di Giuseppe Ruffino
Fra pochi giorni ricorre l'anniversario del "25 Aprile", data simbolo della Liberazione dal nazifascismo. Per questo ho pensato di inserire il lungo racconto che scrissi nel 1998, poi pubblicato nel 2000 dall'EDITORE COPPOLA. Non l'avrei riproposto sul blog se, al di là della storica ricorrenza, la narrazione non si fosse profondamente ispirata alla realtà terrasinese dell'immediato dopoguerra.
Nel 1999, col titolo originario La Resistenza di Pietro, lo presentai al Concorso Nazionale Anteka Erice, ottenendo il 1° Premio assoluto per la narrativa. Oggi, a distanza di tanti anni, ho provato in alcune parti a rimodularne lo stile, lasciandone del tutto immutato l'intreccio narrativo.
Nota introduttiva
Sul
finire degli Anni Sessanta, quasi ventenne, conobbi un uomo sanguigno,
concreto, senza fronzoli. La sua personalità mi colpì immediatamente. Mi
piaceva il suo modo di parlare e, soprattutto, mi affascinavano i suoi racconti
di vita vissuta da partigiano fra le montagne e le valli piemontesi.
È
a lui e alla sua audace impresa, infatti, che mi sono ispirato.
Si
chiamava Pietro Galati (“Alati” in dialetto) e aveva fatto ritorno in Sicilia
dopo un lunghissimo periodo trascorso a lavorare, sin dall’immediato
dopoguerra, tra le fabbriche di Torino, essendo là rimasto fin dopo la Liberazione.
A
Terrasini ci accomunò l’impegno politico nel PCI, quando l’aria che si respirava, le
passioni e gli ideali, erano in generale di livello ben diverso rispetto all'oggi!
Da
allora sembra siano passati cent’anni. E invece, dal 1980, quando fu stroncato
da un infarto, ne sono trascorsi solo venti. (NdA: alla data di oggi trentadue).
Con
Pietro “Alati”, dunque, potevo per la prima volta uscire dalle letture più o
meno rievocativo-oleografiche sulla Resistenza, ritrovandomi gomito a gomito
con un esempio vivente di autentico ex partigiano, per di più Medaglia d’Argento
al Valore.
Custodisco
gelosamente l’audiocassetta della sua voce che, senza enfasi o autoesaltazione,
spiega ai bambini la Resistenza in Piemonte, raccontando la sua straordinaria
impresa lungo le sponde del Taro. In prossimità del 25 Aprile 1979, un anno
prima che morisse, lo avevo infatti invitato a scuola tra i miei alunni di
quinta elementare e lui, con quell’impegno civile che lo distingueva, s’era
volentieri sottoposto alle loro domande, rispondendo con assoluto distacco.
Oggi,
col pensiero rivolto al futuro, voglio continuare a sperare che i miei “papaveri”
di allora ne conservino ancora intatta memoria.
Terrasini, 1999
Prefazione
di Vito Mercadante
“I
papaveri del professore”, opera prima di Giuseppe Ruffino, attraverso una struttura
complessa che lega due vite, appartenenti a due generazioni contigue, ha come
fine, dolorosamente accettato, il tramonto in Sicilia di un momento epico che
aveva fatto sperare gli uomini più pensosi e più impegnati sull’onda del
movimento contadino teso a strappare la terra ai baroni e alla mafia.
Diverse
sono in questi giorni le opere che trattano lo stesso tema con la stessa
amarezza che non è affatto quella soggettiva e lirica, che la scuola
idealistica vuole vedere come scaturigine della poesia, perché, al contrario,
questo struggimento per una speranza delusa nasce da fatti oggettivi.
A
questo punto si può pensare che, per quanto validamente storici, questi lavori
letterari operano nella mente dei lettori in maniera negativa, lasciando in
essi la precisa idea che la Sicilia sia irredimibile.
No,
al contrario, essi vogliono, forse con un suggerimento sotterraneo, sollecitare
la parte migliore della gente siciliana ed italiana.
Non
fa certamente eccezione a questa categoria di libri l’opera di Ruffino che
rappresenta, senza voglia di visibilità, un personaggio impegnato come
educatore e come politico, un continuatore della grande tradizione di maestri
elementari come Lorenzo Panepinto e come Sebastiano Figlia, tesi a dare dignità
europea alla nostra Isola.
Il
professore Placido Alati, protagonista di questo romanzo, di fronte all’apatia
dei suoi alunni di un liceo di Palermo, pensa con avvedutezza didattica ed
educativa, di accantonare il programma di storia e di assumere come tema delle
lezioni una provocazione, come quella di narrare loro la vicenda di un suo zio,
Pietro, uno sbandato del disfacimento della IV Armata del generale Vercellino,
che con un’ottima e civile scelta di campo, nell’ottobre del ‘43, entra a far parte di
una brigata partigiana. È una provocazione perché in quella storia,
apparentemente iscritta nel momento e nello spazio, è il nodo non soltanto
della storia d’Italia, ma anche della Sicilia. Vogliamo ricordare, ad esempio,
il forte significato assunto dalla scelta del nome di battaglia fatta da Pompeo
Colajanni: “Barbato” a ricordo del grande protagonista dei Fasci siciliani che
non furono in grado di risolvere l’annoso problema della rottura del feudo,
causa dell’arretratezza siciliana, per la forza della mafia e del potere centrale
che anticipò con il blocco della democrazia la dittatura fascista.
Così
per i siciliani, non certamente tutti, che vissero quella avventura, si apriva
la necessità di un’altra battaglia, quella da condurre contro il feudo e la
mafia per continuare e dare senso alla lotta partigiana intrapresa nel Nord.
Per il professore
Alati, allora, affrontare questo tema di discussione, significa legare la
storia, quella fastidiosa disciplina, poco recepita nei suoi valori dagli
alunni, alla realtà in seno alla quale vivono. Educazione civica, memoria e
studi si legano assieme e rappresentano una forte scelta come motivazione nei
confronti dell’impegno scolastico, della vita.
E
già la stessa immaginazione di una tale struttura narrativa è segno di poesia.
Ma essa si manifesta anche nella sapienza con cui viene studiato ed espresso
con realismo il rapporto che s’instaura fra il partigiano Alati ed i suoi
compagni, fra il siciliano sanguigno e violento ed i compagni continentali
riflessivi e rispettosi delle norme e degli ordini del Comitato di Liberazione
Nazionale.
Pietro,
nome di battaglia “Pescatore”, non tollera che tipi come la “Belva”,
ferocissimo comandante repubblichino a causa di una ideologia vissuta
visceralmente, vengano trattati come prigionieri di guerra; vuole la loro
liquidazione fisica secondo la legge del taglione.
Tutti
i compagni si schierano contro di lui, perfino la dolce Rita, ma lui pensa di
fare il suo dovere, che è quello molto sentito dai siciliani, di far provare al
reprobo la sensazione dell’indegnità umana cui s’era per scelta piegato.
Il
“Pescatore”, dopo un cammino lunghissimo a piedi e con mezzi di fortuna,
ritorna in Sicilia per cambiare le cose dopo l’avventura storica fortemente
vissuta nel Nord. Ma farà una brutta fine non appena avrà detto ad un suo
parente di cui si fidava, in quanto antifascista, dei suoi propositi di
continuare la lotta intrapresa nel Nord, per la riscossa della Sicilia.
