò anch’io sul palco e sarò io, soltanto io a suonare l’organo».
Sguardi titubanti s’incrociarono: Irene non scherzava, la conoscevamo bene.
«È inevitabile: anche volendolo non possiamo tirarci indietro», intervenni io a quel punto. 
E Franco: «Non credo, nonostante i cambiamenti in atto nella nostra comunità, che i tempi siano maturi per simili azioni dirompenti; rendiamoci conto che siamo ancora fondamentalmente isolati, che appariremmo come dei velleitari …  dei pazzi, che faremmo soltanto il loro gioco. In una parola», concluse, «qui ci giochiamo tutto, ma proprio tutto ...! Spero solo che tu, Irene ... Placido ci riflettiate bene prima di ...».
Quegli argomenti non parvero scalfire Irene: «Ci ho riflettuto, è da mesi che ci rifletto», mormorò tra sé, «avete forse dimenticato che il silenzio uccide …?».
«Questo non puoi, non te lo permetto», scattò Ferro, «hai detto: avete, come se tu fossi l’eroina senza macchia e senza paura e noi i codardi di turno in preda al terrore. Certo, sfido chiunque a non aver paura... ma se attuassimo ciò che proponi ci assumeremmo un’enorme responsabilità, che andrebbe ben oltre le nostre persone. Qui non si gioca una partita a ramino, ma il futuro del paese e anche la nostra pelle, se non l’hai capito. E poi, a ciascuno il proprio ruolo: non siamo né poliziotti, né magistrati …».
«Basta, ho capito, è tutto chiaro. Se alcuni di voi non condividono, ma anche se nessuno di voi condividesse, pazienza», insistette Irene calma, «significa che quanto ho proposto, lo farò a titolo strettamente personale. Volete … potrete impedirmelo?!».
«No, non possiamo impedirtelo», disse Franco, «ma vogliamo soltanto ricordarti che il nostro compito è politico. Noi abbiamo il dovere di produrre e pretendere atti amministrativi chiari, onesti, trasparenti e legali, nell’interesse di tutti».

Quelle foto compromettenti, scattate da Irene col teleobiettivo dalla torretta della villa e in periodi diversi, ritraevano il rispettabile dottor Ravanusa intento a conversare amichevolmente nel giardino del capomafia. Ravanusa era un medico politicamente molto potente, capo elettore inamovibile, conosciuto in tutta la provincia, avversario storico del gruppo di Mario Ferro e degli altri.
In quel momento speravo che Irene, alla fine, avrebbe desistito. Infatti in me, era chiaro il copione, il paradosso che sarebbe emerso alla fine: quelle foto, che inchiodavano il medico, sarebbero presto divenute un peso soffocante, tizzoni ardenti più per noi che per lo stesso Ravanusa. Il solo riparlarne non stava già forse acuendo tensioni e spaccature al nostro interno? No, un momento, a rifletterci meglio, lo scenario che si sarebbe profilato era del tutto prevedibile. Era stato sempre così nella storica lotta: anche dinanzi alle più schiaccianti evidenze dei fatti, avrebbero sfoderato le giustificazioni più incredibili; anzi, tanto più incredibili sarebbero state, tanto più verosimili sarebbero apparse all'opinione pubblica. Innanzitutto avrebbero messo in giro la voce che quelle foto erano un volgare trucco, il risultato di sofisticate diavolerie da computer; oppure, l’argomento più plausibile, che Ravanusa, di tanto in tanto, faceva visita al capo mafia per semplice dovere professionale: forse che il medico non è come il prete o l’avvocato?

Di fuori, intanto, aveva quasi smesso di piovere. Io, ultimo rimasto, osservai attraverso i vetri appannati le palme grondanti illuminate dalla luce dei lampioni dello spiazzo. Decisi ch’era il momento di tornare a casa. Già in piedi, ingollai l’ultimo sorso di liquore, baciai Irene senza convinzione e, per far sbollire del tutto la tensione, mentre mi avviavo in bicicletta per la discesa, le gridai in tono scherzoso: «Io te lo impedirò, borghesuccia avventuriera da quattro soldi».
«Va’ al diavolo!», fece lei di rimando.
La terra umida di pioggia mi trasmise l’odore di pulito che tanto mi piaceva e per un istante avvertii forte la voglia di tornare indietro da lei, ma era meglio che restasse sola a riflettere con se stessa. Pedalai più forte e così il desiderio di lei svanì presto. Giunto a casa, non potei fare a meno di immaginarmela sola e spaurita, raccogliersi i capelli dietro la nuca con quel suo rapido roteare delle mani, lasciarsi cadere supina sul sofà, non senza aver prima afferrato al volo il pesante posacenere posto sul vicino tavolinetto. 
In quella casa per lei troppo grande, avrebbe avvertito improvviso il vecchio, distruttivo senso di isolamento. Avrebbe acceso chissà quante sigarette e, per quella notte, forse, non avrebbe preso sonno.


* * *

La settimana era volata in un soffio. In viaggio per Palermo ripensai al comizio da tenere, anche perché, nei giorni precedenti, avevo avuto altri frettolosi contatti con Irene senza, purtroppo, ottenere alcunché.
Scesi dal treno, attraversai la stazione e tagliai per Ballarò già brulicante e il solito uomo, con una pancia a botte, mi si accostò offrendomi le “americane”.
A scuola giunsi come sempre puntuale e, cosa strana, constatai con piacere che tutti i ragazzi e le ragazze mi avevano preceduto, Eloisa compresa.  
«Vedo che possiamo iniziare subito … Chi rammenta dove abbiamo interrotto sabato scorso?».
In molti alzarono la mano, ma fu a Laura che chiesi di riassumere: «Pietro e Giacomo Vergara, col colonnello tedesco preso in ostaggio, montano sulla camionetta e si avviano verso il comando partigiano, lasciando i soldati impotenti».

«Perfetto!», esclamai. 




Secondo sabato

La Belva

Intanto Rita e gli altri erano riusciti, fin dal mattino precedente, a raggiungere indenni Pianoro, il paese sottostante a Piedivalle, dove  -come vi ho già accennato in precedenza-  si era provvisoriamente situato il Comando Generale delle formazioni di zona, e lo avevano subito informato della temeraria azione messa in atto dal Pescatore e Giacomo Vergara. Il rapporto, molto dettagliato, era stato presentato -senza lasciar trasparire alcun dissenso interno- ad uno dei comandanti più prestigiosi, il medico Attilio Liberati, uomo noto ed apprezzato per concretezza ed equilibrio. Costui, leggendo il resoconto, era andato su tutte le furie e aveva subito convocato la speciale commissione disciplinare. Ne era nata una discussione burrascosa poiché, in realtà, l’azione dei due rischiava di complicare l’imminente attuazione di un piano generale deciso dal Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia.
«Due pazzi individualisti avventurieri da mettere al muro», aveva urlato Calcaterra fuori dai gangheri, uno dei massimi componenti della commissione, seguito a ruota da un altro secondo cui quei due, disattendendo precise disposizioni, rischiavano di far saltare tutto e tutti.
Alla fine lo stesso Liberati era riuscito, così come accaduto in altre analoghe circostanze, a ricondurre tutti alla ragione. Il vecchio comandante aveva fra l’altro affermato che, a ben pensarci, forse non sempre ogni male veniva per nuocere. E così, tra qualche malumore, era stato deciso, non sussistendo in quella situazione altra scelta, di anticipare di qualche ora le operazioni di accerchiamento a sostegno del piano dei due … folli; piano che, se fosse riuscito, avrebbe effettivamente risparmiato molte vite e molto tempo.
La piega che l’evento stava prendendo confermava, dunque, ancora una volta il modo di pensare di Giacomo e Pietro.

In realtà, il vero obiettivo dell’afflusso di partigiani a Pianoro non era tanto e solo la liquidazione del battaglione nazifascista, che si presentava solo come un semplice intralcio, quanto, piuttosto, qualcosa di molto più delicato e complesso che da tempo maturava: la messa a punto, cioè, di un’articolata e vasta azione politico-militare che avrebbe impresso, nel volgere di qualche settimana, una decisiva svolta alla guerra, anche con riflessi internazionali di primaria importanza. Il Comando generale del CLN-Alta Italia aveva infatti deciso il trasferimento nelle città industriali di numerosi gruppi, tra i più ferrati dal punto di vista politico-organizzativo, per sostenervi, ben mimetizzati tra gli operai, grandiosi scioperi nelle fabbriche quale preludio di una grande insurrezione nazionale. E Pianoro, quasi al confine del territorio nazionale, in quel momento diveniva uno snodo fondamentale della nuova strategia messa in atto dai comandi generali.

* * *

A Pianoro, in quelle ultime ore, regnava un cupo silenzio d’attesa quando le vedette annunciarono che un mezzo motorizzato s’avvicinava veloce all’abitato.
Una camionetta tedesca, con un telo bianco legato alla canna della lunga antenna-radio, sollevando una lunga nuvola di polvere, imboccò la strada leggermente in salita. Il silenzio fu rotto da incontenibile entusiasmo: ce l’avevano dunque fatta! Quando entrarono in paese, la notizia dell’azione riuscita s’era già diffusa e una gran folla si riversò in strada accogliendoli tra due ali festanti. Giunti poi dinanzi al Municipio che ospitava il Comando, furono circondati da centinaia di compagni che sparavano in aria, che li abbracciavano e baciavano, che davano loro pacche sulle spalle. Steiner era impietrito e bianco come un lenzuolo.
«State calmi che me lo spaventate», andava ripetendo Giacomo. E Pietro, non vedendo l’ora di consegnare l’ingombrante ostaggio, urlava: «Fateci incontrare con il Comando. Fate largo, porca miseria, fate largo!». 
         D’un tratto, come se un segnale misterioso fosse sceso dall’alto, fu silenzio: Pompeo Colasanti, il baffuto prestigioso comandante, seguito da Liberati, Calcaterra ed altri, avanzò con passo lento tra la folla che s’aprì come un’anguria.
«Mi hanno avvertito e son corso fin qui di proposito per voi», disse con voce tonante. «Entro questa sera esigo ... esigiamo un dettagliato rapporto sui due compagni caduti nella curva a Piedivalle. Per quanto riguarda poi - diciamo così - l’impresa di oggi, cominciate a farvi il segno della croce». Poi si girò per tornare al Comando, ma s’arrestò un attimo, si volse nuovamente ai due e aggiunse:
«… E spero che non vi montiate la testa. V’immaginate cosa accadrebbe se ognuno di noi facesse di testa propria? Ringraziate il cielo», concluse, «che non ci siano stati altri caduti per causa vostra».
«Proprio così!», rispose Giacomo, «altrimenti non avremmo osato».
«E già, proprio così!», gli fece eco Pietro visibilmente imbarazzato, mentre con le mani si spolverava la mitica casacca.
Pompeo Colasanti si arrestò, si lisciò i baffi pensieroso e tornò indietro, accostandosi ai due ancor di più, mentre la piccola folla restò in attesa. Un largo sorriso si disegnò sul volto di Colasanti che, a braccia aperte tuonò: «Maledetti incoscienti» e, tra gli applausi, li strinse a sé come due figli ritrovati. L’inchiesta s’era di fatto così conclusa.

Pietro fin dall’inizio aveva cercato Rita in lungo e in largo con lo sguardo. Da quando s’era rinchiusa in se stessa, lui ne aveva sofferto e ora avvertiva il bisogno di riparare. Non si era però accorto, in quel trambusto, d’averla sempre avuta, lei così minuta, proprio alle spalle. E così se la ritrovò improvvisamente dinanzi, col suo ovale e i soliti riccioli sugli occhi.
«Dov’eri finita?», le chiese ansioso.
«Sono stata tutto il tempo qui, accanto a te, a sorbirmi il tuo puzzo, soldaten», disse ridendo, e aggiunse. «Brucia questa divisa, fatti una bella doccia, un lungo sonno e domani mi racconterai tutto per filo e per segno».
«Puzzo di pesce!?», chiese lui autoironico.
«No, magari!», rispose lei con un’allegra risata, «puzzi solo di canaglia», e in un impeto di felicità per la vita che aveva ripreso posto nel suo cuore, gli dette un rapido bacio sulle labbra.

Pietro rispettò gli “ordini” di Rita come una recluta, ma stentò a prender sonno, non riusciva a scacciare dalla mente quel bacio. Fino a quel giorno non era mai stato baciato da una donna; e poi … una professoressa, una persona di cultura! Che aveva da spartire lei con le sue labbra?
La mattina seguente, appena sveglio, non poté fare a meno di chiedere consiglio a Giacomo, l’unico che, forse, avrebbe capito, che sicuramente aveva più esperienza di lui in quel genere di … imprese. «Cerca di crescere, Pietro», l’esortò Giacomo divertito, «è da mesi che ti fa gli occhioni dolci! Dove hai la testa?».
Pietro, vista la scarsa immedesimazione dell’amico, lo mandò al diavolo, scagliandogli bonariamente il berretto in faccia. Poi spalancò il portone del fienile dove avevano trascorso la notte e, mentre l’altro lo avvertiva che l’avrebbe raggiunto nel palazzo municipale, piegò a sinistra verso l’abitato. Giunto in prossimità di piazza Municipio, notò un camioncino posteggiato in una viuzza laterale. Si arrestò, tornò indietro di qualche passo per guardare meglio. Gli pareva d’averlo già visto, di conoscerlo. Ma sì: era quello di Italo! Osservando con più attenzione scoprì che la cabina e il cassonetto erano qua e là sforacchiati da numerosi colpi, e un brutto presentimento lo assalì: “Dove sarà finito quel ragazzo?”, si chiese. 
Deciso a rintracciarlo, affrettò il passo, raggiunse il palazzo e domandò alle guardie se, per caso, avessero visto o conoscessero un certo Italo, di Piedivalle, un ragazzo non ancora diciottenne, viso pulito, snello come un remo. Una delle guardie, ch’era della zona, gl’indicò l’officina del fabbro di fronte. «Se non sbaglio», rispose, «vi ho visto entrare il padre un momento fa».
Pietro attraversò la piazzetta, entrò nell’officina e chiese se ci fosse il padre di Italo.
«Sono io. E tu chi sei?», rispose qualcuno. Era un uomo curvo, rugoso e, probabilmente, dimostrava più dell’età che in effetti aveva.
«Io sono Pietro, il Pescatore, e devo a suo figlio la fortuna d’essere ancora vivo.
«Pietro ... il Pescatore», ripeté incredulo l’uomo, lanciando occhiate al fabbro per sincerarsi d’aver capito bene. «Italo, dunque, ti avrebbe salvato la vita? allora è vero quel che si dice, proprio a te, al Pescatore?!».
«Sì, proprio così: se non fosse stato per lui, lassù, a Piedivalle, in quella curva maledetta...».
«Ti prego, non continuare», lo interruppe.
«Ma, perché ... Italo dov’è?», sussurrò Pietro oppresso dal presentimento.
«Ma come, non lo sai? Proprio quel giorno, ritornando...».
Nessuno aveva ancora trovato il tempo e il coraggio di raccontare a Pietro e agli altri cosa fosse realmente accaduto subito dopo la loro fuga a ritroso nell’alta valle. Aveva la sensazione che fosse passato un secolo dal giorno in cui Italo era andato loro incontro. Quanti avvenimenti nell’arco di pochi giorni! Uccisioni, fughe e marce forzate; fame, paure e, infine, Steiner. Tutto s’era svolto con una tale rapidità che quasi non riusciva più ad orientarsi nel tempo.
Ascoltò il racconto del padre, e quanto più vi si adden­trava, tanto più cuore e stomaco gli si nturciuniavanu dentro.

Dopo il salvataggio Italo, non appena rientrato a casa, aveva udito il rumore di alcune camionette e di un camion. Si trattava di numerosi repubblichini del “Corpo Speciale Antiguerriglia”.  Era chiaro che fossero in cerca di vendetta per quanto accaduto poco prima. Si erano fermati un po’ più su, proprio nel punto in cui era avvenuto lo scontro e, imprecando contro i “banditi”, avevano esaminato i cadaveri dei loro camerati, adagiandoli sul camion. Poi, rivolti ai corpi dei due partigiani caduti, li avevano presi a calci, a sputarvi e a urinarvi addosso. Infine, li avevano legati tutti assieme per i piedi, come un mazzo di carciofi, avevano fissato l’altro capo della fune ai ganci delle sponde del camion ed erano ripartiti con quei poveretti penzolanti a mezz’aria.
Ma avevano percorso appena qualche decina di metri poiché Italo, col suo mezzo, aveva sbarrato loro la strada e quelli, convinti si trattasse di un’altra imboscata, s’erano messi a sparare come forsennati. Italo, fino a quel momento, l’aveva scampata, essendosi rannicchiato sul fondo della cabina.
Intanto il giovane cappellano di Piedivalle, Don Libero Liberi, da poco ritornato da un vicino casolare, sentendo gli spari era accorso: «Per amor di Dio, fermi ... non sparate...!». Poi, accortosi dello scempio di quei poveri corpi penzolanti, aveva alzato le braccia al cielo. «Bestie! Siete diventati peggio delle bestie», aveva urlato. Molti di quei repubblichini, dinanzi all’inattesa comparsa del prete, s’erano arrestati incerti sul da farsi.
Intanto Italo, semi stordito, era sceso lentamente dal camioncino e, mani alzate, s’era avvicinato a colui che sembrava essere il capo. Lo aveva riconosciuto: aveva un ghigno perfido. Era proprio lui, Ripamonti, la Belva della Valle, quello privo, fin dalla nascita, dell’orecchio sinistro: al suo posto un’escrescenza attorcigliata come guscio di lumaca. «E tu non piangi? non t’inginocchi, femminuccia?», l’aveva apostrofato la Belva gonfiando il petto e mettendo mani ai fianchi.
Quel gratuito sbeffeggio, come una frustata, aveva richiamato all’ordine i camerati “inteneriti” che s’erano così messi ad ancheggiare, arricciando le labbra ed emettendo sdolcinati sospiri.
Italo, allora, dinanzi ai corpi martoriati, si era fatto ancor più vicino a Ripamonti e, scrutandolo negli occhi, come a volervi rintracciare l’origine del male, lo aveva colpito con un violento schiaffo, proprio lì, a sinistra, su quel moncherino d’orecchio. Ripamonti, dissimulando con un sorriso l’odio che l’aveva pervaso, era rimasto impassibile. «Bene, comprendo e rispetto», aveva infine commentato, «la vostra sensibilità. In  effetti non è umano, non è ... cristiano: è giusto dare degna sepoltura a questi poveri disgraziati! Però tu e il tuo prete dovrete aiutarci. Su, scavate», aveva intimato, estraendo due pale da sotto il cassone del camion. Con i mitra puntati alla schiena, pregando Dio e chiedendogli perdono, s’erano così piegati al pietoso lavoro.
All’imbrunire, quando ormai la terra era stata rimossa e il suono delle campane si era udito lungo la vallata, la sventagliata su don Libero aveva accompagnato l’ultimo rintocco.
L’ultimo colpo, invece, se l’era riservato la Belva, perpendicolare sull’orecchio sinistro di Italo.