E
qui siamo col giallo storico di Sciascia. Imprevedibili sono gli atti e le
persone che operano in Sicilia perché non venga intaccato più di tanto l’equilibrio
alquanto instabile, instaurato dalla mafia e dai suoi dintorni. E da qui è
facile passare all’altra storia di cui s’è parlato all’inizio: quella dell’altro
protagonista, il professore Placido Alati, il nipote di Pietro. Anche lui lotta
alcuni decenni dopo per gli stessi motivi; una lotta disperata condotta da
pochi amici fra l’indifferenza di molti. Ma accadrà che una di loro, che ha in
mano documenti per mettere alla gogna il solito politico in doppio petto che
lavora per la mafia, viene aggredita a casa sua da due malviventi che le
strappano le prove occorrenti per la denuncia. Il proposito della giovane
aristocratica era conosciuto soltanto dai cinque amici. Chi ha tradito? All’ultimo
si perviene all’assurda conclusione, raggiunta per mezzo dei soliti sofismi
tipicamente siciliani.
Un
libro, quindi, interessantissimo per l’intreccio sapientemente compiuto di
varie storie sboccanti tutte nello stesso esito, per il realismo con cui vengono
rappresentate, per l’amarezza combinata con una sottile ironia che percorre
tutto il testo, per l’impegno civico che l’ispira, per la maturità di un’opera
prima, per la forte carica educativa che lo pervade, valida per essere
utilizzata nelle scuole per le generazioni alle quali, speriamo, la ormai
martellante onda antimafia montata in ogni campo possa offrire i mezzi, la
conoscenza e la voglia di un definitivo riscatto.
v.m.
__________________________________________________________________
I papaveri del professore
Il non ritorno nell'isola intorno al mare
PROLOGO
L’ombra
di Pietro
«Professore, mi dispiace», si
giustificò Luciano, «ma oggi sono impreparato. Ieri
c’è stato un gran casino in famiglia e allora ...!».
Luciano era uno studente svogliato,
ma in compenso sempre tirato a lucido, per questo i compagni lo chiamavano "Parfum" anche per via del padre, proprietario di una rinomata profumeria del centro.
Lo fissai infastidito. «Dolente
per il tuo ... casino, ma proprio da te, che sei tra i più ... impegnati», feci ironico, «non me lo sarei mai aspettato!».
«Sa, professore», insistette con
l’aria di chi vorrebbe far credere chissà quali sciagure, «questioni
familiari … Quando il diavolo ci mette la coda …!».
L’avrei preso a schiaffi quell'impomatato, ma ovviamente la mia era solo un'inconfessabile fantasia. La verità è che non sopportavo le banalità: se mi avesse inventato una storia incredibile, avrei forse fantasticato di schiaffeggiarlo meno.
«E già», sbuffai, «un giorno la
coda, un altro le corna. Mi sa che prima o poi dovremo interpellare un buon
esorcista!».
Luciano per qualche istante sventagliò occhiate a destra e a manca per sincerarsi che tutto finisse lì.
«Non gli dia retta,
professore», s’intromise a quel punto Francesca con quella cadenza
strascicata, mentre, come nulla fosse, si passava l’ombretto sulle palpebre, «il
fatto è che ieri s’è versato addosso un’intera bottiglietta di … parfum, e così si è intossicato per inalazione».
Abituato com’ero a quelle battute,
non mi curai più di tanto dell’esplosione di risa e di altre pesanti
infiorettature che seguirono. Anzi, ad esser sincero, in fondo in fondo ci godetti un po’.
Spalancai con decisione il
registro, cominciai a chiamare l’appello e la calma prese pian piano il
sopravvento. Sembrava l’inizio di una ordinaria
lezione di un qualunque giorno dell’anno, ma dovetti presto ricredermi: dal fondo dell’aula, infatti, chiese di intervenire Ruggero, uno fra i più riflessivi ed acuti della terza C.
Le sue parole avrebbero occupato la giornata. Anzi: avrebbero dato linfa all’intero anno scolastico.
Le sue parole avrebbero occupato la giornata. Anzi: avrebbero dato linfa all’intero anno scolastico.
«Giovedì scorso», cominciò, «lei ci ha esposto le ragioni culturali, ideali ed umane che dettero vita all’antifascismo militante prima e alla Resistenza armata poi». Ruggero tacque un attimo, come a voler trovare le parole più adatte. «Ebbene», proseguì, «particolarmente in Sicilia, però, sappiamo che tutto questo avvenne solo in minima parte poiché, per i noti accadimenti storici, la Resistenza fu praticamente inesistente. Ora io le chiedo se e quanto questo aspetto abbia inciso sui successivi sviluppi civili e democratici della nostra Isola».
Mi aggiustai sulla sedia,
tentando così di dissimulare il piacere che quel tipo di domanda mi aveva
procurato.
«Caspita, Ruggero …!». Mi alzai preso da sottile frenesia e mi avvicinai alla grande finestra. Piovigginava. Guardai giù nel cortile: Eloisa, perennemente in ritardo, trottava verso l’ingresso.
«Caspita, Ruggero …!». Mi alzai preso da sottile frenesia e mi avvicinai alla grande finestra. Piovigginava. Guardai giù nel cortile: Eloisa, perennemente in ritardo, trottava verso l’ingresso.
Da tempo speravo in un simile interrogativo, calato ora come filo a piombo. Dopo anni di dubbi, di incertezze e di riserve, era forse giunto il tempo di decidermi a mettere "in piazza" la storia della mia famiglia. Quella storia che, in paese, s’era fatto di tutto per dimenticare o, peggio ancora ... per camuffare.
* **
Mi chiamo Placido Alati e, dal momento che mi accingo a raccontarvi di me e della mia famiglia -poiché per nessuno è indifferente il luogo in cui si nasce, si vive e si ... muore-, credo sia importante precisare che sono di Torrechiara, modesto centro peschereccio della provincia di Palermo.
Mio padre, un povero pescatore, si chiamava Salvatore e mia madre Mariella. Dopo il liceo ero
riuscito a concludere gli studi entro il normale corso di laurea, grazie non solo
al mio costante impegno e agli enormi sacrifici dei miei, ma anche e soprattutto al sostegno materiale
ed umano di un prete non comune, Don Roberto Lino, morto anni fa ad Erice, suo
paese d’origine.
Quello era il periodo del
dopoguerra segnato non da povertà, ma da autentica miseria, e mio padre, ciò malgrado, per un
antico giuramento fatto a suo fratello Pietro poco prima ch’io nascessi, s’era
impegnato pure gli occhi per farmi studiare. A causa di quella
promessa mi aveva sempre categoricamente vietato di imbarcarmi ed io,
quantunque covassi un cupo risentimento contro quel divieto tanto rigido quanto
misterioso, alla fine avevo dovuto accettare. Ma nell’intimo non ero mai riuscito a
darmi pace: ero o no figlio di pescatori? Dunque perché, a differenza di tutti gli altri, mi era stato impedito di fare i conti col mare? Per lungo tempo mi ero sentito diverso,
escluso, respinto ai margini di quel mondo, come fossi privo di braccia.
E, addirittura, non era stato raro che fantasticassi sulla mia origine, fino a spingermi a credere che non
fossi figlio di Salvatore e Mariella, ma il frutto proibito di chissà
quale amore clandestino, consegnato loro in custodia.
Ricordo che durante le
lunghe estati, mi costruivo barchette di latta usando grossi recipienti
cilindrici, quelli per le sarde sottosale. Così me ne stavo a giocare per
intere mattinate fra gli scogli deserti della Praiola, taliatu da mia madre
dalla finestra della cucina che dava a strapiombo sulla cala. Lì, solitario,
mentre gli altri con le sardare scivolavano lungo l’orizzonte,
fantasticavo grandiose battute di pesca o salvataggi impossibili; amicizie con
polpi enormi e con delfini argentei guizzanti tutt'intorno.
Una bella mattina di agosto, già cresciutello, avendo concluso proprio quell’anno le elementari, mentre
me ne stavo seduto su uno scoglio con i piedi a pelo d’acqua, proprio Don
Roberto Lino era sceso nella caletta per svelarmi le vere ragioni di quel misterioso
divieto. Lui aveva conosciuto lo zio Pietro fin da quando era tornato dal
nord col carico della sua storia.
Sensibile com’era, don Roberto aveva
da tempo intuito la mia firnicìa e così, quella mattina, aveva finalmente
deciso di venirmi a parlare. Tra le altre cose, conservo ancora nitido il ricordo di una imprevista quanto puerile (ma per me allora "stupefacente") scoperta fatta quel giorno. Mi era venuto incontro saltellando tra gli scogli con la tonaca un po’
sollevata, come fanno le donne per non bagnarsi la gonna, e con quel buffo satariàri
aveva un po’ svelato i causi sotto la tonaca, e io mi ero scrupuliàtu, quasi mi fossi intrufolato fra le sue segretezze.
Ad un tratto aveva rallentato quell'andatura per piegarsi ad afferrare, come un gabbiano a fior d’acqua, una mia barchetta in bilico tra gli scogli. Quindi s’era messo a rigirarla davanti agli occhi, mostrando interesse come in tutte le cose.
Ad un tratto aveva rallentato quell'andatura per piegarsi ad afferrare, come un gabbiano a fior d’acqua, una mia barchetta in bilico tra gli scogli. Quindi s’era messo a rigirarla davanti agli occhi, mostrando interesse come in tutte le cose.
«Come caspita fai … a modellare
sta lanna?», mi aveva chiesto con quel vocione rauco, mentre mi calava un lieve
pugno in testa.
«Cu un cuculuni», gli avevo
risposto compiaciuto.
«Sei fermo all’età della
pietra?», e avevamo riso insieme come due ragazzini.
Poi don Roberto aveva guardato per qualche istante verso l’orizzonte e
assorto, con l'indice puntato verso le sardare, mi aveva chiesto: «Ti sarebbe piaciuto andare con loro?». Era bravissimo, lui, a calare le cose
puntute senza farle pesare. Ma quella volta avevo sentito dentro un rivùgghiu
di sangue, come quando sai che sta per arrivare qualcosa di importante. E
quando mi ero deciso a rispondergli, mi ero fatto cauteloso con le parole per controllare meglio quel ribollìo. Avevo confermato che sì, mi sarebbe piaciuto, e
avevo pure aggiunto che, però, c’era quel famoso divieto ...!
«Lo so, lo so … Ma tu devi
capirlo quel brav’uomo di tuo padre», aveva detto mentre mi scunzava i capelli
con la mano. «Lui è fatto così. Lo fa per il tuo bene: ha deciso di farti
studiare, l’ha promesso solennemente ed è sicuro che se solo una volta mettessi
piede in barca, sarebbe la fine. L’ha promesso a tuo zio Pietro, diversi anni
fa, un anno prima che tu nascessi». S’era interrotto un attimo per rimettere
tra gli scogli la barchetta. «Dice che è impossibile per un Alati resistere al
mare, e che finiresti come tuo nonno, che in barca rischiò di morire di
vecchiaia».
Ancora lo zio Pietro, dunque!
In famiglia ritornava spesso, come l’ombra incombente
di un oracolo regolatore delle nostre vite. A volte, in quegli afosi imbrunire
estivi, lo immaginavo seduto sulla panchina in pietra, davanti casa, a contemplare il tramonto; una gamba ripiegata fra le mani intrecciate, la
sigaretta pendente fra le labbra. Ma il volto che di lui mi rappresentavo, non avendolo mai conosciuto, né esistendo sue fotografie, era sempre immaginario se non del tutto assente. Altre volte, nelle chiare notti di luna
piena, mentre tentavo di addormentarmi nella piccola alcova al piano di sopra, lo
vedevo ombra tra le ombre proiettato sulla parete di fronte. Stava ritto ai
piedi del letto come un monumento, una mano in tasca, l’indice sulle labbra: “sciii … sciii … sciiii ...!”. Come dire: zzìttuti, accetta il tuo destino.
Così mi ero poco per volta
rassegnato, nonostante sapessi che in quel modo si sarebbe estinta un’antica dinastia di
pescatori. Ma col trascorrere degli anni, come a volermi riscattare da quell’involontario
tradimento, m’era cresciuto prepotente il desiderio di dedicarmi anima e corpo allo studio
delle tradizioni marinare. Così, anno dopo anno, girando per l’Isola, avevo
collezionato e annotato ogni particolare, e ricostruito in scala ogni tipo di
barche da pesca, molte delle quali oggi non più in uso.
* * *
Il felice momento,
contrassegnato dall’interrogativo di Ruggero in classe, cadeva invece moltissimi
anni dopo. Era il 1999.
A quel tempo avevo superato i cinquanta e da venticinque insegnavo storia e filosofia in un liceo del capoluogo, un tempo lussuosa dimora dei Gallidoro, antica famiglia dell’aristocrazia palermitana.
Ogni mattina, puntuale come un maggiordomo svizzero, quel maledetto di Gino, che mai e poi mai avrei saputo allontanare in malo modo, un minuto prima che alle sei scattasse la suoneria dell'orologio, mi svegliava con una delicata pressione della zampetta sul naso. Dopo tanti anni di vita in comune, quella peste aveva registrato a perfezione le mie abitudini, per cui non avevo scampo: con le buone o con le cattive, fosse estate, inverno, festività comprese, mi costringeva a lasciare il letto travolto dalle sue fusa. Le versavo un po' di croccantini nella ciotola, gli rinnovavo l'acqua, e mi preparavo il caffè e latte, accompagnandolo con una fetta di pane tostato spalmato di miele, il che continuo ancora oggi puntualmente a fare, mentre Gino da tempo non c'è più!
A quel tempo avevo superato i cinquanta e da venticinque insegnavo storia e filosofia in un liceo del capoluogo, un tempo lussuosa dimora dei Gallidoro, antica famiglia dell’aristocrazia palermitana.