«Noi», concluse il padre, «siamo gente semplice … sai … ma Italo non sopportava le ingiustizie, le sopraffazioni e don Libero era fiero di lui … gli faceva pure scuola. Ora sono rimasto solo, e mia moglie è fuori di testa».
Di quel racconto terribile, un particolare aveva profondamente turbato Pietro. Non erano stati tanto i calci o gli sputi; per lui, quegli atti, per quanto feroci, rientravano pur sempre nelle selvagge pulsioni umane. Ma l’atto di lordare quei corpi con l’immonda urina, andava ben oltre la bestialità.
Immobile, stette a fissare quel povero padre per alcuni istanti, poi gli pose le mani sulle spalle … tentò di dire qualcosa, ma senza riuscirvi. Prima di uscire, però, quando già era sull’uscio dell’officina, si volse ancora verso di lui e gli chiese: «Carlo Ripamonti … vero?».


* * *


Poco dopo 1’“Operazione Steiner”, l’imponente schieramento di uomini disposto lungo le sponde del Taro, avrebbe presto sferrato il contrattacco finale.
I tedeschi apparivano fiaccati sia nel corpo che nel morale e una sensazione di resa serpeggiava nel campo. Com’era prevedibile, però, immediatamente dopo l’incursione di Pietro e Giacomo, nell’accampamento erano scoppiati furiosi contrasti fra i tedeschi e gli oltre trenta repubblichini aggregati. Questi ultimi, sentendosi traditi, avevano scelto, come unica via di scampo, d’imboscarsi nel territorio circostante. Tuttavia molti di costoro, in poco tempo, e solo grazie alle segnalazioni dei contadini, erano stati catturati da gruppi di partigiani ancora in avvicinamento verso Pianoro. Il commissario Colasanti, intanto, ancor prima d’intraprendere la via del ritorno al “Centro del CLN-Alta Italia” di Torino, aveva indetto l’Assemblea Generale, delegando a presiederla, con un nutrito ed importante ordine del giorno, il vecchio Liberati.
Quando Pietro fece ingresso nel salone, la riunione dei rappresentanti delle varie formazioni era già iniziata da qualche minuto e Liberati gli fece cenno di affrettarsi a prender posto. Pietro incrociò lo sguardo di Rita e di Giacomo che, ben conoscendolo, compresero subito che qualcosa era andata storta.
Liberati proseguì nella sua breve introduzione, evidenziando gli aspetti più disparati della situazione delle valli circostanti, addentrandosi via via nello stato generale della regione.
La guerra di Liberazione sembrava volgere ormai al suo epilogo, l’occupante nazista tradiva vistosi segni di cedimento e la Repubblica di Salò, che nei mesi precedenti aveva dimostrato un’insperata tenuta, cominciava ora a disgregarsi sotto i colpi inesorabili della Resistenza armata. Lo stesso Duce, infine (s’era saputo da fonti attendibili), era in diverse occasioni apparso in pubblico sfiduciato e fiaccato nel corpo e nell’anima.

«… Occorre, quindi, dare la spallata finale, sostenere con ogni mezzo il proletariato urbano impegnato, ora come non mai, in scioperi e sabotaggi fino ad ieri impensabili, ma che ora», concluse Liberati, «devono dispiegarsi in tutta la loro ampiezza sino a sfociare nell’insurrezione di tutto il popolo. La libertà e il destino d’Italia è al suo compimento!».
Subito dopo, intervenne Calcaterra per spiegare minuziosamente le varie fasi del piano. Alcune avanguardie avrebbero dovuto trasferirsi, in assoluta copertura, nelle città di Torino, Biella, Ivrea e Alba per potenziare ed estendere nuclei logistico-operativi armati. Infine lesse l’elenco dei partigiani prescelti con la relativa destinazione: «Giacomo Vergara e il suo gruppo», citò per ultimo, «responsabile politico della Formazione Stella, è assegnato a Torino, e insisterà sulla FIAT Lingotto. Tuttavia», concluse, «Vergara partirà solo quando si sarà deciso qui, in loco, cosa farne dell’ostaggio tedesco. Ma di questo», concluse, «vi informerà dopo e meglio il comandante Liberati».
Prima che la riunione si sciogliesse, grappoli di mani si levarono qua e là per chiedere chiarimenti sul progetto insurrezionale e così la riunione andò per le lunghe a causa di contrasti sorti su alcuni aspetti. Pietro, ad un certo punto, riuscì ad avvicinarsi a Giacomo e Rita e in breve li informò su ciò che poco prima gli aveva raccontato il padre di Italo. Furono momenti di profondo sdegno misto a commozione. «Non deve passarla liscia quel cane rognoso», sussurrò Rita colma d’ira.
Frattanto, quando la riunione stava per volgere al termine e molti s’erano già predisposti ad abbandonare la sala, dal fondo Liberati avvertì: «Un momento, un momento ancora, non abbiamo terminato».
Tutti si volsero verso di lui e ritornò il silenzio. «Vi prego, ancora un istante», aggiunse a sua volta Calcaterra, «dobbiamo comunicarvi un’ultima cosa». Liberati, imbarazzato, dette due colpetti di tosse nervosa, ravviò indietro, con un gesto automatico del capo, i folti capelli bianchi e disse: «Come certamente saprete, dopo la cattura di Steiner, i repubblichini al suo seguito si sono dati alla macchia. Per fortuna, però, ieri notte, come già saprete, grazie al risoluto intervento del gruppo Giustizia e Libertà della Valsesia, avvertito dalla popolazione del luogo, ne sono stati acciuffati parecchi». Liberati s’interruppe, tossì ancora, poi riprese più teso: «Tra costoro risulta esservi, senza ombra di dubbio, pure... Carlo Ripamonti, la Belva. È stato catturato all’interno di una stalla mentre - immaginate!- tentava di confondersi tra il letame. Nello specifico caso di questo criminale, abbiamo subito imposto, fino ad un momento fa, la consegna del più assoluto silenzio per evitare reazioni vendicative tra la popolazione o tra quanti di voi hanno giurato di fargliela pagare. Comunque, se ciò può rasserenarvi, vi confermiamo che è al sicuro e ben protetto».
         La sala ammutolì per qualche attimo. Poi, poco per volta, come dopo un bombardamento, montò il brusio. Pietro avvertì come un rivùgghiu nel petto. Poi tornò la voce vibrante di Liberati che diceva: «Questione di ore e gli si farà il processo».

Il Pescatore riemerse dai flutti con la stessa rapidità con la quale, un attimo prima, era sprofondato. Fu allora che qualcosa di incontenibile, un conato, gli partì dal fondo dello stomaco. Montò ritto sulla sedia traboccante di rancore: «È al sicuro. L’avete sentito, no? Al sicuro e ben protetto!». Poi, come se l’ira gli si stesse sciogliendo, abbassò le braccia e chiese sommessamente: «Dov’è …? portatemelo qui, adesso, che lo scanno con queste stesse mie mani!».
«Ha ragione il Pescatore. Troppo comodo dopo quello che ha combinato in lungo e in largo...», tuonò uno armato fino ai denti dal fondo della sala. «Devi consegnarcelo subito che lo facciamo secco in piazza con tutti i suoi complici», fece eco un altro rivolto al vecchio capo.
Liberati, a quel punto, temendo che la situazione gli sfuggisse di mano, diede subito fondo a tutte le sue facoltà persuasive. «Adesso calmati, Alati; calmatevi tutti. Ragioniamo», cominciò con voce ferma e pacata, «non è più il momento delle esecuzioni sommarie. I tempi sono ormai maturi per avviare fin d’ora l’applicazione della legalità democratica che è l’unica in grado d’imporre azioni veramente forti ed esemplari che siano d’esempio a tutti. La forza della legalità, dunque, anche nei confronti di questo criminale incallito … Che si istruisca subito un vero e proprio pubblico processo; che tutti sentano, che tutti vedano», concluse con piglio deciso, «che tutti sappiano dei suoi orrendi crimini e che paghi per questo ... Solo così potremo riaffermare il primato della legalità, dell’autorità democratica, della giustizia in nome del Libero Governo Democratico Provvisorio d’Italia».
Pietro, con la testa reclinata in avanti e le braccia conserte, restò seduto in silenzio.
«Ma cosa c’entro io con la partenza rinviata per Torino?», chiese a quel punto Giacomo rivolto a Liberati. Era proprio quella la domanda che il comandante aspettava per far sbollire la tensione. «C’entri, e come!», rispose sollevato, «tu, in questo momento, sei la persona più adatta per istruire il processo in tutti i possibili particolari,  per verificare ogni elemento; per tracciare il profilo di questo degenerato; per interrogarlo … e … e … tra una settimana al massimo, condurlo in piazza per il pubblico processo».
Giacomo, dopo un attimo di esitazione, dichiarò che avrebbe accettato l’incarico, ma a condizione che a Pietro Alati e al suo gruppo fosse assegnato il compito, sotto la sua diretta responsabilità, della sorveglianza del prigioniero fino al pronunciamento della sentenza.
Liberati scrutò Pietro e, malgrado in cuor suo poco convinto, rispose: «Non avrei … nulla in contrario».

Dopo le asprezze del giorno precedente, tutto sembrava ora proseguire entro la normalità di una guerra che si avviava verso l’epilogo. Giacomo, seguito da Pietro, Rita ed altri, scese nel seminterrato del Municipio, trasformato in cella d’isolamento, per interrogare il prigioniero. Era stato chiaro, soprattutto con Pietro, nel pretendere il massimo autocontrollo, pena l’immediata revoca dell’incarico. Gli uomini di guardia sfilarono dagli anelli la pesante catena ed entrarono in un ambiente fresco dove soltanto un po’ di luce filtrava da una finestra stretta e lunga, situata in alto, a livello di strada. Sul pavimento, sotto la finestrella, vi era un tavolaccio con un po’ di paglia e a fianco, su un ripiano, una brocca di metallo con l’acqua; in un angolo, poco discosto, un secchio per le necessità fisiologiche.
«Troppo comodo!», commentò a mezza voce Rita.
Ripamonti stava ancora fuori dalla loro vista, protetto dalla penombra. Giacomo girò la farfalla dell’interruttore e il piatto smaltato di luce rischiarò tutt’intorno. Apparve schiacciato contro le pareti dell’angolo più buio, diafano, rigido, i capelli lunghi, l’orecchio deforme. La Belva fece un passo avanti.
«Fermo», gli ordinò secco Giacomo, «devo ordinarti io quando e come muoverti», ed avanzò lui di qualche passo, mentre Pietro e Rita lo seguirono all’unisino. «Siamo stati incaricati», lo informò Giacomo con voce ferma e chiara, «dal Libero Governo Democratico del CLN Alta Italia, di istruire un pubblico processo a tuo carico per gli orribili crimini da te commessi ai danni della popolazione civile e dei combattenti per la libertà. Siamo qui per interrogarti …».
«Stai tranquillo, carogna», si intromise Pietro, «faremo presto …!».
Giacomo lo guardò con aria di rimprovero.
Lo sguardo di Ripamonti, lì, vinto, ripiegato su se stesso, capelli arruffati, uniforme un tempo impeccabile, ora sporca di letame e strappata qua e là, evocavano il disfacimento dell’impero di cartapesta. Ma la Belva ebbe un guizzo di scherno: «Siete stati incaricati … da chi...? Non ho capito bene … cosa sarebbe questo ... “governo democratico” con tutti quegli … appellativi...?». Giacomo sapeva bene come controllarsi, ma non era altrettanto certo di Pietro. Con la coda dell’occhio, avendo intravisto il suo sguardo indignato, aveva anticipato la sua reazione: «Guai a te!», gli aveva sussurrato, afferrandolo per un braccio.
«Mi avete scassato!» reagì il Pescatore. Poi d’improvviso parve placarsi: «Va be’, non mi muovo … non lo tocco neppure, ma un solo piacere ti chiedo: fammici pisciare di sopra».
«Guardie, aprite la porta», ordinò Giacomo a quel punto.
Pietro lasciò in fretta il seminterrato, ma si capiva che non sarebbe finita lì., mentre Rita lanciò uno sguardo a Giacomo come a voler dire “cerca di capirlo!”.
E infatti non finì lì. Non appena fuori, Pietro si accostò alla finestrella bassa, posta a livello di strada, proprio quella che dava sulla stanza della Belva, s’inginocchiò e gridò forte:
«Ripamonti …!».
La Belva, là in basso, alzò d’istinto lo sguardo, e un tiepido getto gli inondò la faccia.

Giacomo raggiunse come una furia Liberati intento nella sua stanza ad esaminare dei documenti e lo informò di quanto accaduto. Quello scosse la testa, si tolse gli occhiali e rispose che era ampiamente prevedibile. Quindi concluse secco: «È emotivamente inadeguato per queste cose. Rimpiazzalo al più presto …!».
Quando Pietro lo seppe, sereno come un angelo disse che non gliene fotteva un bel niente, tanto che quello che doveva fare lo aveva fatto, e che per lui potevano pure liberarlo quel verme assassino: «Ora può pure capitare che la guerra duri altri cent’anni, che nascano altri venti Mussolini e venti Hitler. Non me ne fotte proprio niente, anzi: sono così soddisfatto che lo rifarei non so quante altre volte!».
Gli sguardi di Giacomo e di Rita si incrociarono per un istante ed entrambi accennarono ad un risolino nervoso. Il Pescatore a quel punto si allontanò senza aprir bocca,  ma sentì che la mente e il cuore gli si erano finalmente liberati, e dette un profondo sospiro di sollievo.

Nel primo pomeriggio, come stabilito, Giacomo tornò giù dal prigioniero, ma questa volta soltanto con Rita.    
«Siediti», gli ordinò Giacomo.
Ripamonti ubbidì senza fiatare. I capelli arruffati e gli occhi arrossati tradivano il segno di un pianto recente. «Avresti una sigaretta?», chiese, facendo il gesto con l’indice e il medio protesi, tipico di chi è abituato a pretendere tutto.
«Ascolta», puntualizzò Giacomo con fare calmo e formale, «la sigaretta te la do, ma sia chiaro: devi chiedere per favore e darmi del lei … Qui non sei tra i tuoi compari!».
«Va bene, ho capito», rispose l’altro rassegnato a un confronto più duro del previsto, «ma non credo ci sia granché da discutere».
«Questo lo stabilisco io», tagliò corto Giacomo, e andò diritto là dove, né Rita, né lo stesso Ripamonti, avrebbero mai potuto supporre. «All’Università di Torino», proseguì senza altri preamboli, «quand’ero studente, ho conosciuto … tuo padre …!».
La Belva ebbe un sussulto. «Cosa c’entra adesso mio padre?», rispose rancoroso, «e poi perché la fa cosi lunga?!».
«C’entra, invece. C’entra, e come!», fece Giacomo ancor più determinato nell’affondo. «Ti racconterò tutto quel che so o di cui, molti anni fa, sono stato diretto testimone, tanto da indurmi a scegliere da che parte stare». Si alzò, si ravviò i capelli con le mani, mentre l’altro lo fissò con sguardo interrogativo, chiedendosi forse cosa mai stesse architettando quel buffone che gli stava di fronte.