Ogni mattina, puntuale come un maggiordomo svizzero, quel maledetto di Gino, che mai e poi mai avrei saputo allontanare in malo modo, un minuto prima che alle sei scattasse la suoneria dell'orologio, mi svegliava con una delicata pressione della zampetta sul naso. Dopo tanti anni di vita in comune, quella peste aveva registrato a perfezione le mie abitudini, per cui non avevo scampo: con le buone o con le cattive, fosse estate, inverno, festività comprese, mi costringeva a lasciare il letto travolto dalle sue fusa. Le versavo un po' di croccantini nella ciotola, gli rinnovavo l'acqua, e mi preparavo il caffè e latte, accompagnandolo con una fetta di pane tostato spalmato di miele, il che continuo ancora oggi puntualmente a fare, mentre Gino da tempo non c'è più!
Cascasse il mondo, mi sbarbavo a giorni alterni, mentre Gino, seduto immobile come una porcellana sul davanzale della finestra, seguiva affascinato gli strani movimenti intorno al mio viso cosparso di una misteriosa sostanza soffice e bianca.
Piovesse o
tirasse vento, montavo sulla vecchia bicicletta e raggiungevo alle sette e
un quarto precise la
stazioncina ferroviaria, incatenavo la bici a un palo e
saltavo sul treno per Palermo. Alle quindici ero di ritorno,
ma dovevo arrangiarmi da solo a mettere qualcosa sotto i denti.
D’altronde l'avevo scelto io il celibato, pur essendo (così commentavano le intenditrici) appetibile per il
portamento
atletico ed i modi garbati. A quanti mi sollecitavano a compiere il
gran
passo, rispondevo che in fondo il matrimonio e i figli non facevano per me.
Qualche tempo prima, inoltre, era accaduto un qualcosa che mi aveva messo in corpo una strana inquietudine. Un giorno, mentre mi radevo, lo specchio mi aveva rivelato alcuni particolari del viso che non mi sarei aspettato: due piccoli afflosciamenti, due accenni grinzosi, stavano pian piano insediandosi proprio attorno alle orbite: “rughe” le chiamavano le donne in preda al panico. Non solo: esaminando più attentamente, mi ero pure accorto che le guance, in basso, appena sotto le mandibole, finivano un po’ cascanti e, nonostante le avessi studiate tutte per non badarci, gli occhi, tutte le volte, finivano con l’incollarsi sempre lì. Figuriamoci! Non era affatto l’estetica a crucciarmi né, tantomeno, il naturale pensiero della morte quanto, piuttosto, l'amara scoperta dell’inizio del declino, del lento incedere della senescenza scandito dalla malattia e dal dolore o, peggio, dalla demenza senile. Più volte, aggrovigliato in quei pensieri, mi ero sentito intrappolato come uno scarafaggio nella stoppa, spingendomi sempre più a riflettere sulla mia solitudine; a meditare sul modo in cui si era venuta svolgendo la mia vita.
Vito Cardinale (tempera) |
Qualche tempo prima, inoltre, era accaduto un qualcosa che mi aveva messo in corpo una strana inquietudine. Un giorno, mentre mi radevo, lo specchio mi aveva rivelato alcuni particolari del viso che non mi sarei aspettato: due piccoli afflosciamenti, due accenni grinzosi, stavano pian piano insediandosi proprio attorno alle orbite: “rughe” le chiamavano le donne in preda al panico. Non solo: esaminando più attentamente, mi ero pure accorto che le guance, in basso, appena sotto le mandibole, finivano un po’ cascanti e, nonostante le avessi studiate tutte per non badarci, gli occhi, tutte le volte, finivano con l’incollarsi sempre lì. Figuriamoci! Non era affatto l’estetica a crucciarmi né, tantomeno, il naturale pensiero della morte quanto, piuttosto, l'amara scoperta dell’inizio del declino, del lento incedere della senescenza scandito dalla malattia e dal dolore o, peggio, dalla demenza senile. Più volte, aggrovigliato in quei pensieri, mi ero sentito intrappolato come uno scarafaggio nella stoppa, spingendomi sempre più a riflettere sulla mia solitudine; a meditare sul modo in cui si era venuta svolgendo la mia vita.
In tutti quegli anni vissuti
con i miei studenti, si erano susseguiti tanti e diversi modi d’intendere e affrontare la
vita. Ed io li avevo vissuti tutti intensamente: il Concilio di Roncalli, il Sessantotto,
il terrorismo, la caduta del Muro e delle ideologie, le stragi mafiose, il
pentitismo e, infine, la rivoluzione informatica che mi aveva relegato fra le schiere dei nuovi analfabeti, testimone di un’epoca che, almeno per me, si apriva
incomprensibile.
Così, in questo bufera,
la riflessione sull’importanza dello studio della storia era finita con l’assumere
i contorni d’un imprescindibile valore etico, ossigeno, unico appiglio in grado
d’infondermi certezze e speranze.
«La conoscenza storica è il
seme della vita», soleva spesso ricordarmi Don Roberto. Per questo rigettavo il
nozionismo, insistendo molto, invece, sugli accostamenti epocali, sui raffronti
e sulla ricerca viva. Ma i ragazzi, malgrado ogni mio sforzo, sembravano
attratti da ben altro. Intontiti dal turbinio informatico, non sembravano più
in grado di controllare i tratti fondamentali della loro vita. Per questo
avvertivo urgente e necessario intraprendere strategie alternative, nuovi
metodi di studio e percorsi di ricerca; trovare uno spunto, un quid … ecco, un quid che li emozionasse … E già, le emozioni: dov'erano finite?! In realtà, per riuscirvi, avrei da tempo
saputo in cuor mio quale strada imboccare, ma era pur vero che questa decisione
avrebbe dopo tanti anni rimesso in piazza la mia vicenda familiare, il che, data la mia riservatezza, non mi aveva mai del tutto convinto.
***
L’interrogativo di
Ruggero rappresentava in quel momento l’ultimo colpo per incrinare l’involucro,
anche se, in verità, nelle settimane precedenti, un episodio in apparenza
marginale, era stato altrettanto decisivo per fiaccare le mie … resistenze. Era accaduto una mattina di una
splendida domenica novembrina.
Mi ero alzato all’alba per svolgere un lavoro domestico che solitamente mi impegnava un paio di volte all’anno e che mai ad alcuno avrei delegato. Consisteva nello spolverare e riordinare la libreria dello studio che occupava un’intera parete fino al soffitto. Quel lavoro assumeva le cadenze di un autentico rito ed era frequente che, durante quell’opera, che durava un'intera giornata, mi finisse fra le mani qualche libro ancora incartato. La lettura era la mia linfa vitale, ma ciò che in fondo mi appagava era l’atto in sé del comprare. Era una frenesia la mia: ne compravo di tutti i tipi e le dimensioni, magari attratto semplicemente dal titolo o dalla copertina, ma poi accadeva spesso che, lette le prime trenta pagine, mio limite massimo per innamorarmene, li riponessi fra gli altri, ripromettendomi di riaprirli a data da destinarsi.
Mi ero alzato all’alba per svolgere un lavoro domestico che solitamente mi impegnava un paio di volte all’anno e che mai ad alcuno avrei delegato. Consisteva nello spolverare e riordinare la libreria dello studio che occupava un’intera parete fino al soffitto. Quel lavoro assumeva le cadenze di un autentico rito ed era frequente che, durante quell’opera, che durava un'intera giornata, mi finisse fra le mani qualche libro ancora incartato. La lettura era la mia linfa vitale, ma ciò che in fondo mi appagava era l’atto in sé del comprare. Era una frenesia la mia: ne compravo di tutti i tipi e le dimensioni, magari attratto semplicemente dal titolo o dalla copertina, ma poi accadeva spesso che, lette le prime trenta pagine, mio limite massimo per innamorarmene, li riponessi fra gli altri, ripromettendomi di riaprirli a data da destinarsi.
Quella domenica mattina,
invece, schiacciato come una sarda, me n’era capitato uno che non aveva certo l’aria
d’essere immacolato. La copertina blu, attraversata da una striscia bianca, la
conoscevo bene: ritraeva il negativo fotografico di un gruppo di uomini armati.
Sagome scure procedevano in fila sulla cresta di una montagnola; sullo sfondo
una tenue foschia gelata avvolgeva alberi dai tronchi esili e dai rami
scheletrici rivolti al cielo. Si trattava di un volumetto che da anni non
prendevo in mano, intitolato “I miei sette figli”, una lunga intervista di Renato Nicolai ad Alcide Cervi, con prefazione di
Sandro Pertini, il Presidente partigiano. “Per la miseria: guarda un po’ chi si
rivede!”, avevo commentato tra me e me. Per il mio diciottesimo compleanno
me l’aveva regalato Don Roberto. Mi ero commosso nel leggerlo: era la prima
volta che mi accadeva, il che non si sarebbe mai più ripetuto per nessun altro
libro. Ma quella storia, più d'ogni altra, mi aveva spalancato nuovi orizzonti,
aiutandomi a considerare sotto una nuova luce il mondo in cui mi trovavo e la storia di mio zio.
Col pollice avevo fatto
scorrere lentamente le pagine, fermandomi a caso su una. Era quella in cui Alcide, il vecchio padre, diceva:
“...Questo lo voglio dire chiaro, perché chi ha cultura non pensi sbagliato sul nostro conto, che siamo riusciti a fare certe cose solo con le braccia o perché siamo più spicciativi degli intellettuali. Vedete per esempio il paragone con la quercia. Mi hanno detto sempre così, nelle commemorazioni: tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta. Va bene, la figura è bella e qualche volta piango, nelle commemorazioni. Ma guardate il seme. Perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme...”.
“...Questo lo voglio dire chiaro, perché chi ha cultura non pensi sbagliato sul nostro conto, che siamo riusciti a fare certe cose solo con le braccia o perché siamo più spicciativi degli intellettuali. Vedete per esempio il paragone con la quercia. Mi hanno detto sempre così, nelle commemorazioni: tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta. Va bene, la figura è bella e qualche volta piango, nelle commemorazioni. Ma guardate il seme. Perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme...”.
Avevo interrotto la lettura,
fatto scivolare in una tasca della giacca il libro e m'ero trasferito al
piano di sopra, dove s’apriva un terrazzino su cui si arrampicava un vecchio pergolato
che per tutta l’estate offriva grappoli speciali. Lì solitamente mi rifugiavo per riflettere, godendo di un raro panorama. Infatti, la casetta, ereditata dai miei e che diversi anni prima avevo rimodernata per viverci felice come il guardiano d'un faro, dominava il mare con la sua costa sinuosa interrotta soltanto dal porticciolo. Come spesso facevo, avevo percorso
con lo sguardo il molo maestro: dopo una notte di sudori, la piccola flotta
peschereccia riposava nello specchio scintillante. L’aria, insolitamente tersa
fino all’orizzonte, creava rari effetti, illudendo l’occhio di poter
cogliere, a un tiro di balestra, Ustica, adagiata come un pachiderma.
“Forse
è giunto il momento di parlare ai ragazzi della vita di mio zio Pietro”, avevo riflettuto, tornando ad osservare la copertina del libro, “devono emozionarsi, partire da vicende
dirette, vicine a loro; devono penetrare nella storia ... Me ne infischio del
programma ... questo è il Programma, per la miseria!”.
Senza accorgermene, avevo cominciato a riordinare i ricordi, a rimettere in fila tutti i tasselli di quella straordinaria vicenda di cui mio padre e Don Roberto mi avevano fin da ragazzo parlato. E c’era stata pure un’altra persona che mi aveva raccontato altri particolari che nessun altro poteva conoscere. Era un uomo di studi e d’azione, che aveva condiviso con lui, umile pescatore, quell’esaltante esperienza. Si trattava del professor Giacomo Vergara, divenuto, nell’immediato dopoguerra, ministro della pubblica istruzione del governo provvisorio e, successivamente, titolare della Cattedra di Storia Contemporanea nell’Università di Torino.
Senza accorgermene, avevo cominciato a riordinare i ricordi, a rimettere in fila tutti i tasselli di quella straordinaria vicenda di cui mio padre e Don Roberto mi avevano fin da ragazzo parlato. E c’era stata pure un’altra persona che mi aveva raccontato altri particolari che nessun altro poteva conoscere. Era un uomo di studi e d’azione, che aveva condiviso con lui, umile pescatore, quell’esaltante esperienza. Si trattava del professor Giacomo Vergara, divenuto, nell’immediato dopoguerra, ministro della pubblica istruzione del governo provvisorio e, successivamente, titolare della Cattedra di Storia Contemporanea nell’Università di Torino.
Appena laureato, spinto dalla curiosità alimentata in tutti quegli anni, ero riuscito a rintracciarlo, decidendo di recarmi in quella città per conoscerlo di persona. Il professor Vergara, ormai pur avanti negli anni, mi aveva fornito molte informazioni con un linguaggio di raro taglio che avrebbe incantato chiunque. Egli, oltre alla lucidità di mente, aveva pure conservato intatta quell’aura di eroico mistero comune a tanti della sua generazione, impastata di sapienza e di antiche certezze, ma anche di furore, di paure e debolezze che la guerra aveva impresso. Il vecchio professore, poi, come un ragazzino, s’era infiammato di contentezza allorché, il nipote del suo indimenticabile amico e compagno, aveva accettato di essere suo ospite per tutto il tempo che avesse voluto.
«E impressionante la tua somiglianza col Pescatore ... proprio come due gocce d’acqua!», aveva a un certo punto mormorato, fissandomi a lungo. Mi ero sentito quasi imbarazzato da quegli occhi vivissimi che indugiavano sul mio volto. «Ed ora che ti osservo meglio, mi ritorna in mente un vecchio debito, un impegno di trent’anni fa, preso con lui in questa stessa città il giorno della Liberazione, quand’era già pronto per ritornare nella sua Sicilia. Ma non potei rispettarlo quell’impegno, a causa del precipitare degli eventi ... degli impegni indifferibili cui fui chiamato in quei mesi dell'immediato dopoguerra». Si era interrotto e un’espressione triste gli aveva per un attimo velato il volto. «Ma io sto correndo troppo», aveva poco dopo sospirato. «Va’ a sistemarti nella tua stanza e quando sarai ben riposato ti racconterò fin dall’inizio ... tanto, abbiamo tutto il tempo che ci occorre».
E così eravamo rimasti tappati in
casa tre giorni interi e, a parte le brevi pause per il pranzo e il suo abituale riposino pomeridiano, la rievocazione dei ricordi
era andata a volte come fiume tranquillo, altre tumultuoso, evocando
circostanze, luoghi ed episodi così sanguigni che più volte avevo creduto di
riviverli.