La tortuosa vita del repubblichino Carlo Ripamonti, così come s’era costruita fin dalla infanzia, rappresentava, sotto molti aspetti, l’immagine speculare della vita di Giacomo e della sua stessa famiglia. Il percorso del primo, però, era andato per sentieri contorti, indecifrabili per chi non avesse avuto la posibilità di conoscerne e comprenderne il contesto entro cui s’era venuta costruendo. Il tratto epocale, che accomunava quella generazione di giovani abbeveratasi a un mondo fasullo e, più tardi, scaraventata in scelte dilanianti, gli aveva impresso forme mostruose, insediato nella sua giovane mente tarli incurabili. Il risultato era stato la Belva, un’impietosa macchina dispensatrice di morte e rovina.
Ancora adolescente, strappato dalla madre austriaca, ammiratrice di Hitler, all’educazione umanistica del padre, aveva subìto l’insulto più umiliante per uno come lui, nutrito dalla madre di virili ideali. Infatti era stato escluso, a causa di quell’evidente difetto all’orecchio, dalle schiere di coloro che il regime eleggeva a modello di sana, perfetta e ardita razza guerriera.  Questa sua anomalia era stata vissuta, nell’intimo dell’infanzia e dell’adolescenza, come un marchio infamante e, pertanto, soltanto da volontario gli era riuscito di arruolarsi nel Battaglione Universitario d’Assalto delle Camicie Nere, organizzazione che, in seguito, si sarebbe particolarmente distinta nella feroce repressione della resistenza armata.
Il professore Augusto Ripamonti, padre di Carlo, titolare della Cattedra di Archeologia dell’Università di Torino, umanista di profonda coerenza morale, era stato tra i pochissimi docenti italiani a rifiutarsi di giurare fedeltà al regime, ben consapevole dei rischi personali e familiari cui sarebbe andato incontro. E difatti, di lì a qualche tempo, era stato al centro di un clamoroso episodio durante una affollata lezione di studenti e … squadristi.

«Io ero li quel giorno», precisò Giacomo, «ero in quell’aula a seguire l’impareggiabile lezione del professore Augusto Ripamonti, cioè di tuo … padre. Tu non sai cosa avvenne, eri ancora un bambino. Non conosci, forse, il reale motivo che lo allontanò da te, dalla famiglia, dall’Italia».
«Non so di cosa parli, né voglio saperlo; ho chiuso con quel mondo, con tutto e tutti. Con quale diritto tu, ora, ti intrometti nella mia vita privata?», disse scattando, «chi cazzo sei tu? Emetti la sentenza e taglia corto».
«Troppo comodo!», ribatté Giacomo, scandendo a voce bassa le parole. «Forse pure gli orrendi crimini contro uomini inermi fanno parte del tuo privato? Che ne dici, ad esempio, della fine di Italo Cervi e del prete di Piedivalle? E delle altre odiose violenze su donne, vecchi e bambini? e delle altre nefandezze? Il tuo privato … Sei solo un criminale!».
        
Là fuori, per quelle tortuose viuzze lastricate, tra quelle casette fra loro abbracciate come in un lamento collettivo, sarebbero stati in tanti disposti a scannarlo sulla pubblica piazza.
Giacomo gli si avvicinò e, con le punte delle dita, lo sospinse a sedersi. «Ora ascolterai fino all’ultima sillaba ciò che ho da raccontarti», scandì puntandogli l’indice contro.

«Il turbinio della così detta rivoluzione dei mazzieri era agli inizi, -esordì Giacomo-. Quel mattino, lo spocchioso esponente di una organizzazione giovanile fascista interruppe con queste parole tuo padre: “Ripamonti, prima che prosegua nella sua chiarissima lezione, le saremmo tutti grati se udissimo dalla sua … viva voce le sue altrettanto chiare posizioni sulla rivoluzione in atto e sulla figura del duce”. Ce l’ho ancora vivo negli occhi il professore, andare avanti e indietro a passi lenti, in un silenzio irreale; fermarsi un istante a riflettere, come soleva fare, col capo leggermente reclinato in avanti, la mano destra chiusa sotto il mento e la sinistra dietro la schiena. “Caro ragazzo -rispose con voce limpida- ho scavato un’intera vita e continuo a farlo; ho riportato alla luce stupefacenti tracce della storia umana; ho studiato mirabili, grandiose architetture quali … pensi, le piramidi, che da millenni ci inseguono con la loro misteriosa grandiosità ed ho decifrato documenti di straordinario valore spirituale ed umano … Ora, lei mi chiede cosa io ne pensi di questo … duce. Non so esattamente a chi si riferisca, ma immagino che per lei sia un monumento di virtù. Tuttavia so pure con assoluta certezza che della sua grandezza o miseria si vedrà a seconda che consegni alla Storia piramidi o … macerie! Ne dubito, tuttavia!
A questo punto un altro esagitato, urlando, chiese al professore di cosa esattamente dubitasse.
“Di che dubito? Ma, ovviamente, caro figliolo  -precisò compassato-  dubito fortemente che possa edificare piramidi”». Una bolgia indescrivibile di insulti e minacce risuonò nell’aula.
«Fuori dall’università, pallone gonfiato … fuori … fuori disfattista … fuori. Altri squadristi, poi, lo circondarono e lo agguantarono, ma tuo padre, uomo imponente qual era, con un paio di ceffoni ben assestati, ne atterrò alcuni. Gli studenti - e tra questi alcuni antifascisti militanti - che fino a quel momento erano rimasti paralizzati dalla scena, riavutisi accorsero in suo soccorso. Ne nacque un furibondo tafferuglio. Tra i soccorritori - coincidenza della vita! - c'ero anch'io, allora giovane studente da poco entrato in contatto con un gruppo clandestino. Ma, in breve, fummo sopraffatti. Gli legarono i polsi e al collo gli appesero un infamante cartello:
INCHINATEVI A UN RARO ESEMPIO DI MUMMIA EGIZIA VIVENTE (ANCORA PER POCO).

Poi, tra sghignazzi e spintoni, lo condussero per corridoi e aule, fra lo stupore di colleghi e studenti. Una strana espressione ironica gli si era disegnata in  volto, una specie di sorriso indecifrabile, come volesse comunicare un messaggio speciale. Tuo padre, pur così volgarmente deriso, con quella espressione che gli brillava in volto, non era stato minimamente scalfito nella sua dignità e fierezza, tramutando quella ignobile violenza in una rilucente vampata di valori civili e morali. In tutti questi anni, poi, mi sono spesso chiesto cosa volesse realmente significare quell’espressione, e penso di aver trovato una risposta…».
Giacomo tacque per alcuni istanti, ma Rita, che aveva seguito il racconto con intensa emozione, lo sollecitò a proseguire. «… Forse sarà paradossale quel che penso da tanti anni, ma credo volesse dire a tutti, che proprio quegli sciagurati come te», concluse fissando più intensamente la Belva, «ancor più dei giovani antifascisti presenti, un giorno gliene sarebbero stati grati».
Giacomo sedette, dando fuoco a un’altra sigaretta. La Belva si pose in piedi, levò pian piano le mani a mezz'aria e ne mimò il gesto del battito, accompagnandolo con parole di scherno: «Bene … bravo … toccante!». Ma non riuscì a celare il tremore che s’era impadronito delle mani e della voce.
Rita comprese che Giacomo aveva colpito nel segno. «Un pubblico processo? Ma va'», rifletté, «sarebbe una penosa farsa! In fondo Pietro ha ragione».
Giacomo l’osservò di traverso, diede un’ultima boccata alla sigaretta, la gettò per terra e la schiacciò col tacco. «Vedi? Tu vali meno di questa cicca!». Quindi si rialzò e ordinò ai compagni di aprire.
Il buio della sera era già sceso quando la porta iniziò a rinchiudersi alle loro spalle. Giacomo esitò un attimo, la bloccò con la mano e, prima di scomparire per sempre, gli parlò per l’ultima volta. «Se ci tieni ti mando un prete, ma dubito che ce ne sia un disposto a sentirti». Girò la farfalla dell'interruttore posta all'esterno della stanza, raccomandò alle guardie la più scrupolosa sorveglianza e scomparve su per le scale seguito da Rita.

Pietro quella stessa sera, dopo aver mangiato un uovo sodo e qualche castagna lessa, si stese supino su un ampio sedile in pietra posto di fianco al fienile. Notò con piacere che il cielo, dopo la foschia del pomeriggio, era tornato limpido e le stelle risplendevano come non mai. "Com'è immenso …!", rifletté, fissando a caso un grappolo di stelle verso sud. E si mise a fantasticare su come, in quel preciso istante, qualcuno della sua famiglia avrebbe potuto scorgerle tali e quali anche da Torrechiara.
Ad un tratto udì un leggero scalpiccio alle spalle e, di riflesso, si pose allerta, ma subito si rassicurò. Era Rita che, di ritorno dall’osteria, dove si era intrattenuta con gli altri, gli disse di averlo cercato. «Sentivo il bisogno di stare a conversare un po’ con te, lontana dalla confusione».
         «Be’, come vedi m’hai trovato e ne sono felice».   
«Ti sei calmato, Pietro?».
«Direi, piuttosto, che mi sono liberato, anche se non avrei dovuto farlo … quello che ho fatto stamattina, con te là presente», cercò di scusarsi, «ma vedi, la carogna si era trovata esattamente sulla mia traiettoria e così...! E poi ho agito d’impulso: ero fuori di me».
«Vedi, Pietro, in ogni caso non avresti dovuto farlo, io presente o meno», precisò Rita, «noi siamo realmente diversi da loro, ma non basta dirlo, dobbiamo concretamente dimostrarlo in ogni attimo della nostra vita ... Ma basta così», troncò, «non è più il caso di parlarne», e, come a volerlo consolare, gli carezzò teneramente il viso. Lui, però, osò trattenerle la mano, non sapendo che il sangue dentro gli si potesse avvampare così. Rita, lì per lì, non sembrò avvertire quel tumulto, fin quando lui non la baciò.


* * *

Liceo (….). Palermo, 1999

M’interruppi per qualche istante. Avevo avuto la sensazione che la narrazione mancasse di un qualcosa, non riuscendo a legare fra loro i rivoli dei ricordi.
Fu Peppino a togliermi dall’incertezza: «Professore», domandò, «ma mentre il Pescatore era lì a lottare tra le montagne piemontesi -glielo chiedo anche per ricollegarmi all'interrogativo di Ruggero di sabato scorso-, cosa succedeva in Sicilia? o, più precisamente, a Torrechiara, per non andar troppo lontano?!».
«E già», risposi, accavallando le gambe, «hai fatto molto bene “voltare” per Torrechiara».

Nello stesso mese, ma dell'anno precedente ai fatti prima narrati -ripresi-, a Torrechiara, al consueto caldo di luglio, un altro genere di alta pressione s’era aggiunto, il che aveva reso l’aria ancor più insopportabile. Il fatto è che tutta la popolazione era stata in agitazione per più giorni nell'attesa che gli Americani, sbarcati un mese prima a Pizzolungo, entrassero in paese. Lo sbarco delle truppe era stato preceduto da ondate di bombardamenti che avevano martoriato le principali città e, una volta avviata la penetrazione di terra, era apparsa evidente l’inconsistenza di qualsiasi serio contrasto nemico. Infatti tedeschi e fascisti erano tatticamente impegnati ad arretrare verso il Nord per preparare -si vociferava- la controffensiva finale. Inoltre l’entrata degli Alleati a Torrechiara, così come avvenuto negli altri centri dell'Isola, era stata preannunciata dal lancio aereo di variopinti volantini.

A quel punto mi alzai: m'ero ricordato d'averne con me un raro esemplare. Avvicinatomi alla cattedra, aprii la borsa e annunciai emozionato: «Ne ho uno con me... eccolo, è ancora immacolato, salvato da mio padre, guardate».
Mi circondarono in una ressa indescrivibile. Si trattava di un foglietto verdino ben protetto da una busta di plastica trasparente che gli studenti, ansiosi di leggere, cominciarono a strapparsi di mano, tanto che temetti il peggio: «Scommettiamo», gridai, ma in cuor mio ero raggiante, «che, dopo avere resistito per oltre mezzo secolo, voi ora me lo distruggete in un secondo?».

“AMICI SICILIANI! VENIAMO IN PACE A LIBERARVI DALLA DITTATURA. MOLTI DI NOI SONO FIGLI DI SICILIANI EMIGRATI TANTI ANNI FA E TORNANO TRA VOI COME FRATELLI PER AIUTARVI A RINASCERE. PRESTO SAREMO ANCHE NEL VOSTRO PAESE. LUGLIO 1943.
COMANDO GENERALE DELLE FORZE ARMATE ALLEATE.

In paese, dunque -ripresi- l'ondeggiante discesa delle variopinte “farfalle”, in un’atmosfera di arcana magia, era stata osservata con indifferenza solo apparente. Nessun adulto, infatti, s’avìa calatu a raccoglierle, ma l’ostentazione di quella furbesca indifferenza, non aveva impedito ai loro bambini di rastrellarli, sciamando euforici per le strade. Soltanto poco dopo, nel chiuso delle loro case e ben al riparo da sguardi indiscreti, i grandi avevano potuto soddisfare la curiosità repressa.
Si era lontani, dunque, dalle furenti passioni che agitavano i cuori ribelli del Centro-Nord, dove serpeggiava una miscela d'insidie, sospetti, vendette, ma dove pure vi era la consapevolezza di dover rifare l'Italia con le proprie mani; vi era la corale rivolta di un popolo che, pur dilaniato e provato, offeso dalla feroce occupazione, contrapposto e umiliato, tuttavia prendeva finalmente in pugno il proprio destino, costruendo dal basso i presupposti della democrazia e della libertà per tanto tempo negate.

A Torrechiara, invece - cari miei -, a scuotere la popolazione era bastata la modesta attesa dei fratelli d'Oltre Oceano: una fatalistica condizione vissuta con guardinga, curiosa novità, così come - lasciatemelo dire, ragazzi - sarebbe forse accaduto in presenza di qualsiasi altro liberatore. Non era forse stato questo il segno distintivo nei secoli? Cambiava soltanto che ora era arrivato il tempo degli Americani. Ma, a ben guardare, non era poi tutto così scontato. C'era, infatti, un tratto inconfutabile che riequilibrava -se così si può dire- le parti: di Siciliani, fuori dalla Sicilia, ve ne erano a migliaia impegnati tra le formazioni partigiane del Centro-Nord.

Perfetto interprete di quell'attesa, ben collocato in prima linea, era il parroco Don Roberto Lino, da qualche tempo soprannominato dai ragazzi dell'Azione Cattolica Padre Sventola.
Giunto a Torrechiara subito dopo la partenza di Pietro per la guerra, in breve tempo era riuscito a guadagnarsi stima e simpatia soprattutto fra quell'esigua fascia di giovani rimasta in paese. Apparteneva a famiglia facoltosa e proveniva dalla provincia di Trapani, da Erice per l'esattezza. Il padre era stato primario dell'ospedale psichiatrico di quella cittadina dove aveva profuso un intenso impegno innovativo e, per ciò stesso, fortemente avversato dalle baronie mediche e dalle gerarchie del fascio e certamente, anche grazie al clima respirato in famiglia, Don Roberto non poteva certo annoverarsi tra i più convinti sostenitori del regime. Gradevole nei modi e nell'aspetto, arguto e dinamico, con la tonaca sempre svolazzante e impolverata, si dimostrava permeabile ad ogni novità che, in qualche modo, potesse sempre tornare utile al bene di tutta la popolazione. II vescovo, quando l'aveva convocato per comunicargli la nuova destinazione, ben conoscendo la sua indole e la matrice culturale e familiare, aveva molto insistito con lui sulla necessità di tener sempre chiaramente distinta l'azione pastorale dalla politica, volendo con ciò intendere che qualsiasi critica contro il regime sarebbe stata quanto meno inopportuna. Ma lui aveva sempre saputo barcamenarsi senza dover mai rinunciare alle proprie idee.
E così, nella trepidante attesa dei liberatori, s’era fatto carico proprio lui del ruolo di padrone di casa. Infatti, per più d'una settimana, un paio di volte al giorno, primo mattino e primo pomeriggio, seguito da un drappello di ragazzotti e munito di un binocolo e di due bandiere, il tricolore e un drappo bianco, raggiungeva la “nazionale”, sostando sulla sommità della così detta “Acchianata râ Maruonna” in modo da poter meglio scorgere l'arrivo dei liberatori e accoglierli nei modi dovuti. A due di quei ragazzi al seguito, inoltre, aveva stabilmente assegnato il compito di tenere ben ripiegati sotto il braccio, l'uno il drappo bianco, l'altro il tricolore. In mezzo a loro, infine, s'installava puntualmente lui.
«Mi raccomando», scandiva ogni volta, «quando li vedete in lontananza, sventolatele ben bene!». I ragazzi, che dopo giorni e giorni di questi andirivieni l'avevano preso a scherzo, prima ancora che iniziasse con quella raccomandazione, lo anticipavano in coro: "… sventolatele ben bene...!". Da qui, dunque, il soprannome di Padre Sventola. Egli, tuttavia, non mostrava di dar peso a quel gioco innocente, più segno d’affetto che d’altro, consapevole d'essere proprio lui, almeno in quel periodo, l’unico punto saldo di riferimento. Certo, c'era pure quel Nino Sacco, ma quella era un’altra storia!
La chiesa di don Roberto era così divenuta l'unico vero centro di ricovero in grado di confortare chiunque bussasse alla sua porta. La maggior cura, tuttavia, la dedicava ai pescatori, i quali, più di altri, erano privi d'ogni genere di nutrimento che non fosse quel po' di pesce  -quando si pescava- e che pochi, pochissimi burgisi scambiavano con i prodotti della terra. Financo i braccianti, a confronto di quei diseredati, sembravano dei signori: almeno quelli calzavano ancora gli scarponi, anche se accomodati, e capitavano, con un po' di fortuna, un tozzo di pane nero e qualche oliva in cambio delle loro braccia.