Dopo un paio di mesi dal mio
ritorno in Sicilia, avevo letto sul giornale la notizia della sua improvvisa scomparsa: «L'illustre Prof. Giacomo Vergara (...) valoroso resistente contro l'occupazione nazista e i repubblichini fascisti di Salò, ministro della Cultura del Primo Governo provvisorio libero, è improvvisamente morto a 85 anni questa notte nella sua abitazione di Torino (...)».
Ero rimasto sorpreso dall'inattesa notizia, svuotato dentro, come se l’epoca che mi conteneva
fosse al trapasso.
* * *
Immerso in quel fiume
di ricordi, davanti alla finestra che dava sul cortile della scuola, non
risposi subito a Ruggero.
Intanto Eloisa, la ritardataria, che poco prima avevo intravisto trotterellare verso l’ingresso, era piombata in classe con un innocente "mi scusi professore …" al quale avevo opposto un secco "siedi e ascolta …". Mi aveva guardato con espressione interrogativa, ma il mio indice, che le indicava la sedia, non lasciava dubbi.
Tra gli sguardi impazienti degli altri, infine mi decisi e risposi a Ruggero.
«Il tuo non è un semplice interrogativo, ma una riflessione molto acuta, che rivela ben altri approfondimenti che non il semplice testo scolastico», dissi visibilmente compiaciuto. «Potrei rispondere in due modi: in astratto-teorico o in concreto-vissuto. Voi quale preferite?».
Intanto Eloisa, la ritardataria, che poco prima avevo intravisto trotterellare verso l’ingresso, era piombata in classe con un innocente "mi scusi professore …" al quale avevo opposto un secco "siedi e ascolta …". Mi aveva guardato con espressione interrogativa, ma il mio indice, che le indicava la sedia, non lasciava dubbi.
Tra gli sguardi impazienti degli altri, infine mi decisi e risposi a Ruggero.
«Il tuo non è un semplice interrogativo, ma una riflessione molto acuta, che rivela ben altri approfondimenti che non il semplice testo scolastico», dissi visibilmente compiaciuto. «Potrei rispondere in due modi: in astratto-teorico o in concreto-vissuto. Voi quale preferite?».
Un coro optò per il secondo,
quantunque non fosse loro del tutto chiaro lo sbocco concreto della scelta.
Alcuni chiesero chiarimenti, ma io risposi che presto avrebbero da soli trovato le risposte.
«Bene, in ogni modo, da oggi
iniziamo una nuova esperienza», precisai con tono solenne. Quindi guadagnai
il centro dell’aula, trascinai con me la poltroncina e sedetti fra loro, ma in
modo tale che tutti potessero guardarmi in viso.
«Vi racconterò una storia
vissuta, la vera storia di un partigiano, un mio zio, fratello maggiore di mio padre,
Medaglia d’Oro della Resistenza. Si chiamava Pietro e aveva scelto come nome di
battaglia Pescatore. Non so quanto
tempo impiegherò a raccontarvela, vedremo. Posso soltanto
anticiparvi che per alcuni sabati, a iniziare da questo, aggiungerò un nuovo
capitolo».
Eloisa a quel punto alzò timidamente la
mano: «Professore, mi scusi, ma non c’ho capito niente …! Che dobbiamo fare
…?».
Non le risposi. Non c’era bisogno di aggiungere altro poiché ero certo che, nelle settimane successive, Eloisa avrebbe compreso da sé anche la fondamentale importanza etica e civile della puntualità da cui, in determinati frangenti, poteva dipendere la vita o la morte!
Non le risposi. Non c’era bisogno di aggiungere altro poiché ero certo che, nelle settimane successive, Eloisa avrebbe compreso da sé anche la fondamentale importanza etica e civile della puntualità da cui, in determinati frangenti, poteva dipendere la vita o la morte!
PRIMO SABATO
Il
ritratto
Piemonte, luglio 1944, iniziai.
Manca poco meno di un anno alla
fine dell’oppressione nazifascista. Gli anglo americani premono prima da sud e
poi anche da nord e, come già sapete, da circa un anno, a Salò, sulle dolci rive del Garda, Benito Mussolini, sotto il diretto controllo dei nazisti,
ha fondato la Repubblica Sociale Italiana, estremo tentativo di salvare il suo
regime.
L’Italia più che mai appare ora
in ginocchio non solo materialmente, ma soprattutto è dilaniata nel profondo
delle coscienze: uomini e donne, giovani e vecchi d’ogni estrazione sociale, culturale
e fede politica, al di là delle opposte sponde cui sono approdati, pagano un
altissimo prezzo.
In questo tragico contesto, fin
dall’indomani dell’Armistizio dell’8 settembre 1943, un umile pescatore
siciliano, giovane soldato sbandato del regio esercito, sceglie d’istinto la
via della resistenza armata. Pietro Alati è il suo nome, conosciuto in seguito, tra le
valli piemontesi, col nome di battaglia Pescatore.
* * *
Benché come gli altri sfinito, quel giorno fu il solo a resistere al sonno. In piedi, appoggiato di schiena a un abete, scrutò dall’alto il fondovalle, lungo la strada che scendeva come nastro al vento.
Dopo quasi due anni era già una
leggenda vivente. Più che parlare agiva, aveva innato l’istinto del
guerrigliero. Passionale, dotato del magico intuito di quei pescatori che dallo
sciabordio sentono i branchi di squali in arrivo, spariva coi suoi compagni nel
momento giusto, come inghiottito dalla terra, per ricomparire d’improvviso dal
nulla. Anche per questo i fascisti non gli davano tregua, ma lui stava sempre
all’erta, pure quando dormiva. Ed era
raro, se non impossibile, sorprenderlo disarmato della sua “Beretta” o privo della sua casacca verdina con dieci tasche sparse qua e là, trafugata chissà dove o a chi;
affermava fosse di fattura inglese e mai a nessuno rivelò cosa
custodisse in tutte quelle tasche. Ma pure chi incrociava il suo sguardo velato
dalla nostalgia del suo mare, capiva subito ch’era sensibile come un bambino.
Anche quel pomeriggio di luglio, dopo due giorni e due notti di marcia estenuante, era riuscito a porsi in salvo coi suoi compagni. Stremati, s’erano accasciati al suolo all'interno di una cavità ben nota ai partigiani della valle. Pian piano s’erano poi avvicinati alla vicina sorgiva e, oltre ad affondarvi la testa, avevano bevuto a lungo per cedere infine, uno dopo l’altro, a un sonno profondo.
Pietro, invece, indugiò ancora
a studiare l’immensa vallata. Non notò indizi di insidie e così, di
schiena, come si trovava, scivolò sfinito lungo il fusto dell’abete, adagiandosi al suolo cosparso di
aghi. Osservò Rita al suo fianco, con quei suoi lunghi capelli ingarbugliati e i volti degli
altri compagni: com’erano belli pur se provati dalle fatiche e dalla fame. In
ciascuno vi si leggeva una storia; c’era impresso il distacco dai loro cari,
dagli amici, da una donna, da una vita normale, senza la morte in agguato in ogni anfratto, lungo il greto di un torrente, dietro un albero o
una finestra socchiusa. E s’era chiesto se anche dall’altra parte, tra i fascisti,
giovani come loro, si vivevano le stesse sensazioni! Ma soprattutto si chiedeva
cosa sarebbe accaduto se fosse sopravvissuto a quell’infame guerra: sarebbe
stato realmente possibile, per lui e per i suoi compagni, riannodare il filo di
una esistenza normale?
Sistemò la Beretta al fianco,
continuando a rigirarsi intorno a quei pensieri. “Un’esistenza normale?”, ripeté fra sé, e gli salì un groppo in
gola: rivide i volti dei compagni caduti poco prima sul ciglio di quella curva maledetta e
udì ancora le raffiche e le urla disperate. Erano rimasti in quindici, Rita compresa.
Tre giorni prima, a Piedivalle,
mentre tentavano di ricongiungersi alle altre formazioni, erano incappati in
una colonna motorizzata di nazifascisti in perlustrazione. L’ordine del Comitato di Liberazione di zona , ricevuto attraverso le staffette, era tassativo: “Le formazioni in avvicinamento al punto di raccolta, in caso
di fortuito contatto col nemico, devono astenersi dall’attaccare per primi
poiché qualsiasi azioni potrebbe nuocere in questa delicata fase di
cui si dirà di presenza”.
Da qualche tempo era nell’aria che
qualcosa di importante e decisivo covava negli alti comandi, così com’era evidente che, in quella
particolare circostanza, era stato loro impossibile rispettare quell’ordine.
Infatti, giunti in prossimità di Piedivalle, erano stati costretti ad
attraversare la provinciale in un tratto cieco, che curvava a gomito.
Allineati, quasi tutti avevano già superato in rapida successione quel punto
critico quando, d’improvviso, era sbucata dalla curva la testa di una sparuta colonna nemica,
proprio nel momento in cui -dannata sorte!- passava l’ultimo dei suoi,
Gianni. Nell’inevitabile scontro a fuoco, tre di loro e due nemici erano caduti, mentre gli altri fascisti erano precipitosamente tornati indietro a chiedere rinforzi. I mastini non avrebbero mollato e nel
giro di niente ne avrebbero avuto almeno il triplo addosso.
Ma, ad un tratto, mentre
piangevano i compagni caduti e stavano per riprendere la fuga, avevano udito il
rombo sgangherato di un motore. S’erano appiattiti al suolo, ma avevano presto
intravisto un camioncino arrancare verso di loro, e un fazzoletto sventolare dal finestrino. «Montate
su, prima che vi facciano a polpette», aveva gridato il giovane alla guida del
mezzo. Dimostrava non più di diciassette anni e da tempo spiava i movimenti dei
fascisti. Italo - questo il suo nome - con quell’azione per lui tanto audace,
aveva loro evitato molte ore di marcia, sottraendoli a morte sicura.
Ma ormai erano lì, al sicuro, in quella piccola cavità ben celata. Da lì, calmate le acque, avrebbero presto ripreso il cammino interrotto.
Ma ormai erano lì, al sicuro, in quella piccola cavità ben celata. Da lì, calmate le acque, avrebbero presto ripreso il cammino interrotto.
Pietro accese una sigaretta.
Non solo era l’ultima ma pure sgualcita e quasi svuotata. Chissà quando ne avrebbe avuto delle altre decenti. “Porca vacca!”, pensò,
“l’ultima come per i condannati a morte”.
Aspirò forte, mentre, con gesto automatico, trasse
da una tasca anteriore della casacca una foto malconcia. Ritraeva suo padre e i
fratelli in barca, nel porticciolo naturale, pronti a salpare per la pesca.
Chissà chi gliel’aveva fatta? Com’era ancora giovane
Giuseppe … poco più di un bambino! E Salvatore … Chissà se continuava a tuffarsi dai faraglioni per fare pomata davanti a Mariella. E quanto gli mancavano i silenzi di suo padre con le sue
incazzature! Stavano tutti e tre in piedi sulla barca, i remi ritti ai fianchi come in un
presentarmi, e un lieve sorriso di speranza. Lui, Pietro, era il maggiore dei
figli, richiamato in quell’assurda guerra, ma il buffo destino lo aveva costretto tra i monti a "pescare" ... nazisti e fascisti.
Era incredibile la circostanza
e il modo in cui Pietro aveva ricevuto quel ritratto. Gliel’aveva letteralmente
lanciato alla stazione di Torino, dal finestrino di un treno in movimento, un compaesano, un certo Ciccio, che
lui conosceva bene, figlio del sagrestano della "Provvidenza", la chiesetta a fianco di casa sua. Anche Ciccio era stato richiamato in
guerra e il padre di Pietro gli aveva affidato il ritratto come una reliquia, sicuro
che avrebbe prima o poi incontrato il suo Pietro, come se il continente fosse
una ciucca di terra. Ma alla stazione era accaduto l’impossibile.
Ciccio, l’anno precedente, proprio due giorni dopo l’Armistizio dell’8
settembre, in un mattino tumultuoso e disperato, l’aveva intravisto per pochi attimi lungo il binario,
confuso tra migliaia di altri.
Pietro già fin da quella data aveva scelto da che parte stare e
niente e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. Non era stata facile la
decisione, soprattutto per un giovane umile e semplice come lui, cresciuto tra
le litanie parrocchiali e le virili parate di regime; nutrito, com’era stato
fin dalla culla, dell’odio di ciò che andava odiato e dell’indiscusso amore per
l’idolo da amare.
Quel mattino -dicevo-, tra la
folla sbandata della stazione torinese, mentre si faceva largo su un
marciapiedi per il suo primo incontro clandestino, rifletteva anche su quanto,
Nino Sacco, un lontano vecchio parente, che si definiva antifascista, gli
aveva detto quel lontano giorno della partenza da Torrechiara. Ma ad un tratto aveva udito la voce concitata di qualcuno, con un tono e una inflessione a
lui del tutto familiare, e per un attimo aveva creduto di sognare, di non
trovarsi in quel luogo così lontano dalla quiete del suo paese, dalla sua gente
di mare. Qualcuno, infatti, in quella baraonda, aveva urlato: «Santu Ddiu... Pietru... propriu tu si!
To patri aveva ragione, propriu tu si!». Ciccio, strabiliato come un
bimbo, si era sporto fino alla cintola dal
finestrino di un treno stipato all'inverosimile, diretto chissà dove. A fatica era
riuscito a tirar fuori il ritratto e, avendo il treno già iniziato la corsa, l’aveva lanciato giusto in tempo su quell’incredibile brulichìo di teste.
Ma ora Pietro era lì, ai piedi dell’abete,
lontano dal suo mare. Anche lui finalmente cedette al sonno, il ritratto serrato fra le
dita, lievemente cullato dal sogno delle onde, mentre il
sole scendeva di là, tra i monti più alti.
Fu Rita a svegliarlo in piena
notte per l’ultimo cambio di guardia, ma non
riuscì a riprender sonno e così rimase sveglia accanto a lui. Da troppo tempo non si
parlavano in tutta tranquillità, e quella parve a lei l’occasione migliore. Ma
per alcuni minuti non riuscirono a dir parola: nel loro
intimo ristagnava il dolore per i compagni caduti e, in quel momento, il silenzio parve più eloquente di
qualsiasi parola. La dura realtà della guerra, la spietatezza di quella vita
impossibile, li aveva inaspriti, ma non fino al punto di accettare come niente
la loro morte. Il cielo era limpido come non
mai e la luna rischiarava ogni cosa.