L’idea, poi, di esporre il drappo bianco, aveva poco per volta contagiato tutti e così, nel giro di qualche giorno, i terrazzini e i balconi del corso principale si erano riempiti d'un permanente, candido sventolio.
Soltanto il solito Nino Sacco (ricordate, ragazzi? l'anziano parente di Pietro, il solo antifascista dichiarato del paese) non si era fatto contagiare. Sacco se ne era pure lamentato e un giorno, incrociandolo, gli aveva detto: «Perché, Padre Lino, quelle pezze bianche? Sono il simbolo della resa …!».
«Ma come sarebbe a dire, Sacco», gli aveva risposto don Roberto, «non gliene cala dritta nessuna, si tratta della fine del Fascismo a causa del quale lei ha sempre sofferto».
«Già, ma i fascisti dove sono?», aveva ribattuto Sacco, guardando in giro con fare istrionesco. «Io vedo solo un popolo che ha subito per vent’anni e che ora sventola la … pezza bianca!».
«Faccia come vuole, rispetto la sua sensibilità cromatica», aveva risposto ironico don Roberto.
«Che cosa è cambiato?», l’aveva interrotto Sacco, «il popolo era stato ingannato, gonfiato d’aria fritta … con la bandiera bianca». Infine, prima di lasciarlo, aveva sibilato:
«Soltanto la bandiera della Trinacria, mi raccomando, don Roberto».
«Sacco, non se ne accorge? Pure lei fa aria fritta!».

Padre Lino, pur vivendo da poco tempo a Torrechiara, conosceva a menadito le vicende personali di ciascuno dei suoi parrocchiani più in vista. Su Sacco, però, se ne raccontavano di storie, tanto che, alla fine, si correva il rischio di credere a tutto e al resto di niente. Che, ad esempio, per quasi tutto il periodo degli Anni Venti fosse vissuto da operaio a Milano, non ci pioveva. Quelli erano stati anni in cui il regime aveva cominciato a muovere i primi passi, con le note violenze e gli assalti alle Case del Popolo. Nei Centri industriali come Milano, dove Sacco si era certamente distinto per pesantezza di mani, se ne erano visti di scontri cruenti con gli squadristi. Ma ad un certo punto le voci sul suo conto si tingevano talmente di macabro da apparire inverosimili. Si diceva, a questo proposito, che, per vendicarsi di un torto subito, avesse assassinato nel sonno un caporione fascista milanese e sua moglie dopo essere penetrato nottetempo nella loro abitazione. Ma non è tutto: avrebbe loro mozzato la testa e, immediatamente dopo, avrebbe in fretta e furia cambiato aria.
Non si capisce bene come queste notizie fossero giunte a Torrechiara, ma sta di fatto che qualcosa di ambiguo si annidava nei suoi trascorsi “politici”. Lui, invece, aveva a suo tempo giustificato l'improvviso ritorno a Torrechiara col fatto che in quella città le fabbriche erano divenuti luoghi invivibili, dove si conduceva una vita veramente grama, soprattutto con l'inizio dei turbinii e che, quindi, tanto valeva starsene a patire in casa propria.
Dunque, Padre Lino non era ancora riuscito a decifrare quanto di genuino vi fosse in quella sua ostentata avversione al regime. Il giovane prete molte volte s'era arrovellato con quei pensieri poiché avvertiva d'avere a che fare con una personalità davvero complessa e, se pur scettico sulle chiacchiere circolanti, non poteva del tutto escludere il vox populi, vox Dei.
Ma ad appesantire il suo profilo, ci si era pure messo un fatto fresco fresco, risalente ai primi di luglio di quel ’43. Da quando il regime aveva cominciato a scricchiolare e si erano fatte sempre più insistenti le voci d'un imminente sbarco alleato, diversi voltagabbana di Torrechiara si erano messi a ronzargli intorno, speranzosi di ricavarne qualche vantaggio. Un giorno, per l'appunto, dinanzi al circolo dei contadini, in un tardo pomeriggio afoso, il cavaliere De Stefani, un notabile, uno dei pochi che in paese circolasse in “topolino”, un caporione che nel periodo felice ne aveva fatte di cotte e di crude, gli si era avvicinato con fare mieloso e, conversando del più e del meno, era finito sulla necessità di “guardare al futuro”, fondando, cioè, la sede di un certo partito.
«Ma guarda un po'», aveva detto Sacco fingendosi sorpreso, «mi ha letto dentro … nella testa, cavaliere; ma come ha fatto? Prima che lei arrivava, ci stavo pensando e, visto che me ne parla, ora che lo guardo bene, penso che vossia sarebbe proprio la persona adatta per dirigere questo nuovo partito, quando sarà...».
La popolazione sapeva istintivamente cogliere certe sfumature, ma questa soffusa consapevolezza popolare non sarebbe stata in grado di impedire la piega degli eventi futuri.

Il 23 luglio, in modo inaspettato, gli Americani erano finalmente entrati. Ma non di primo mattino, né di pomeriggio e quindi, dopo i numerosi “lupo al lupo”, non erano stati accolti sulla sommità dell’ “Acchianata” da Don Roberto Lino ed i ragazzi sventolanti pezza bianca e tricolore.
L'antico quadrante del campanile, infatti, segnava le 14 in punto quando la jeep, che guidava la lunga colonna, aveva imboccato il corso principale a quell'ora quasi deserto per la calura estiva.
I raggi del sole a picco, rimbalzavano ignari su tutto quel bianco sventolio che giungeva fino al mare. La jeep aveva rallentato esitante; infine s'era arrestata. Il capitano d'origine siciliana Joe Ciliberti aveva poco dopo fatto segno di riprendere lentamente: non per timore o per cautela, ma solo per prolungare il piacere che gli aveva suscitato quel quadro stagliato là in fondo, come olio di scorcio marino. Laggiù, guardando verso levante, nel limite estremo di una punta su cui si ergeva una torre, aveva colto l'inconfondibile mutare del vento e i palummeddi, le lievi increspature di candida spuma che si rincorrevano qua e là a fior d’acqua. Aveva sorriso, inspirando la lieve brezza marina, ed era come se quel luogo, così vario e colorato, gli fosse sempre appartenuto. Lungo i marciapiedi, poi, a ridosso di case basse con facciate bianche, rosa e azzuolate, s'arrampicavano fichi e pergolati fin sui terrazzini, creando ridenti tettoie di verde frescura. Il tutto, osservato da lontano, gli aveva offerto un unicum essenziale che echeggiava i racconti dei suoi nonni emigrati tanti anni prima in America.
La jeep s'era di nuovo arrestata: il capitano non avrebbe voluto più staccarsi da quell'insieme impareggiabile, ma un ragazzino, accortosi del loro arrivo, era corso ad avvertire i grandi di casa. Incredibile la rapidità con la quale si era diffusa la notizia: prima s’era sentito montare un lieve brusio, fattosi presto fragore, onda fluttuante che aveva investito le estreme contrade, fin nei più recessi angoli di Torrechiara.
Ormai la colonna si era tanto addentrata da essere sommersa da incontenibile entusiasmo. Era iniziato il lancio di giugamme, prede ambite spasmodica dei bambini illusi che il masticare senza fine potesse placare i morsi della fame. Ma erano pure volate gallette, scatolame d'ogni genere e profumate Camel mai prima conosciute. Infine la fiumana era confluita in Piazza Duomo, nel cuore pulsante del paese. Circondata da vecchi melangoli, racchiusa tra gli antichi palazzi della borghesia agraria, sembrava la vera testimone degli eventi. Nella parte bassa, accanto al monumento ai Caduti della Grande Guerra, stava ritto un paladino vestito di nero, Don Roberto, col solo tricolore in pugno e lo sguardo fiero. “Qui sarà il popolo a decidere!”, sembrava volesse ricordare a tutti. Ma in cuor suo presentiva che così non sarebbe stato, avendo incrociato lo sguardo di Nino Sacco che, a poca distanza da lui, faceva scorrere compiaciuto i pollici lungo le bretelle.
Intanto dalla Chiusa, il grande spiazzo sul mare, dove i pescatori solevano rammagliare le reti, era salito a far festa anche il vecchio Mercurio, cioè, mio nonno, il padre di mio padre e di Pietro. In quel momento il vecchio Alati aveva pensato a suo figlio di cui non aveva da gran tempo notizie e in cuor suo pregava di poterlo avere presto lì, con loro. Ma nessuno poteva immaginare che sarebbero trascorsi ancora altri due anni prima di poterlo riabbracciare.


* * *


Spesso mi era accaduto d’assopirmi in treno durante il viaggio di ritorno, ma mai di addormentarmi come quel sabato. Il fatto è che era stata una settimana faticosa e un’insolita stanchezza, anche mentale, sembrava aver preso il sopravvento. Ma, a parte tutto, ciò che veramente mi impensieriva era il dover convincere Irene a riconsiderare l’opportunità di quel dannato comizio.
“Le foto!”, riflettevo, “le foto... Figuriamoci, prenderanno tempo, confonderanno tutto, corromperanno qualcuno e faranno sparire i negativi ... Ma poi, cosa le salta in mente? Forse è impazzita ...! mostrarle in un comizio! La convincerò ... la convinceremo a consegnare il tutto in Procura, senza ricorrere a questi atti eclatanti che non fanno cambiare di un millimetro la testa delle persone. Lei dice che si squaglieranno come neve al sole, ma vorrei proprio vederlo”.
Con questi pensieri mi addormentai, scivolando pian piano in incubo. 
Mi trovavo in una stanza al piano superiore della villa di Irene. Improvvisamente la porta si apriva e compariva Ruggero seguito da tutti gli altri della terza C. Tenendosi per mano davano vita ad un gaio girotondo, intonando con voci angeliche il Va' Pensiero di Verdi. Terminata l'ultima strofa, mi scagliavano addosso i loro libri di storia mentre io cercavo di ripararmi, di scansarli. Infine, come la cascata di un torrente, sfiorando il pavimento, fuoriuscivano dalla finestra spalancata, precipitando nello spiazzo antistante. Disperato, tentavo di bloccarli, ma una forza invincibile mi inchiodava al pavimento. Lottavo strenuamente e, finalmente, riuscivo a correre al pianoterra dove, proveniente dalla cucina, udivo un lieve ticchettio. Mi arrestavo e, sbirciando dalla porta socchiusa, scorgevo Irene di spalle, appollaiata su un'enorme poltrona, intenta a digitare chissà quali messaggi alla tastiera di un computer. Lo faceva con incredibile, irresistibile trasporto, come fosse collegata ad esso da una specie di cordone fluorescente, mentre lievi scintille fuoriuscivano dalla tastiera che sfiorava appena coi polpastrelli delle dita. Volgendomi poi sulla sinistra, notavo qualcosa che mi attraeva e turbava ad un tempo: un grande dipinto naif, raffigurante un gruppo di persone acconciate in modo bizzarro, occupava l’intera parete. Da esso emanava una misteriosa energia: personaggi palpitanti, simili a paladini, si mescolavano a nebbiosi paesaggi e a struggenti lamenti, a tintinnar di lame e a luccichii di armature con ondeggianti piumaggi. Un corpulento e impenetrabile uomo, che sembrava a capo della chiassosa ciurma, montava un imponente destriero color carbone dalle forme perfette, che nervosamente raspava con uno zoccolo il suolo polveroso. Sullo stesso destriero, una donna senza volto, il capo ricoperto da un elmo piumato da cui fuoriuscivano fluenti riccioli che ricadevano sul viso inesistente e, come un Angelo Gabriele, una grossa spada rilucente in pugno rivolta al cielo. Il capobanda sembrava proprio fossi io, ma nello stesso tempo non lo ero, soltanto mi somigliava come fosse me stesso. Ma in cuor mio sapevo chi fosse ... Era come se la storia si stesse riavvolgendo in una spirale senza tempo e senza spazio. Colui che non era me stesso, poi, traeva dal nulla, agguantandoli per i fili, pupi lignei di superba fattura. «State tranquilli, siamo al vostro fianco!», dicevano in coro.
Irene, intanto, continuava impassibile a digitare, mentre la stampante sputava fogli bianchi. Non sembrava per nulla far caso alla mia presenza fin quando, colui che non era me stesso, con voce cavernosa, urlava: «Siamo qui, siamo qui!». Allora si volgeva verso di me e mi accorgevo che anche lei era priva di volto.

La paffuta mano del capotreno mi scosse: «Professore … professore … è arrivato, siamo a Torrechiara. Se non scende subito, finisce a Trapani!».
Accanto alla bicicletta, affogato nell’eterno cappotto grigio, fui sorpreso di trovarvi Franco. Raramente era accaduto in passato. L'ultima volta era stato nel ’92, per l'improvvisa morte di mio padre.
«Che ci fai qui? Ch'è successo questa volta?», gli chiesi allarmato.
«Non c'è tempo da perdere, lascia qui la bici e sali in macchina, la riprenderemo stasera».
«Ma, insomma, che caspita succede? Vuoi spiegarti?».
«Un bordello succede: questa notte qualcuno è entrato in casa di Irene. È  terrorizzata e non s’è ancora ripresa … Soltanto in mattinata è riuscita a liberarsi e ad avvisarmi. Tu eri già partito da un pezzo, ho immediatamente chiamato Mario e ci siamo precipitati».
Impallidii, aderii allo schienale e chiesi con un fil di voce se le avessero fatto del male.
«Nulla, per fortuna. Solo paura, una gran paura, sta' tranquillo, sarà lei a raccontarti il resto… in fondo è una donna forte, lo sai. Ora sta meglio, le abbiamo dato un sedativo e ha riposato un po'».
«Avete avvisato i carabinieri?».
«Ma quando mai: lei non ha voluto saperne».
«Come non ha voluto saperne? In questi casi è la prima cosa da fare».
Franco non rispose. Infilò l'ultima curva, sfrecciò oltre il cancello e s'arrestò nello spiazzo a pochi centimetri da una grande fioriera.
         Irene ci aspettava in cucina, seduta sul divanetto accanto a Mario, una gamba ripiegata sotto, come soleva fare, l'altra penzoloni. Non l'avevo mai vista in quello stato, i capelli scomposti, il volto teso e gli occhi stralunati. Schiacciò la sigaretta nel posacenere e mi venne incontro a stringermi forte. Provai tenerezza e la sentii fragile come non mai.
«Ho avuto tanta paura da non poter parlare», mi disse con voce rotta.
La staccai da me per osservargli meglio il viso.
«Racconta, racconta tutto, non trascurare nulla» le dissi.
«Saranno state più o meno le tre di notte», cominciò tremante, come a rivivere quei momenti. «Dormivo profondamente quando qualcuno ha acceso il lume del comodino. Mi sono svegliata di soprassalto ... credevo di sognare … chissà da quanto erano lì ad osservarmi. La mente mi si è annebbiata dal terrore: due uomini, col viso coperto da calze di nylon e con guanti di lattice, mi stavano di fronte». Inspirò profondamente, le si affilò il naso e proruppe in pianto.
Irene, dopo essersi un po’ calmata, aveva proseguito nel racconto, spiegando come si era ritrovata immobilizzata, con la bocca tappata da un grosso cerotto, con poca aria ... paralizzata … perduta ... e con tanti, tantissimi pensieri, i peggiori ...!
A quel punto Franco e Mario, facendomi cenno che sarebbero tornati in serata, si allontanarono con discrezione.
«Sta' calma, sii forte, continua, racconta», l'esortai ancora, sfregandole il fondoschiena e stringendola più forte a me. «T’hanno minacciata con le armi?».
«No, no, magari l'avessero fatto», rispose tra i singhiozzi, «avevano una freddezza … una calma … e si muovevano con tale sicurezza da penetrarti nelle ossa peggio di una lama».
«Insomma, che t’hanno fatto …? cosa volevano?».
«Niente, non m'hanno fatto niente a parte legarmi e imbavagliarmi», rispose staccandosi da me e rimettendosi sul divano. Sembrava avesse riacquistato sicurezza, ma, osservandola meglio, notai ch'era ancora terrorizzata. Improvvisamente riprese: «Esca i negativi, signorina», questo m'hanno detto, «e nessuno le farà male. E mentre uno dei due parlava, l'altro, quello basso, come a farlo per caso, ha appena spostato il lembo del giubbotto, scoprendo una pistola enorme infilata nel cinto. A quel punto mi si è gelato il sangue!».

Mi abbandonai sul sofà tenendo il viso tra le mani. «Lo credo bene che ti si è gelato …  Ma io me lo sentivo, me lo sentivo», sussurrai, «ma come cavolo hanno fatto a sapere?!».
Irene si rialzò di scatto e, come se un mostro le si rotolasse dentro, iniziò un nervoso andirivieni per la stanza. Poi s'arrestò di colpo, accese un'altra sigaretta e, mentre una voluta di fumo le avvolgeva il volto, con voce arrochita aggiunse: «Eravamo in cinque a saperlo, noi due inclusi».  
Sentii di vivere il passaggio più amaro della mia esistenza e per giorni mi sentii trafitto come un San Sebastiano. Il pensiero che tra i miei migliori amici, coloro con i quali avevo da sempre condiviso ansie, lotte e ideali, potesse annidarsi un traditore, mi svuotava l'anima, come fossi scollato dal mondo. Mi chiusi in me stesso e per giorni non volli sapere più nulla di nulla, e di nessuno.
Unico spiraglio, attraverso cui mi riusciva d'intravedere ancora una flebile luce di speranza, l'ansia di raccontare ai miei studenti.



TERZO ED ULTIMO SABATO

Il non ritorno


Giacomo, nel corso della notte, così come stabilito, si apprestò a partire alla volta di Torino per svolgervi il compito assegnatogli dal Comando di Pianoro
Tutto, tranne qualche piccolo intoppo, era stato predisposto con cura. Pietro e Rita, per un lungo tratto, lo avrebbero accompagnato, con un sidecar sottratto ai tedeschi, fino all'incrocio con la statale da dove avrebbe proseguito con altri. Nella prima serata Rita e Pietro l'avevano aiutato a preparare una valigia procurata in paese, poiché lo zaino, una volta in città, avrebbe dato subito all’occhio, ma vi era stato ben poco da mettervi dentro. Aiutarlo, in realtà, era stato un pretesto per sentirsi ancora vicini. Tutt’e tre avvertivano d’essere a una svolta importante nella loro vita di combattenti. Mangiarono una specie di castagnaccio e alcune uova sode mentre a Giacomo riservarono pure un pezzo di lepre arrosto.
 “Sarà diverso in città, tra quelle fabbriche, con nuove insidie”, rifletteva Pietro, “chissà chi incontrerà”. Gli spiaceva tanto doversene separare proprio allora che le cose volgevano al meglio. Era un vero amico. “Gli amici veri”, gli aveva spesso ripetuto suo padre "solo nel mare tempestoso, tra la vita e la morte, te li trovi accanto”. E infatti, Giacomo era stato tra i pochi, oltre a Rita, che nel turbinio di quella vita aveva saputo apprezzarlo, capirlo, infondergli fiducia.
Il sidecar, guidato da Pietro, con Rita incollata alle spalle, andò tranquillo, infilando sicuro le curve. Tuttavia né il fresco della notte, né Rita alle spalle, riuscirono a scacciare i tristi presentimenti che gli si affollavano. Giacomo, rannicchiato nel vano a fianco, a un certo punto disse: «Su, musoni, non siamo a un funerale … Cantiamo!», e con voce baritonale, ma stonato come una campana, diede il via al famoso “Vinceremo!”.
Terminato il canto, Rita commentò di non avere dubbi sulla “vittoria”, ma si chiese pure cosa sarebbe successo a loro, a tutti, dopo aver vinto.
         Giacomo corrugò la fronte e non poté fare a meno di condividere l’interrogativo. «Anch'io in questi giorni me lo sono chiesto tante volte», rispose, «ma chi può saperlo!».
«Io invece lo so», intervenne Pietro, «tornerò a Torrechiara per cambiare un po' di cose».
«Ne sei sicuro?», chiese Giacomo, «cosa ti fa pensare che al tuo paese esistano ancora … cose?». 
 «Cose forse no, ma teste sì!», ribatté il Pescatore.
 Scoppiarono a ridere e ripresero a cantare come tre ragazzini spensierati.
 Al crocevia giunsero con qualche minuto d’anticipo, il tempo necessario di abbracciarsi e di scambiarsi le ultime raccomandazioni.
Quasi albeggiava quando, dalla curva in fondo, sbucarono i fari strabici di un camioncino. Si arrestò appena di fianco e udirono una voce che chiedeva se fra loro c‘era Giacomo Vergara.
«Sì, sono qui, un momento solo e sono da voi». Poi, rivolgendosi a Pietro e Rita: «Cari miei, non potete sapere», disse, stringendoli ancora in un unico abbraccio, «quanto sia stato importante per me vivere con voi questi due anni!».
«Ora non esageriamo...! Con tutto quel che ha combinato questo furfante qui», disse Rita ammiccando, «dobbiamo ringraziare il cielo se siamo ancora in piedi».
Pietro finse di assestarle una manata sulla spalla e risero, ma, in realtà, avrebbero voluto piangere! Mentre Giacomo montava svelto sul mezzo e già partiva, Pietro ebbe ancora il tempo di domandargli: «Ci rivedremo, vero, quando tutto sarà finito?».
«Certo, ci rivedremo... a Torino, ne sono convinto», rispose, «ma tutto non finirà, il difficile dovrà ancora venire. Viva la Libertà!», gridò, è scomparve dietro la curva.

Pietro e Rita, nel tragitto di ritorno, rimasero quasi sempre in silenzio. Lei, di dietro, continuò a stringerlo forte e questo bastò ad entrambi. Il vento, ancora freddo, le arrossava gli occhi e scompigliava i riccioli. Saldata alle sue spalle si sentiva serena, pervasa da una sottile felicità come quando, bambina, uscendo da scuola, trovava sua madre a braccia aperte. Fino a poco tempo prima, il ricordo d'essersi sottratta all'assurdo destino dei suoi, l'aveva tormentata, schiacciata fra il tradimento e la colpa e, addirittura, a volte anche tentata, nel suo intimo, d'abbandonare la lotta e consegnarsi ai carnefici. Era stato un pensiero inconfessabile, un lampo di sconforto che, di tanto in tanto, l’attraversava. Ma ora, col suo uomo che stringeva a sé, che sentiva buono, d'una bontà forte e sicura, quale diritto aveva di forzare il destino? La guerra era al suo epilogo e presto anche per loro sarebbe iniziata una nuova esistenza: non importa quale, purché si lasciassero alle spalle quell’infame guerra.
Il sidecar continuò ad arrampicarsi tra i silenziosi castagni e presto si accorsero che già era l’alba. Fu allora che lui si volse appena per avvertirla che, una volta a Pianoro, il tempo di una breve sosta, e avrebbero dovuto rimettersi in marcia per trasferirsi in Val d’Ossola dove la situazione permaneva difficile. «Siamo stati troppo tempo inattivi in questi giorni», commentò quasi urlando per superare il rombo del motore.
«Va bene, ma se vuoi il mio consenso», disse lei ridendo, «devi prima darmi un bacio».
«Ma guarda la pazza … come faccio mentre guido? ci  spezziamo il collo …!».
«Maramaldo che non sei altro, te lo spezzo io il collo, con un morso da vampira», disse divertita facendo il vocione, e gli assestò un leggero morso, proprio lì, alla base del collo. Pietro ebbe una scossa di solletico e perse per un istante il controllo del mezzo. «Mio Dio... tieniti forte!», urlò.
Nel fazzoletto di erba soffice e pulita, c'era una sola pietra, una sola, aguzza, celata fra l'erba. Chissà da quanto tempo stava lì ad aspettare.

Pietro vagò senza meta nel prato. «Perché … perché … perché?!», ripeté più e più volte senza ottenere risposta, «se proprio dovevi, perché proprio così … proprio ora, dopo quello … dopo quello … dopo quello che hai … che abbiamo vissuto?!».
Le tornò vicino, le sollevò la testa sanguinante, scostò i riccioli dagli occhi ormai spenti e la strinse forte a sé. «Fra qualche tempo», le sussurrò, «chi si ricorderà di te? Chi dirà il tuo nome? Solo io … solo io … solo io …!».


* * *

Estate e autunno erano già volati via quando, il 9 marzo del '45, nell'ora stabilita, le sirene delle fabbriche assordarono l'aria. Nelle città industriali del Centro-Nord si levò formidabile la volontà di farla finita. Operai ed operaie a migliaia incrociarono le braccia: fu l'inizio dell'insurrezione. Tutto, a prezzo di sangue e di indicibili sacrifici, si era svolto come previsto.
L'attività resistenziale nelle città aveva definitivamente frantumato ogni residua illusione degli occupanti e dei loro complici, mentre la mostruosa macchina di sterminio nazista, che mai mente più perversa avesse scientificamente concepito e realizzato, veniva mostrata alla coscienza incredula del mondo.
Un mese e mezzo dopo, il 25 aprile, le formazioni partigiane, guidate dai massimi esponenti del CLN, abbandonarono in massa montagne e valli, dilagando verso i punti nevralgici delle città. Si concludeva così la fase più sconvolgente della guerra, ma scoccava pure l'ora della ricostruzione, l'ardua impresa del risanamento morale, civile ed umano, ancor prima che materiale, dell’Italia, dell’Europa.

Pietro, abituato da sempre agli immensi spazi, avendo perso i contatti con i suoi compagni a causa della confusione, si muoveva impacciato tra folla e i palazzoni cupi di Torino. “Se almeno rintracciassi Giacomo”, pensava, “se potessi parlargli anche un solo momento … raccontargli di Rita, salutarlo per l’ultima volta prima di partire per la Sicilia …!”. Con occhi ansiosi guardava dappertutto nella speranza di scorgerlo fra il mare ondeggiante di tutte quelle teste anonime, e finiva, invece, per distrarsi, catturato, magari, da particolari insignificanti.
Ad un tratto dal fondo dell’immenso viale, montò improvviso un gran brusio. La folla s’aprì a fatica, premendo in ogni direzione e fra due ali penetrò un’altra fiumana guidata dai maggiori capi dell’antifascismo e della Resistenza. Tra quelli riconobbe subito l'imponente figura di Pompeo Colasanti e si sentì per un po’ confortato. Appena dietro, a spezzare il corteo, notò alcune auto imbandierate che trasportavano sui predellini, in precario equilibrio, grappoli di partigiani e proprio tra questi gli parve di riconoscere Giacomo. «Ma, sì», urlò, «è lui... Giacomo». Chiamò più forte, «Giacomo... Giacomo... sono io, il Pescatore, sono qui». Ma non poteva udirlo. Lottò, guadagnò a fatica qualche metro, urlò più forte che poté. Giacomo finalmente sembrò percepire qualcosa. Volse lo sguardo teso in ogni direzione e, infine, lo arrestò su una sagoma che saltava tra la folla come un capriolo: lo riconobbe, gli s’illuminò il volto e prese a salutarlo, agitando più forte che poté il berretto stretto in una mano. Ma Giacomo non poté accorgersi che gli occhi di Pietro non avevano più la stessa luce.
«Sto partendo, addio … Rita non c'è più!», urlò Pietro con voce strozzata. Non poteva sentirlo per il gran brusio e la distanza, e poi le auto erano andate già oltre. «Ti giuro, ci rivedremo! Te lo giuro!», fece appena in tempo a udire Pietro. Stette ancora un po’ a seguirlo con gli occhi finché la marea non l’inghiottì del tutto. Fu a quel punto che il Pescatore si sentì risucchiato dal richiamo della famiglia, della sua terra. Sapeva d’aver fatto la sua parte e nulla, proprio nulla, aveva da rimproverarsi. La famiglia aveva bisogno di lui. “Se prima della guerra c’era fame”, pensò, “cosa ci sarà adesso?”.
         Superò a fatica la calca, portandosi sotto il porticato di una fila di palazzi che percorse a fatica finché svoltò al primo angolo e, come per incanto, si ritrovò in una strada più tranquilla. Proseguì ancora e, mentre la folla continuava a diradarsi, finì senza accorgersene in un quartiere quasi deserto, con palazzi grigi, addolciti qua e là da bandiere sventolanti dai balconi. Il silenzio, rotto di quando in quando dal rimbombare di voci incomprensibili, appariva irreale. Era stanco e affamato, svuotato dentro. Si fermò a riflettere seduto sugli scalini di un portone. Accese una sigaretta per smorzare la fame, ma fu inutile, anzi peggio: si sentì nauseato e la spense dopo un paio di boccate; socchiuse gli occhi e cominciò a ripassare l’occorrente per il viaggio come se avesse dovuto portarsi appresso chissà che. “Ho tutto a posto, mi pare: gli scarponi di riserva, che sono la cosa più importante; il lasciapassare del CLN; la rivoltella con un po’ di munizioni e le sigarette. Non mi resta, adesso, che chiedere quale strada pigliare”. Ma ebbe un sussulto. “Porca miseria, non ci avevo pensato: quanta strada... duemila chilometri, non si scherza!”.  
Proprio in quel momento la palazzina dirimpetto fu circondata da uomini armati che, senza parlarsi, si scambiarono segnali d’intesa. Altri ancora, nel volgere di pochi attimi, ne sopraggiunsero: due, come falchi, scesero al volo dalle biciclette lasciandole rovinare lungo la cunetta; alcuni si disposero agli angoli delle strade contigue con le armi spianate; due o tre si appostarono dietro gli alberi, mentre i primi arrivati si prepararono a sfondare il portone. Il più anziano di loro, quello che sembrava guidarli, dimostrava non più di vent’anni.
Ci siamo!”, pensò Pietro e cercò di arretrare nell'ingresso poco profondo; scostò la casacca dal cinto, scoprendo la rivoltella e si dispose ad osservare. Ma uno di quelli, che fin dall'inizio lo aveva notato, gli si avvicinò col mitra spianato. «Ehi, tu, metti le mani ben in vista … chi sei … che ci fai qui? dove hai preso quella …?», e, con la punta del mitra, indicò la pistola che il Pescatore teneva al cinto, «fatti identificare», concluse con tono autoritario.
Un timido accenno di peluria sul viso e alcuni foruncoli, rivelarono la giovane età del giovane, confermata dai modi goffi di chi cresce troppo in fretta. Al collo teneva annodato un fazzoletto rosso-verde con una stella a cinque punte e una scritta ricamata in giallo: "76ª SAP Luigi Volterra".
«Ehi, calma … calma!», esclamò Pietro infastidito, «una cosa per volta, ragazzo …».
«Porca vacca, non chiamarmi ragazzo», ribatté quello irrigidendosi col mitra puntato. Pietro fu attraversato dal pensiero che quella strana situazione in cui s’era trovato, proprio quando la sua esperienza sembrava volgere al termine, facesse parte del percorso imperscrutabile della sua esistenza giunta all’ultima tappa. L’arma puntata da quell’imberbe, per un attimo, gli parve somigliasse al sasso aguzzo che aveva dato appuntamento a Rita. “E difficile vivere”, pensò, “e altrettanto facile morire per una minchiata come questa!”.
«Insomma, che caspita hai? Vuoi rispondere o devo sparare?»
La voce del giovane brigatista lo riscosse. «Non è detto che sia giunta la mia ora!», mormorò con gli occhi persi nel vuoto.
«Vuoi sapere che ora è?», domandò il ragazzo sarcastico. «Questa è l'ora in cui si pagano tutti i debiti e credo … », ma Pietro lo interruppe.
«Se sapessi, ragazzo ... non avresti voglia di scherzare, né di perdere tempo!».
«No, io non scherzo affatto, né perdo tempo … Per l'ultima volta», urlò, «ti ordino di farti identificare e di consegnarmi la pistola».
«Sono anch'io un partigiano, vengo dalla montagna e, guarda caso, faccio parte della tua stessa famiglia … la IIª Garibaldi», rivelò Pietro, deciso a chiudere in fretta.
Il giovane rise tra l’incredulo e il beffardo. «Dimostramelo, su, presto, e non fare mosse false ché ti fulmino».
Lentamente Pietro tirò fuori il documento d’identità timbrato e firmato dal comandante Cardinali e glielo porse. Il giovane brigatista lesse: CLN ALTA ITALIA VALSESIA. Si attesta che il partigiano Alati Pietro, nome di battaglia “Pescatore”, di anni 25, nato a Torrechiara (Sicilia),  proposto da questo Supremo Comando per la Medaglia … al Valor … della Resistenza...”.
Il giovane sgranò gli occhi. «Tu saresti il leggendario Pescatore? l'impren­dibile? proprio quello che ha preso per il culo un intero battaglione tedesco?».
Le notizie, a quanto pareva, lo avevano preceduto. «Be', non esageriamo», rispose Pietro abbassando le braccia, «erano, sì e no, ridotti in quattro gatti», e prese il documento dalle mani del ragazzo rimasto a bocca aperta.
«Colpo di mille fascisti putrefatti», fece quello, sputando per terra come un vecchio tabaccoso, «chi l'avrebbe mai detto? Scusa... se l'avessi saputo!».
«E già, quanti guai si sarebbero potuti evitare se le cose si fossero sapute in anticipo! Ma ora piantala qui», rispose noncurante Pietro. «Senti, che succede?», gli chiese, indicando con lo sguardo il portone di fronte.
«Una soffiata e siamo corsi: nella cantina si nascondono alcuni maiali e dobbiamo scannarli», rispose con disarmante naturalezza.
Si udì un fischio e il giovane corse a ripararsi dietro una colonnina della presa d’acqua mentre altri sfondavano la porta. 
Pietro si ritrasse con la rivoltella in pugno. Dopo un paio di minuti, a braccia alzate, uscì un uomo sulla quarantina con l’espressione avvilita, ben vestito, alto e un po’ stempiato, seguito da un giovanotto con gli occhi spauriti e da una bella donna a piedi scalzi. Li spinsero senza riguardi contro il muro della palazzina. L’uomo, il volto sanguinante, ad un tratto s’inginocchiò, implorò pietà; pianse, si disperò, si chinò a baciare i piedi dei giovani sappisti, promettendo gioielli e oro, tanto oro in cambio della vita sua e degli altri.
«Lurido verme», gridò uno, «credi di poter cancellare tutto col sangue succhiato al popolo?». 
«Al muro, al muro!», gridarono altri.
A quel punto la donna, in preda al terrore, si staccò veloce, guadagnando diversi metri. Pietro ebbe un sussulto: si sorprese a temere per lei.
«Lasciatela perdere quella troia», ordinò il capo, e si volse fulmineo verso i due, falciandoli con una sventagliata.
Abbracciati, padre e figlio, stramazzarono al suolo mentre la donna, udita la raffica, s’arrestò impietrita; quindi si volse e tornò sui suoi passi lentamente. Quando fu a meno di un metro da quei corpi ancora sussultanti, vi si gettò addosso, urlando di dolore.
«Porca troia, t’avevamo graziata ...», gridò il più anziano. «L’hai voluta tu», e le sparò alla nuca un colpo secco come si fa con le vacche al macello.
Pietro s’incupì, socchiuse gli occhi e riaffiorò la Belva della Valle. Non credeva che la guerriglia in città fosse così. Non poteva immaginare che tra i respiri dei palazzi, agli incroci delle vie, sotto le finestre alitanti di vita, si potesse ammazzare in quel modo. Allora gli tornarono in mente le parole di Giacomo quella notte al crocevia: “Ma non tutto finirà, il difficile dovrà ancora venire”.


* * *


Il viaggio per Torrechiara durò esattamente trentadue giorni e fu come sfogliare le miserie materiali e umane della penisola, ma anche l’anima coi suoi slanci. Percorse duemila chilometri a piedi, su carri straripanti di ogni cosa, a dorso di asini, su treni incredibilmente lenti e stipati di tutto, attraversando ponti lesionati e affrontando salite estenuanti. Per nutrirsi chiedeva, rubava o raccoglieva semplicemente.
“… Un paio di scarponi di riserva!? …”. Gli veniva da ridere a pensarci, constatando che dopo dieci giorni il primo cominciava a disfarsi. In compenso, però, aveva quel documento che apriva varchi, che spianava ogni strada. Ma presto si sarebbe anche accorto, procedendo verso Sud, quanto fosse guardato dai più con fastidio, da altri con sospetto. Alla fine sarebbe divenuto ingombrante come un macigno.
Quando il venticinquesimo giorno giunse finalmente a Villa San Giovanni, era ormai buio. Intravide l'estrema punta nord orientale dell'Isola segnalata dalla tenue luce del faro, e gli parve impossibile che fosse ancora intatto. Sentì d'essere già a casa e la voglia di proseguire, malgrado lo sfinimento, si fece più forte. Ma non era finita: avrebbe dovuto attendere ancora tre giorni interi per traghettare. Era troppo per lui il tempo d’attesa e così ebbe l'idea di recarsi nel vicino porto peschereccio dove, probabilmente, avrebbe trovato qualche barca in procinto di salpare per la Sicilia.
«Dove siete diretti?», domandò a un vecchio pescatore che con altri armeggiava intorno a una barca. 
«Dove devi andare?», rispose quello di rimando senza alzare lo sguardo.
«In Sicilia. Anch’io, prima di questa dannata guerra, facevo il … pescatore come voi e posso darvi una mano ... se volete» (pescatore: come ora gli risuonava diverso quel nome!).
«Sei fortunato, il vento si sta alzando, noi torniamo a Messina. Come ti chiami?».
«Pietro, e vengo da...».
«Non c’interessa da dove vieni», lo interruppe, «quel che conta è dove vai».
Il vecchio durante l'intera traversata non aprì bocca. Quando approdarono a una caletta vicino Messina, Pietro li aiutò a tirare in secco la barca. Il vecchio per la prima volta aprì bocca per salutarlo e chiedergli dove fosse diretto.
«A Torrechiara, vicino Palermo».
«Buona fortuna!», agginse.

L'ultimo tratto, lasciata alle spalle Palermo, lo coprì su un carretto fino a Nìcari, una quindicina di chilometri da Torrechiara. Poi, sempre a piedi, proseguì tagliando per i monti. Era il tre di giugno e già il sole spaccava la pietra. La ginestra e il verde intenso dei fichidindia esaltavano il grigio roccioso.
Quando superò l’ultima altura, d’improvviso, laggiù, stretto fra mare e monti, affiorò Torrechiara con le sue case, le strade rettilinee e la piazza, come se lo stesse aspettando a braccia aperte. Inspirò profondamente il profumo che saliva dal mare, dal porto, da Torre Bianca, possente guardiana di un golfo di superbo splendore. E fu allora che la torre tufacea, immutabile nella sua immobilità, richiamò alla sua mente una battuta spiritosa di Giacomo. Erano sul sidecar quel giorno e il suo umorismo lo aveva fatto ridere di cuore per l'ultima volta, poco prima che Rita morisse. Giacomo aveva giocato con le parole, e lui aveva risposto che non intendeva dire 'cose', ma teste da cambiare!

Il sole era già al tramonto e c’era ancora un po’ di strada! Calcolò che sarebbe entrato col buio e, poiché si era nel plenilunio, il periodo in cui non si va a pesca, era certo di trovare tutti a casa, e questo pensiero gli mise in corpo un’indicibile frenesia.
Sfinito, imboccò il Corso, lo stesso da cui, due anni prima, erano entrati gli Americani. D’un tratto, da una traversa, udì un secco altolà. Spuntò una lanterna: erano due carabinieri con le loro robuste biciclette. «Fatti identificare: documenti».
«Sono sfinito, torno adesso dopo quattro anni di Piemonte, da Torino, dove ho combattuto, ma ecco qui il documento».
L’appuntato, un gigante dalle mani enormi, che incuteva rispetto in paese, prese e lesse a bassa voce, soffermandosi su alcune parole: Alati ... Valsesia ... partigiano ... «Un disertore, dunque».
«Un disertore? Un patriota, vuole dire!», precisò Pietro indignato.
L’appuntato, nuovo del luogo, chiese al collega più anziano se lo conoscesse. «È  il figlio di Zu Mercurio, il vecchio pescatore morto il mese scorso», gli sussurrò all’orecchio.
Pietro riuscì a cogliere le ultime parole. «Mio padre ...? Il mese scorso ...?!».
«Mi dispiace, era un brav’uomo», aggiunse contrito il carabiniere.
«Comunque», disse il gigante, «domani, con comodo, quando ti sarai ripreso, vieni a trovarci in caserma per registrare ogni cosa». Gli toccarono una spalla in segno di condoglianze e proseguirono nel giro notturno.
«Maledetta guerra», ingoiò amaro Pietro, «non potergli neanche chiudere gli occhi; maledetta guerra, quanta miseria ci ha procurato!».
Si sentiva troppo giù per andare a casa. Preferì dirigersi al porto dove le barche, come aveva previsto, erano tutte lì, tirate a secco nello Scalo. Rintracciò la sua sardara dipinta di verde con una banda bianca lungo le fiancate e il nome scritto in bianco: Speranza. Era rimasta tale e quale. Si adagiò supino sulla vela ripiegata sul fondo. Il cielo era terso. Pensò a suo padre, a Rita, a Giacomo, ai compagni caduti e a tutti coloro che aveva voluto bene.
Il leggero sciabordio delle onde lo condusse pian piano in un sonno profondo. Sognò Rita, sorridente e bellissima che lo prendeva per mano e gli diceva di non piangere, di non abbattersi poiché, nonostante tutto, quello era ancora un mondo meraviglioso.
«Ehi, tu, arruspìgghiati, chi fai stinnicchiatu cca?», domandò all’alba un giovanotto riccioluto e ben piantato, toccandogli un braccio con una canna.
Pietro sussultò. Doveva essere infinitamente stanco per non averlo sentito avvicinare. Scattò in un lampo e il volto stupito di Giuseppe lo investì in pieno.       «Come sei cresciuto ... come sei cambiato! Non ti riconosco più!», disse Pietro felice di trovarsi davanti agli occhi, come per incanto, il più giovane dei suoi fratelli. Giuseppe non capì subito cosa volesse dire quell'uomo e chi fosse. Anzi, lì per lì, pensò a un trucco, a un raggiro.
«Ma come, non mi riconosci? Sono Pietro, tuo fratello!».
Nella mente di Giuseppe c'era impressa un'altra immagine: fresca, piena, pulita. Ora quel volto era tanto diverso dal lontano giorno in cui l'aveva accompagnato alla stazione. Con un guizzo il giovane gli fu addosso come un polipo e lo abbrancò così forte che a stento Pietro riuscì a respirare.
«Così m'ammazzerai e sarebbe il colmo: quel che per odio non han potuto i fascisti, tu lo farai per amore!».
Molti, lungo il breve percorso verso casa, stentarono a riconoscerlo, tanto era provato in volto. La loro casetta, costruita con pietra arenaria, dura e resistente più del cemento, che solo nella pirriera di Torrechiara si estraeva, era stata tirata su da nonno Pitrinu oltre ottant’anni prima. Sorgeva ... (in realtà sorge ancora, ragazzi, vi abito io), sorgeva, dicevo, a fianco della chiesetta della Provvidenza, posta sul costone che dominava il porto naturale e la famosa caletta della Ciucca. La cucina, il nonno, l'aveva voluta più grande del normale poiché, amava dire, che era il cuore della casa dove si decideva il futuro della famiglia. Il vecchio, d'indole tenace, era andato a pesca fino a novant'anni. Pietro, allora bambino, lo ricordava appena: il viso incredibilmente rugoso, cotto dal sole, e il sigaro perennemente incollato tra le labbra. Camminando malfermo, raggiungeva la barca e vi montava dopo aver poggiato sul bordo la natica destra; poi, aiutandosi con le mani, sollevava le gambe una per volta e, compiendo un mezzo giro, si sistemava come un re sul sedile di poppa. E non faceva nient'altro all'infuori di dirigere -o almeno così credeva- le operazioni di pesca con gesti e monosillabi. Mercurio, suo figlio, infastidito d'averlo sempre in barca, ogni volta gli ripeteva di smetterla, di starsene a casa a riposare dopo un’intera vita a mare.
«Un giorno di questi», gli ricordava, «t’acchianamu rintra cuomu na sarda salata». Lui, sputacchiando l'amaro del sigaro, rispondeva che nella varca era nato e lì voleva nchiùiri l’occhi pi sempri.
Ma un giorno disse: «Bbuonu accussì …». Si coricò, vestito com'era, nell'alcova di destra e il mattino seguente lo trovarono stecchito con un amo da cernia stretto fra le mani. Nessuno fu in grado di capire con certezza se si fosse stancato del mare o delle continue lamentele del figlio. Ma più d’uno, nella marina, ci avrebbe scommesso la barca che non s'era stancato del mare.

Pietro quel giorno seppe che suo fratello Salvatore –nonché mio padre- aveva smesso di tuffarsi dal costone più alto per farsi ammirare da Mariella, cioè da quella ragazza che più tardi sarebbe divenuta mia madre. Si erano sposati anzitempo, in piena guerra, e ora vivevano tutti insieme nella stessa casa. I miei nonni s'erano volentieri trasferiti nell'alcova di destra col letto povero in ferro, cedendo ai giovani sposi, così com'era nell'usanza, quella di sinistra col talamo in ottone ramato; a Giuseppe e Pietro, invece, restava sempre quella posta al primo piano che si apriva sul terrazzino col pergolato, con un'uva dolcissima con acini oblunghi chiamati in paese minne di vacca. Le nozze, su decisione unanime deliberata in cucina, erano state anticipate poiché il padre di Mariella, Lorenzo, era morto improvvisamente lasciando in balìa di se stessi moglie e otto figli. Sei mesi prima un colpo fulminante lo aveva sorpreso nel pieno di una battuta di pesca a lampara. La pesca del pesce azzurro era tanto faticosa e rischiosa soprattutto per l'acetilene che si usava per alimentare le lampare, ma anche suggestiva per i ricchi villeggianti di Palermo che la seguivano di notte dalla costa, incantati da tutte quelle lampe tremolanti simili a lucciole sospinte dal vento.
La luce intensa della lampa fendeva l'acqua, attirando nella trappola mortale i branchi azzurrini ingannati, fino al secco segnale col quale le reti si chiudevano inesorabili, imprigionando il brulicante scintillìo.
Quella notte il padre di Mariella, proprio mentre scrutava il fondo marino illuminato, era rimasto inerte come un remo, sporto dalla barca a testa in giù fino al cinto, dentro lo specchio, il cilindro di latta chiuso sul fondo dal vetro. L'avevano tirato fuori a fatica e trasportato subito a casa tra la disperazione della famiglia. Rosa, la moglie, non avrebbe potuto farcela da sola a tirare avanti con tutti quei figli, pur cercando di arrotondare per poche lire nello stabilimento del salato. Il giorno prima che le morisse il marito, s'era ferita accidentalmente ad una mano con un attrezzo da lavoro. La compagna accanto le aveva raccomandato di fare gli scongiuri, ché quello poteva essere un brutto segno. Lei, accompagnando le parole con un sorriso scettico, aveva risposto che in cinquant'anni le era capitato tante di quelle volte, che già avrebbe dovuto essere morta e sepolta da chissà quanto, come le sarde sotto sale. S'era lavata la ferita con un po' d'acqua dolce e l'aveva fasciata con un fazzoletto, continuando a sovrapporre sardine e sale. Fin dall'età di dieci anni dava il sangue in quel modo e, dopo tanto tempo, le mani le si erano bruciate, ritorte, piagate. Lo faceva per tre lire, ma ora anche lei aveva ricevuto, con la morte del marito, la sua … buonuscita!


* * *


«Vorrei farmi un bel bagno con vero sapone ... se ce n’è», disse Pietro bramoso di rituffarsi nel calore della vita familiare. Tutti gli stavano intorno a esaminarlo come qualcosa di prezioso, ansiosi di sentirsi chiedere qualcosa, o curiosi di ascoltare i suoi racconti. Ma l'imprevista assenza del padre gli impedì di assaporare appieno l'affetto e le premure che lo circondavano. Mariella e Salvatore posero sul fuoco un pentolone d'acqua riempito alla fontana del Vadduni, e quando fu calda al punto giusto, la madre rispuntò con qualcosa di raro tra le mani: «Tieni, afferra … ecco quello che volevi», annunciò raggiante, rivolta a Pietro, «… e ringrazia l'Americani si ti puoi ‘nsapunari». Poi, con un lieve movimento del capo e le palpebre pudicamente abbassate, ordinò a tutti di lasciare la grande cucina.
Quand’ebbe terminato, Pietro bevve un fondo di latte appena munto con inzuppato un po’ di pane raffermo e salì sul terrazzino a radersi all'ombra della pergola che tanto amava. Da tempo non si vedeva riflesso allo specchio e così capì perché molti avevano stentato a riconoscerlo. Giuseppe e Salvatore, mentre lui si radeva, gli tennero compagnia, raccontandosi di tutto e di tutti. Pietro spiegò loro perché, come e quando aveva preso la via della montagna; narrò le sue imprese, descrisse l’incursione nella tenda del colonnello Steiner e la vita difficile tra le valli piemontesi. Ricordò le persone straordinarie conosciute e amate, e soprattutto, raccontò del drammatico incidente con Rita, usando per lei, che non aveva fatto in tempo ad amare fino in fondo, commoventi parole. I fratelli lo ascoltavano imbambolati, rivolgendogli le più ingenue e imprevedibili domande.
«Allora sei un brigante …!», affermò a un certo punto Salvatore, sgranando gli occhi.
«Ci risiamo», esclamò Pietro, e aprì sotto i loro occhi il documento del CLN.
«Leggete qui, miseria infame! Ma chi vi ha messo in testa certe minchiate? Ho combattuto e sofferto come un cane, io, per l'onore d'Italia, per la tua, la nostra dignità ... altro che brigante!».
Pietro s’interruppe corrucciato, e rivolto a Salvatore gli disse:
«Ricorda sempre quello che ora ti dico: se tu e Mariella un giorno avrete una creatura, maschio o femmina che sia, dovrete impegnarvi pure gli occhi per farli studiare, perché ho capito pure questo … che l'ignoranza è peggio d’un terremoto!».
«Sì, va be’, te lo prometto … te lo prometto …!», mormorò Salvatore, senza dare peso alle parole di Pietro.
«Non così: devi prometterlo con tutti i sentimenti, ora, qui e subito», insistette con decisione, e negli occhi del fratello passò rapido un tremolìo smarrito. Salvatore, allora, portò lentamente gl’indici incrociati alle labbra e li baciò tre volte. «Se proprio ci tieni tanto», disse con tono solenne tra un bacio e l'altro delle dita, «te lo giuro, m’impegnerò pure gli occhi!».
Seguì un momento di silenzio durante il quale continuarono a parlarsi con gli sguardi, come quando cade la bonaccia che rende il mare olio, e si è costretti a remare, mentre si odono soltanto i respiri pesanti e il cigolio dei remi sfregati tra sponde e scalmi. Poi, come quando si alza il primo soffio, che gonfia e rigonfia esitante la vela, Salvatore, mio padre, riprese a parlare: «… E l'Americani ...? cos'hanno fatto … niente secondo te?». 
«Loro hanno rimesso tutto a posto», s’intromise Giuseppe. E ne rievocarono l’ingresso trionfale, raccontarono del mangiare, delle medicine, del ddt contro mosche, pulci, pidocchi e cimici e, alla fine, ci infilarono pure il nome di ... don Carru Granata.
«Che c'entra Carru Granata?», fece Pietro, arrestando il rasoio sulla guancia, «Cesare Mori non lo aveva confinato a Ustica?».
         «Sì, esatto ... però ingiustizia ci fu», rispose il fratello, «e l’Americani poi l’hanno messo a sindaco e tutti lo rispettano quanto e più di prima».
         «Perché fai quella faccia? che c'è di strano?», intervenne a quel punto Salvatore, cogliendo al volo lo sconcerto di Pietro. «E già, per voi è tutto normale a quanto vedo e sento».
         «Però Padre Roberto non ci va tanto d'accordo», precisò Giuseppe.
         «Chi è questo don Roberto? da dove spunta?».
         «Padre Roberto Lino è il nuovo parroco arrivato subito dopo la tua partenza», spiegò.
         “Non ci va tanto d'accordo … interessante!”, ripeté Pietro tra sé, e si chiuse nelle sue riflessioni, non aprendo più bocca se non per raccomandare a Giuseppe di smetterla d’armeggiare con la rivoltella, di riporla nel cassetto del comodino e di non parlare mai a nessuno al mondo della sua esistenza.
        
         Proprio in quel momento bussarono giù in basso e Giuseppe si affacciò dal terrazzino per vedere chi fosse.
         «Si parla del diavolo e spuntano le corna», esclamò.
         L’aveva detta proprio bella, tanto che Salvatore gli sferrò un pugno in testa.     «Mi scusi Padre Lino», arrossì Giuseppe, «ma l’ho detto così, senza pensarci!».
         «Per penitenza un mea culpa e tre atti di dolore», decretò divertito Don Roberto puntandogli l’indice contro. «Spero solo che non stavate sparlando di me», aggiunse, varcando l’ingresso a pianterreno.
         «Per carità!», esclamò Giuseppe ancor più mortificato.
         «Ero in giro e proprio poco fa», riprese il prete da basso, «ho incontrato vostra madre e m’ha detto del ritorno di tuo fratello; se non disturbo approfitto per salutarlo e conoscerlo».
         «Il piacere sarà tutto nostro! Faccia come se fosse a casa sua», intervenne Pietro in cima alla scaletta. «Scendiamo noi? o preferisce salire lei? Se sale ci sediamo sotto la pergola!».
         Don Roberto non se lo fece ripetere e, con quattro salti, li raggiunse. Pietro notò subito con quanta affabilità s’intratteneva a parlare, come fosse nato e vissuto lì da sempre. La sincerità del suo volto gl’ispirò subito fiducia nonostante, tranne rare eccezioni, avesse imparato a diffidare dei preti.
         Padre Lino si informò su tutto. Infine Pietro, tra una parola e l'altra, gli mostrò orgoglioso il famoso documento. Don Roberto lesse, lo ripiegò e in silenzio glielo restituì.
         «Qualcosa non va?», gli chiese Pietro.
         «No … no … va tutto bene, solo che... Vedi Pietro, tu manchi da alcuni anni e qui, tante cose, sono rimaste tali e quali; sei vissuto in una realtà, in situazioni completamente diverse dalla nostra per cui non tutti, qui, comprenderebbero il significato di questo documento ...».
         «… E lei, don Roberto, l’ha compreso …?».
         Il prete lo fissò per qualche istante. «… Io lo comprendo … puoi starne certo!».
         «L'avevo intuito da tante sfumature che non tutti riescono a capirne la portata», disse Pietro, «ma non ne capisco l’esatta ragione; è come se mi si addebitassero delle colpe; è come se il mondo, qui, si fosse capovolto. Cos’è che veramente non va?».
         E don Roberto, piuttosto imbarazzato, cercò di spiegare che mentre lui, giustamente, si trovava tra i monti del Nord a battersi per la libertà di tutti, invece a Torrechiara c’era una certa propaganda che penetrava liscia liscia nella testa dei cristiani, che faceva apparire i partigiani come dei banditi sanguinari, traditori, nemici della patria, dei ... senzadio. «Comunque sia, stai tranquillo», concluse con tono accomodante, «col tempo impareranno a conoscerti per quello che sei e che vali».
         Pietro si sentì disorientato. Sapeva che quel prete, in fondo, non aveva torto. Poi, ricordandosi della notizia che un momento prima gli aveva riferito Giuseppe, per sondare meglio le idee di don Roberto, cambiò discorso.
         «Senta Padre, mi parli un po’ della situazione qui in paese. Ho sentito, ad esempio, di questo Granata ... sindaco», e gli posò una mano rassicurante sulla spalla.
         «Quest’aspetto», rispose ironico, «è il più bel regalo assieme alle giugamme. Certo, gli Americani hanno dei meriti, ma non tutto quel che luccica è oro. Il fenomeno Granata - chiamiamolo così, per intenderci - fa parte di un piano di normalizzazione molto pratico, concreto, che bisogna studiare e capire ancora meglio. Questa guerra ha cambiato, trasformato ogni cosa e anche … loro … chiamiamoli così … non sono più quelli di una volta ...».
         Salvatore e Giuseppe seguivano incupiti i discorsi difficili di don Roberto ed apparivano anche increduli nel constatare come Pietro fosse a suo agio in quel dialogo così complicato.
         «Che significa quel loro, che la maffia, secondo lei, è migliorata?», lo provocò Pietro, rimarcando la parola maffia fino a quel momento sottaciuta.
         «Oh … sia mai! Ho voluto solo dire che si è trasformata, ma la trasformazione non implica necessariamente il miglioramento, specie in quel ... campo», rispose il prete.
         «Ho capito … ho capito: il malaffare e la prepotenza sono sempre malaffare e prepotenza».
         Don Roberto sorrise, si guardò in giro circospetto e abbassò il tono della voce, iniziando un lungo discorso, come se ne sentisse il bisogno dopo ani di solitudine. «È necessario capire che cosa realmente siano diventati, chi siano effettivamente i nuovi capi: magari gente fino a ieri insospettabile. Questo Granata, ad esempio, non credo rappresenti molto; direi che, piuttosto, sia una specie di paravento, un fantoccio. A tal proposito», disse aprendo una parentesi, «non fidarti di nessuno, non mettere troppo in giro le tue idee senza prima aver capito chi ti sta intorno, ché può capitare che ti ritrovi accanto amici che, magari, credi fraterni e poi scopri che sono... be’, mi capisci! Questo non è un fenomeno qualsiasi: è una bestia viscida, sfuggente, non si vede, ma c'è. Non è il fascismo: noi qui, loro lì, ma qualcosa di molto più complesso e insidioso, da accettare quasi come un fatto naturale perché cresce con noi, è dentro di noi, traspare in ogni tensione della nostra vita, nei gesti, negli sguardi, nelle parole non dette».
        «Non credo, però, che tutti abbiamo il sangue infettato. Lei, ad esempio, non mi sembra … e questo è già molto!», precisò Pietro.
         «Non fraintendermi: è una questione complessa, un miscuglio di educazione, di formazione, di presa di coscienza, di fame e di paura!», precisò don Roberto e, volendo fornire un riscontro concreto alle sue considerazioni, ricordò della fine miserevole, senza colpo ferire, riservata al potente Cesare Mori. «La strada, dunque, è lunga e tortuosa: bisognerà iniziare dal capire quali saranno i nuovi interessi, i nuovi equilibri, i nuovi riferimenti», concluse Padre Lino.
         «Certo, questo è chiaro», convenne Pietro, «ci sarà la fondazione del nuovo Stato democratico, il governo, la politica, i partiti, la ricostruzione».
      «Appunto, la ricostruzione!», ripeté Don Roberto e guardò l’orologio del campanile in fondo. Si era fatto tardi.
       Un passaggio del discorso del prete aveva particolarmente colpito Pietro: 
       "Granata un paravento, un fantoccio".
         Pietro era rimasto così profondamente impressionato dal contenuto e dal modo di argomentare di don Roberto, tanto da chiedersi da dove fosse uscito quel prete del tutto fuori posto.
         Ma il bello stava forse in un particolare che a Pietro non era sfuggito: era stato il prete a sondare lui e non il contrario.
         
         Pietro dai carabinieri non si recò quel giorno né in quelli successivi. In realtà preferì “dimenticarsene”, essendosi in quei giorni più volte chiesto, senza riuscire a darsi una risposta, quale Stato costoro rappresentassero in quel momento. Si sentiva in un mondo svuotato. Il mare di contraddizioni da lui un tempo confusamente percepite, ora sapeva leggerle come un libro aperto: la lotta partigiana gli era stata maestra, gli aveva insegnato ad affrontare gli eventi della vita e ad analizzarne i fatti. Altre angosce, inoltre, gli si affacciavano: il pane, il lavoro, la precarietà di quella vita senza futuro che avviliva e asserviva. È vero che prima della guerra c’era poco di che stare allegri, ma ora la situazione si era fatta veramente pesante, complessa.  
         Salvatore gli aveva messo in corpo tanta inquietudine con quei discorsi sul dilagare della prepotenza! Lo aveva informato, tra l'altro, sulle difficoltà incontrate nella pesca, con le reti che, a furia di rammagli, si erano sempre più rimpicciolite e indebolite. Ma ciò che l'aveva particolarmente allarmato era stato il racconto dell’atto di prepotenza subito, una settimana prima, da Vitu u Mutu.
         Era accaduto che alcuni personaggi si aggiravano da qualche tempo nel porto con fare tracotante. Un giorno Vito era stato avvicinato da uno di questi esemplari che, con minacce, pretendeva la metà del pescato. Vito lo aveva mandato al diavolo e la notte stessa la sua barca era andata in fumo. La miseria, dunque, in tutti i sensi, si tagliava a fette. La lezione era servita: tutti, prima o poi, si sarebbero docilmente piegati.
        
         Pietro approfittò dei pochi giorni di plenilunio che ancora restavano per ritrovare qualche vecchio amico tra quelli rimasti vivi o tornati prima di lui. Era anche un modo come un altro per tastare il polso della situazione. La prima importante visita la riservò, naturalmente, al vecchio Nino Sacco, nella sua casa circondata da un piccolo appezzamento coltivato a limoni. Questa proprietà non era altro che un piccolo podere cedutogli, non si sa a che titolo, dalla baronessa Peralta, la cui villa, infatti, si trovava ad un tiro di balestra. Sacco, d'origine contadina, vi viveva da qualche tempo in apparente solitudine.
         Pietro, appena giunto nei pressi del podere, lo scorse seduto su una poltroncina in vimini all’ombra del grande carrubo vicino alla casa. In quel momento era in compagnia di un militare americano, un carabiniere (giusto uno dei due della notte del rientro) e un civile elegantemente vestito. Si dette una manata sulla fronte e così, per evitare di dare spiegazioni al carabiniere di non essersi presentato in caserma, pensò di accovacciarsi dietro un muretto a secco, aspettando che se ne andassero.
         “Ma cosa ci fanno quelli lì, con Nino? Cos'hanno da dirsi?”, rifletteva Pietro nell'attesa.
         Sacco fu felice di rivederlo. «Sapevo del tuo arrivo già fin dal primo momento», gli disse abbracciandolo come un figlio, «qui le voci corrono prima che i fatti avvengano», aggiunse sorridendo per la battuta. Ascoltò con interesse il racconto della sua esperienza, ma Pietro, per prudenza, non chiese nulla sulle strane presenze che lo avevano preceduto.        
         «Vedi», disse Sacco ad un tratto, «io sono ormai vecchio e non so quanto camperò ancora. Oggi ci siamo, domani che ne sappiamo ...?! Tuo padre, ad esempio, l'avevo visto, avevamo parlato al mattino e poi la sera ... plaf! Però io, almeno, la soddisfazione di vedere il fascio pinnuliari me la sono tolta». Fece una breve pausa, si grattò il sopracciglio destro e proseguì: «Non sono sposato, lo sai, non ho mai avuto figli e tu, qui, sei l'unico parente che mi resta. Tutto questo che vedi, un giorno potrebbe essere tuo … Anzi, è già tuo», e, come soleva fare quand'era particolarmente teso o emozionato, ripassò dall’alto in basso i pollici sotto le bretelle. Pietro, visibilmente imbarazzato, gli rispose di lasciar perdere quei discorsi e  cambiò subito argomento. Era invece ansioso di sentire da lui, che idea aveva di quel Granata.
         Sacco sembrò irrigidirsi. «Guai a fermarsi alla superficie delle cose», spiegò dopo un istante di incertezza, e si addentrò in un ragionamento strano, contorto, che Pietro non s'aspettava e che mal digerì. «Vedi, ci sono stati e ci sono gli Americani i quali, appena entrati, sono andati subito alla sostanza. Non c'era ordine poiché mancava l'autorità che l'assicurasse. Niente di niente. E loro, gli amici americani -che credi!-, già prima di partire e di arrivare sapevano come e con chi ristabilirlo. Secondo te, che cosa dovevano fare?», chiese a quel punto alzando un po’ la voce come a voler convincere se stesso, «che cosa fare ... in questo gran bordello? Mettersi con la bilancia a pesare le persone di cui non sapevano niente? Con Granata, invece, attraverso il loro -diciamo così- servizio informativo, sono andati a colpo sicuro. Meglio … che ... che ... che ...!».
       «Che, che cosa?», lo provocò Pietro.
       «… che una minchia di niente!», concluse l'altro, riassestandosi nervosamente sulla poltroncina. Cercò di prender fiato, ma l'enfisema, che da tempo l'affliggeva, non gli permetteva -soprattutto se si innervosiva- di dilungarsi troppo nel parlare e così Pietro colse il momento e s’infilò.
         «Vedo che sai essere più realista della stessa realtà», commentò sarcastico, «parli di ordine: bell'ordine con quei gran pezzi di mafiusi che ci hanno succhiato sempre il sangue: a noi pescatori le barche e il pescato; ai contadini il raccolto e le terre. Di quale ordine parli? di quello della povera gente o del loro?», concluse indignato.
         «Certo, io ... È evidente che l'ordine, quello voluto dagli Americani, assicura agli ... amici certi vantaggi in cambio … una manu lava l’autra e tutt’e due lavano la faccia … e, in questo senso, Carru Granata offre le migliori garanzie! Ma è pure vero che i benefici, alla lunga, sono per tutti. Il mondo è questo e sempre così sarà...!».
         «Zzu Nino, il mondo noi e solo noi lo facciamo con queste mani e con queste teste, ma qui, ora, in questo cazzo di terra, non ci accorgiamo ... non vi accorgete che è il mondo che sta cambiando noi. Ma quali benefici, zzu Ninu! Così chi butta sudore e sangue la prende sempre in quel posto! Ma che minchia stai riciennu, non ti riconosco più!», sbottò Pietro.
         Sacco, uomo non certo sprovveduto, dotato di una certa intelligenza, nella sua vita ne aveva vissute tante di esperienze! Pur essendo semianalfabeta, sapeva masticare certe frasi e giri di parole, grazie anche -come si sa- a una larvata partecipazione alle lotte operaie dei primi Anni Venti a Milano e, sempre in quella città, alla sporadica frequentazione di determinati circoli politici. Era così riuscito a impadronirsi di certi fraseggi che adattava con maestria a situazioni di volta in volta diverse: così riusciva a incantare anche i più smaliziati. La reazione di Pietro al suo discorso, gli aveva fatto capire che quel giovane ne aveva fatta di strada. “Forse anche troppa!”, aveva pensato mentre l’ascoltava. Ma Pietro, da parte sua, senza farsi incantare, si era già costruita un’idea abbastanza chiara sul “nuovo” Nino.
         Neanche il vecchio operaio antifascista, dunque, sfuggiva a quel male pernicioso richiamato da Don Roberto. Diceva, parlava, spiegava, ma il suo ragionare restava aggrovigliato nell’ambiguità.
         Pietro ebbe un’illuminazione: in realtà Nino non era cambiato per nulla. Era lui, semmai, ch’era stato tratto in inganno dalla propria primitiva cecità. Infatti lo ricordava sotto una luce molto diversa. A quel tempo, prima della lotta partigiana, lo guardava con altri occhi, così come, allo stesso modo, guardava solo in superficie la realtà sociale che lo circondava.
         Sacco cadde in preda al solito tic delle bretelle e, tra un sali e scendi dei pollici, rivolse a Pietro un quesito che suonò come conferma alle sue impressioni. «Senti, c'era e c'è poco da scegliere», disse, «o Granata, o i fascisti. Tu che avresti scelto?», concluse con tono di sfida.
         «Ma che dici, Nino …! che t’è successo? dovrei scegliere …?! scegliere cosa? Non solo i signori decidono le guerre e ci mandano a prendercelo lì, ma … pure, dopo … dovremmo scegliere tra un male e un altro. Sai che ti dico», aveva proseguito accorato, «io la mia scelta l’ho già fatta e col vostro ordine ci vado al cesso».
Nino Sacco accennò qualcosa, ma s’interruppe, proprio nel momento in cui, Gnaziu, un campiere della baronessa, col fucile a tracolla, si avvicinò al carrubo.      «Riverisco voscenza», fece l’uomo togliendosi il berretto, «la barunissa cci vuole parrari di prescia e vuole sapere quannu può venirlo a trovarlo».

Pietro lasciò Sacco sotto il carrubo e quella fu l’ultima volta che lo vide e gli parlò. 
Un leggero vento di maestro si era alzato e in fondo, lungo l’orizzonte, stavano addensandosi immense nuvole nere, segno di un imminente temporale.
Percorrendo la trazzera che portava in paese, lo sguardo gli cadde a sinistra, al di là del basso muretto a secco dove si stendeva un mare di spighe selvatiche agitato dal vento. Nel suo bel mezzo, sballottato come rosso veliero, Pietro notò un unico e solo papavero che svettava tenace. A tratti si inarcava per poi raddrizzarsi avvinghiato alla spighe, ma non si spezzava … resisteva agli strappi del vento. Pietro scavalcò d’istinto il muretto, raccolse il papavero, ne carezzò dal basso verso l’alto il lungo gambo, sino a socchiuderne delicatamente nel pugno i petali, quindi lo infilò in un taschino della casacca, proprio in quello all’altezza del cuore.
I discorsi di Nino l’avevano mutriatu.  “ … La barunissa Peralta … boh …! La baronessa che chiede di essere ricevuta da Sacco, anzi da … voscenza. E poi la casa col terreno … com’era riuscito ad averla? Questa è proprio bella”, continuava a riflettere, “proprio bella. Ma allora, Nino, un insospettabile? E quell’americano col carabiniere? E quell’altro che sembrava un signore?”.
Si sentiva un frammento di uomo, un ramo senza fusto. E mentre s'inturciuniava in questi pensieri, decise di affrettare il passo per rincasare presto a riflettere su quella sorprendente giornata.
A poche centinaia di metri, appena superata la curva, scorse casa sua con la chiesetta a fianco sul costone. Incrociò un carretto e si fece da parte, lanciando un’occhiata alle colline. La nuova resistenza sarebbe stata ardua e fece l’elenco mentale di quei quattro o cinque amici fidati che forse avrebbero potuto condividere la sua nuova lotta. E ad un tratto gli passò nella mente, come in un lampo, don Roberto. “Che strano personaggio …!”, e cominciò a ruminare, sì, a ruminare, i discorsi che gli aveva fatto quel giorno sotto il pergolato di casa sua.
         L’aria intanto s’era addolcita, ma il maestrale spirava più forte: gli piaceva resistergli con tutto il corpo mentre avanzava deciso.  
         Sul terrazzino impergolato, comparve d'improvviso sua madre a ritirare in fretta il bucato. Lo vide avanzare fiero come un eroe: le pareva un sogno che fosse tornato sano e salvo dalla bufera del Nord, pur se la luce degli occhi non era più quella d’un tempo. Ma sua madre vide pure oltre. Vide, al di là di suo figlio, un sinistro luccichio fra le mani di un uomo acquattato e intuì tutto, come solo una madre può. Si protese disperata, sventolando un fazzoletto, ma lui non capì. E come avrebbe potuto!? Rispose al saluto, agitando la mano, e mentre agitava la mano udì alle spalle un sibilo lontano. Non era il fischiare del vento, ma  il suono asciutto e traditore che lui ben conosceva. Con la mano difese, dalla furia del vento, la testa del papavero sporgente dal taschino, mentre il sibilo si fece sempre più vicino. Il magico fiuto del pericolo, che non l'aveva mai tradito, quella volta non fece in tempo a mettergli le ali; a evitargli che la morte gli alitasse al collo e l’arpionasse inesorabile come succede ai tonni.        
        

* * *


         Interruppi per un istante la narrazione, aprii la carpetta e ne trassi un ritaglio di giornale. «Questa volta», annunciai, «si tratta di un articoletto. Come potete vedere, porta la data del 30 giugno 1945, pubblicato sulla Trinacria, un quotidiano di allora».
         Contrariamente alle mie previsioni “catastrofiche”, gli studenti mi si accostarono lentamente e, in un grande silenzio, lessi loro il titolo:

VILE RIGURGITO FASCISTA A TORRECHIARA.
EROE DELLA RESISTENZA ASSASSINATO IN UN AGGUATO.
IN CORSO LE INDAGINI DEI TUTORI DELL’ORDINE.

         La madre non resse al dolore. Il vento le aveva rubato il fazzoletto senza potersi asciugare le lacrime. Rimase inerte per un anno intero, rattrappita come un ulivo ritorto, gli occhi fissi in un punto lontano, e solo un lieve oscillare di della mano.



EPILOGO



         Qualcuno fece un cenno. Era Luciano detto Parfum -ricordate?-
         «Puoi andare», mormorai distratto.
         «No, professore, non devo andare a gabinetto, vorrei solo dire una cosa su         questa storia ...».
         «Vuoi dire qualcosa? Proprio tu?», feci sorpreso. Ma quel proprio tu mi fece sentire un verme. Tentai subito di rattoppare con un saremo felici di ascoltarti, ma la toppa fu peggio del buco.
         «Lasci perdere, professore … tanto so bene come la pensa su di me! Ma non è questo il punto. Sa, ho riflettuto a lungo in questi giorni e mi è sembrato di scorgere un filo di immutabile, disperata solitudine che unisce il destino di certi uomini d’ogni tempo e luogo. La condizione, cioè, di chi, a un certo punto della propria vita, scopre di esser fuori posto, un corpo estraneo nella propria terra. In definitiva, non fu proprio questa la sostanziale condizione umana riservata a quanti, combattenti per la Libertà, tornarono in Sicilia dalla bufera del Nord? Me lo ha confermato mio nonno che fu ed è antifascista. Nel migliore dei casi e per lungo tempo –mi ha detto-, qui da noi furono additati come individui di cui diffidare».
         Lo avevo ascoltato stupefatto. Ma lo stupore era solo all’inizio.
         «Professore, in riferimento all’assassinio di suo zio Pietro e all’articolo letto», intervenne Francesca, «vorrei dire che, secondo me, la verità, come spesso accade in questi casi, è camuffata abilmente».
         «Spiègati meglio, cosa vuoi dire?», la sollecitò Ruggero.
         «Voglio dire che... la mafia è più abile di quanto si possa credere. Tutti in paese sanno o intuiscono, ma ognuno -tranne rare eccezioni- preferisce schierarsi con l'altra verità, quella più conveniente ... E il giornale che fa? pubblica la “verità” che tutti vogliono sentirsi dire. E se ci riflettiamo ancora meglio, è a causa di questa malattia sociale», concluse, «che si sono consumate le più grandi schifezze, dallo sterminio degli ebrei, alle stragi dal dopoguerra ad oggi …!».
         «… dal giuramento di fedeltà al regime fascista dei pubblici dipendenti», la interruppe Lia, «alle leggi razziali del '38».
         «Come in un tacito gioco delle parti!», aggiunse Emilio.
         «Sì, come in un tacito e - aggiungerei - corale, ipocrita gioco delle parti», rimarcò Roberto.

         Alle due in punto mi avviai alla stazione. Faceva un freddo cane anche a causa del vento. Acquistai il solito quotidiano nella solita edicola e, mentre mi avvicinavo al treno, sbirciai il titolo di prima pagina: “Prodi lascia. Soddisfatti Rifondazione e Polo. Verso le elezioni anticipate”.
         L'altoparlante annunciò il diretto per Trapani in partenza dal binario tre, con fermata alle stazioni di Nicari, Torrechiara, Alcamo. La stazione, a quell'ora, cominciava a sfollarsi e i vagoni, fermi lungo i binari, attendevano il fischio del capostazione. Mi rinchiusi infreddolito in uno scompartimento, convinto di aver seminato bene, d'aver lasciato segni duraturi tra i miei papaveri. In quella settimana non m’ero più sentito con gli altri, accampando scuse su scuse, anche le più inverosimili. La verità è che avevo avvertito il bisogno di starmene solo.
         In quei giorni, poi, mi era pure cresciuto dentro un confuso risentimento nei confronti d'Irene. “E già”, pensavo, “quando le situazioni si tendono oltre ogni limite, si finisce inevitabilmente col far schizzare tutte le contraddizioni”. Nello stesso tempo tuttavia non potevo credere, neanche ipotizzare, che persone come Mario, Ignazio o - figuriamoci! – Franco, avessero potuto commettere un atto di doppiezza così abietto. Li conoscevo troppo bene -o, almeno, così pensavo- per crederli capaci di tanto. Eppure i fatti stavano lì, incontrovertibili.
         Alle tre, quando arrivai, ad aspettarmi davanti casa vi trovai Franco. Era molto depresso. «Perché ci eviti …? cosa t’abbiamo fatto? che t’è successo …?», sussurrò.
         L'osservai attentamente: era proprio giù, sembrava un cagnolino bastonato. In fondo gli volevo ancora bene e lo invitai ad entrare. La casa era fredda, spalancai la persiana per far prendere luce e avviai la stufa a gas. «Senti, ho un buco nello stomaco e devo urgentemente tapparlo», gli dissi per rompere il ghiaccio, «mentre parliamo mi preparo qualcosa... Immagino che tu avrai già pranzato».
         «Grazie, ho già digerito».
         Presi dal frigo una fettina di carne, misi sul gas il pentolino per gli spaghetti e apparecchiai in due secondi. Tornai alla fettina, la rigirai nell’olio d’oliva, la spolverai di sale e la passai sul pan grattato. Infine, con le dita ancora impiastricciate, notai che Franco mi seguiva impaziente.: «Franco», gli dissi a voce bassa, «guardiamoci negli occhi come sempre abbiamo fatto. Ci conosciamo da una vita e ne abbiamo passate tante, ma tante assieme. Non posso crederlo … non è possibile che uno tra voi abbia potuto far tanto».
         Franco allungò lo sguardo attraverso la persiana a vetri. Il maroso scavalcava il molo, facendo ondeggiare le barche come gusci di noci, mentre i pescatori correvano indaffarati a destra e a manca a rinforzare gli ormeggi.
         «Per loro», disse, «si prepara una notte d'inferno». Poi, non staccando gli occhi dal porto, soggiunse. «Ci siamo dentro tutti, fino al collo. Ciascuno di noi, che credi, dubita dell’altro!».
         «Vuoi dire che tu, Mario, Ignazio, pensate di me ...?!».
         «E perché? Tu che cos’hai di speciale rispetto a noi? Riflettiamo, piuttosto, sgombriamo la mente dagli preconcetti come sempre abbiamo fatto nei momenti critici».
         «Momento critico lo chiami? Questo è un momento di merda, altro che critico!», ribattei furente.
         «Va bbe’ … va bbe’, è un momento di merda come tu dici, ma ciò non toglie che dobbiamo ragionare. Per prima cosa escludiamo in modo tassativo che uno di noi abbia potuto, diciamo così, parlare!», mi disse, tormentando un angolo della tovaglia, «altrimenti, porca troia, veramente è tutto una fogna!».
         «Girala come vuoi, Franco, il fatto è lì, palmare».
         «E no Placido, tu lo sai bene, me lo hai pure insegnato: non tutto ciò che appare vero è tale nella realtà. Proviamo a fare altre ipotesi. Io vi ho riflettuto a lungo in questi giorni d’inferno, e sono giunto a qualche possibile risposta».
         «Sì, capisco dove vuoi arrivare: non esisterebbe mai una sola verità, anche se si tratta della più inconfutabile, come quelle che si sarebbero moltiplicate nel caso in cui le foto fossero state mostrate alla luce del sole», risposi sferzante.
         «E io invece insisto, porco troia: è una pura ipotesi quella che sto per fare, ma nessuno può impedirmi di credere  -e questo vale anche per te nei confronti di tutti noi- che possa essersi trattato di una volgare messinscena orchestrata da te e Mario, o da Mario e Ignazio, o da Ignazio e te ... o da te e Irene e così via con tutti i possibili abbinamenti».
         Lo guardai come a dire: “che stai farneticando?”.
         «No … no», mi anticipò ansioso, «non guardarmi così, non fraintendermi, ascolta. Sono sempre nell’ambito di quella ipotesi. Si è orchestrata la messinscena per ottenere questi risultati: primo, sottrazione dei negativi; secondo: neutralizzazione di Irene. Se io ora ti confessassi, con aria distrutta, con i capelli arruffati e la barba incolta che le cose sono effettivamente andate così, tu mi crederesti senza ombra di dubbio. Ma le cose non sono affatto andate così, e tu lo sai bene, porca troia!».
         Borbottai qualcosa, spensi il fuoco sotto il pentolino che già ribolliva, riposi in frigo la fettina panata e, per quel giorno, mi rassegnai a mangiare soltanto un po' di pane con olive nere e caciocavallo.
         «Be' …. ammetto che è … un'ipotesi, ma ciò non toglie che sarebbe stata in ogni caso una porcheria».
         «Certo, ma, devi pur convenire, meno porcheria dei sospetti veri, reali che ciascuno di noi nutre nei confronti dell’altro, poiché, mentre la mia ipotesi è solo surreale, ma possibile, il sospetto avvelena», ribatté.
         «Questa è bella, adesso ti metti a fare il filosofo?», commentai sferzante.
          Franco proseguì non curante. «La seconda o terza ipotesi che sia, invece, è più complessa e delicata e riguarda … Irene. In realtà si fonda su una sensazione che mi è baluginata e che, all’inizio, ho ricacciato subito come un ghiribizzo della fantasia ...».
         «Vai al sodo», lo sollecitai inquieto.
         «Calma, calma, non è facile da spiegare. Comunque, ci provo: secondo me... Irene, in assoluta solitudine», cominciò oppresso dall’imbarazzo, «potrebbe essersi inventato tutto. Voglio dire che, in realtà, nessuno si sarebbe introdotto nella sua villa, eccetera, eccetera».
         Lo squadrai allibito. «Senti, sei fuori strada, caro mio, non intendo più seguirti in queste cazzate ... Se ora, qui, fossimo in dieci, in quindici o in venti, ciascuno avrebbe almeno una dozzina di idiozie da sciorinare!».
         «Ascolta, porca troia, perché nasconderlo? Irene ha o non ha una personalità complessa?».
         «Ma che c'entra tutto questo con le foto? Finiscila».
         «Tu rispondi alla mia domanda», insistette.
         A denti stretti ammisi solo in parte: «Non complessa», precisai, «esageri. Direi, piuttosto, spigolosa, a volte, magari, eccentrica».
         «Be’, mettila come vuoi, ma io credo possibile», aggiunse, «che la sua decisione, così teatralmente proclamata quel pomeriggio a casa sua, unita a quell’ostinato e incomprensibile rifiuto di recedere, in realtà nasconda un antico trauma, risalente, ne sono convinto, alla vicenda delle prepotenze subite dalla nonna. Da qui il tentativo inconscio di mettersi alla prova, di misurarsi con se stessa, in una specie di rivincita con tutto e tutti. Ma il fatto è che, nei giorni successivi, in lei sarebbe presto prevalsa la paura, il terrore di non riuscire a sostenere la prova nella pubblica piazza. A quel punto, se fosse razionalmente tornata sulla propria decisione, ammettendo di avere esagerato, non si sarebbe forse ritrovata sconfitta dinanzi a se stessa? Da qui il ricorso alla messinscena: giustificare ai nostri occhi, ma in realtà a se stessa, l'impossibilità del comizio con un impedimento oggettivo pur se artefatto».
         «Senti, Franco, ti rendi conto che, secondo questa tua fantasia, Irene sarebbe del tutto pazza? Altro che personalità complessa ...! Un caso da ricovero urgente; anzi, visto che ci sei, potresti prenderla tu in cura dal momento che sei così bravo a fare diagnosi».
         «Ammetti almeno che anche questa è una possibile ipotesi».
         «Ma benedetto Iddio, che devo ammettere: tutte le stravaganze, a questo punto possono esser buone ... E va bene. Anzi: va male! Ma su quali elementi oggettivi», soggiunsi esasperato, «basi questa specie di ipotesi ... o, meglio, questa farneticazione?».
         «Non escludo che sia farneticante, ma, allora, come spiegare il suo netto rifiuto d’informare dell’accaduto i carabinieri? E poi ...»
         «… E poi cos'altro?», lo incalzai incuriosito.
         «Secondo te», riprese, «è normale irrompere in una casa, alle tre di notte, armati, con calze di nylon in testa e guanti di lattice, senza per prima cosa sabotare la linea telefonica? E invece, come ben sai, l’abbiamo trovata perfettamente funzionante. E poi … e poi non è stata forse lei a sottolineare quella mattina in tua presenza che eravamo solo noi cinque a sapere dei negativi? Il suo racconto sapeva troppo di film! Hai notato? Le davano del lei come dei damerini: esca i negativi, ce li dia, e via di questo passo. Ma scherziamo? Non è credibile tanto riguardo».
         «Ma è pur vero che, di contra, le risposte a questi tuoi indizi potrebbero essere diverse e tutte coerenti: la verità qual è a questo punto?».
         «La verità, l’unica verità vera, certa, concreta», rispose, «è che i negativi sono scomparsi. Tutto il resto è … impalpabile …!».
         Lo fissai. Lui ammutolì. Addentai il pane e un tocco di caciocavallo, ma non riuscii a deglutire. Guardai fuori dalla finestra opposta al mare: la forte pioggia del mattino aveva ripulito le colline.
         «Sai Franco, giusto questa mattina, una mia alunna, un mio papavero, mi ha ricordato che ciascuno di noi, un intero popolo, può, se vuole, costruirsi la verità più conveniente … Se ci pensi è proprio vero, è proprio così e noi, qui, oggi come ieri, ne siamo una dimostrazione».
         «Un tuo papavero?! che significa? cosa vuoi dire?».
         Risposi di lasciar perdere poiché sarebbe stato troppo lungo da spiegare.
        
         Franco tamburellò con le dita sullo spigolo del tavolo, aspettando il momento giusto per andare. Poco dopo, non prima d’aver gettato un ultimo sguardo lungo il molo, si avviò verso la porta senza fiatare. Un tremito lo colse, si rinserrò nel cappotto, ma a nulla gli servì.
         Attraverso i vetri velati di salsedine, lo intravidi svoltare in fondo alla via, mentre il crepuscolo già sceso, sbiadiva d’intorno ogni cosa.



fine

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COPERTINA di Salvatore Calìa; Progetto grafico: PS ADVERT - Impresa di comunicazione –Trapani; Fotolito: Graphis, Trapani; Impaginazione: Giovanni San Brunone; Consulenza tipografica: Gaspare Fici; Stampa copertina: Lito Tipografia Abate - Paceco (TP).ISBN 88-87432-31-7 2000 © coppola editore – Trapani













 



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