Pietro sentì il bisogno di un’altra sigaretta. «Rita, hai da fumare?». Sapeva che le donne facevano sempre scorta d’ogni cosa: bastava solo chiedere e, come illusioniste, facevano spuntare l’impossibile. Non s’era sbagliato: Rita infilò la mano minuta nell’inseparabile zaino e ne trasse un pacchetto semi pieno.
«Prendi, fuma, cos’altro ci resta!», disse lei.
Pietro sentì il bisogno di un’altra sigaretta. «Rita, hai da fumare?». Sapeva che le donne facevano sempre scorta d’ogni cosa: bastava solo chiedere e, come illusioniste, facevano spuntare l’impossibile. Non s’era sbagliato: Rita infilò la mano minuta nell’inseparabile zaino e ne trasse un pacchetto semi pieno.
«Prendi, fuma, cos’altro ci resta!», disse lei.
«Cosa avremmo fatto senza di
te?», commentò Pietro come a volerla ringraziare, ma si rese conto di aver parlato a sproposito ripensando ai compagni caduti, e per un attimo si sentì sprofondare. Tentò allora di rimediare.
«Rita, cosa farai quando tutto sarà passato?».
«Rita, cosa farai quando tutto sarà passato?».
«Se tutto andrà come io penso, tornerò a
insegnare. E tu?».
«Io? Io tornerò a ... pescare».
«Perché, finora cos’hai
fatto?», e tentarono di soffocare la risata per non svegliare i compagni.
* * *
Rita era una giovane ebrea, ma non si era mai sentita diversa ... e poi per cosa e perché? Ma il 1938 aveva anche per lei segnato una tappa, un punto di non ritorno, un marchio indelebile. Il regime aveva promulgato
le leggi razziali con la complicità del re ed il silenzio del Vaticano e di lì a poco, come per tanti altri e a tutti i livelli, sarebbe stata cacciata da un liceo di Torino nel quale
insegnava. Con i genitori si era fermamente opposta alle insistenze di amici e
parenti perché abbandonassero l’Italia, ma alla casa di via Pisacane, alla sua
Torino, non avrebbe mai rinunciato. E neppure dinanzi alle notizie sempre più
attendibili di deportazioni aveva mutato idea. Ma un pomeriggio del dicembre
del ‘43, mentre lei era fuori a dar lezioni private, alcune SS, affiancate da
altri della milizia fascista, avevano bussato alla porta di casa, mentre di
sotto s’erano pian piano raccolti alcuni curiosi. Confusi tra questi c’erano pure due operai della FIAT abitanti del rione, già collegati ai primi nuclei della resistenza urbana.
Gli sgherri erano scesi poco
dopo con i genitori di Rita e li avevano sospinti con le armi puntate sul
camioncino. Proprio in quel preciso momento Rita, di ritorno a casa, stava
percorrendo via Pisacane e così i due operai, conoscendola di vista e avendola scorta in lontananza,
le erano corsi incontro, l'avevano bloccata a fatica, tappato la bocca e,
sospinta nell’androne d’un palazzo, ve l’avevano trattenuta a forza fin
quando i genitori non erano stati portati via.
Rita non li avrebbe più rivisti. Era rimasta nascosta in casa di uno di quegli operai e, alcuni giorni dopo, su richiesta di Rita, l'avrebbero messa in contatto con i gruppi della resistenza armata torinese.
Rita non li avrebbe più rivisti. Era rimasta nascosta in casa di uno di quegli operai e, alcuni giorni dopo, su richiesta di Rita, l'avrebbero messa in contatto con i gruppi della resistenza armata torinese.
* * *
Rita aveva smesso di ridere e
s’era fatta improvvisamente seria. Ad un tratto chiese a Pietro: «Cos’è che
realmente t’ha convinto a finire quassù? A me non l’hai mai spiegato».
«Veramente», rispose lui sorpreso, «non l’ho mai spiegato a nessuno, ma visto che me lo chiedi, ed io
stanotte mi sento di parlare …».
«Dài, forza, racconta allora», lo incitò Rita come una ragazzina impaziente, ma s’interruppe un attimo e aggiunse come sentendosi in colpa: «Ma lo sai che all’inizio, appena entrato nella nostra formazione, sospettavamo che ... fossi ... una spia e ti tenevamo sotto controllo?».
«Dài, forza, racconta allora», lo incitò Rita come una ragazzina impaziente, ma s’interruppe un attimo e aggiunse come sentendosi in colpa: «Ma lo sai che all’inizio, appena entrato nella nostra formazione, sospettavamo che ... fossi ... una spia e ti tenevamo sotto controllo?».
«È normale: guai se non lo facevate», rispose Pietro impassibile, e aggiunse che era inevitabile sospettare dal momento che nessuno lo aveva politicamente accreditato.
«In fin dei conti chi ero io se non un povero sbandato uscito dal nulla che, tra
l’altro, puzzava di pesce? e poi...». Pietro esitò un attimo.
«E poi cosa...?», insistette
lei.
«E poi, quel mio... accento
siciliano, non credo che mi aiutava ...!». Pietro esitò ancora. Non avrebbe
dovuto rivangare certe cose: erano solo vecchie sensazioni. S’era lasciato
prendere la mano e, risentito con se stesso, cercò di riacciuffare l’argomento
iniziale. «Ma se non sbaglio, non è da questo che siamo partiti».
«E già, non è da questo ...»,
rimarcò Rita con l'aria di chi non sopportava quel tipo di argomenti.
«Se non sbaglio, volevi
sapere», riprese Pietro, «come mai sia finito quassù, con voi, a far la festa a
fascisti e nazisti».
«Appunto, a pescare tra i
monti», ironizzò ancora Rita.
Pietro la guardò e sorrise. E
mentre la guardava, si accorse per la prima volta quanto fosse bella, sensibile e ... istruita!
Pietro iniziò dal giorno della partenza da Torrechiara. Si era nell'autunno del '40 e ricordò come in quegli anni ogni cosa gli sembrasse giusta e scontata. A scuola, in chiesa, nelle parate, nelle esercitazioni del sabato ... era sempre la stessa musica.
«A salutarmi alla stazioncina c’era la mia
famiglia al completo oltre a un lontano cugino di mia madre, Nino Sacco, un vecchio operaio,
l’unico antifascista dichiarato del paese che aveva lavorato vent’anni a
Milano, ma era considerato ormai tanto innocuo che lo stesso podestà non lo calcolava. E così, prima che il treno partisse, Sacco mi prese di lato e
mi disse: “Ascolta, Pietro, tu sei ancora
picciotto e credi che il mondo inizia e finisce qui, a Torrechiara, e invece vedrai quanto questo mondo è carogna
e complicato. Gli uomini e le donne pensano e agiscono in mille modi diversi.
Sono quanto e come i pesci nel mare che è grande e profondo. Ma ricorda: i pesci, neanche
quando finiscono nelle reti sono fra loro tutti uguali”.
«Soltanto dopo», proseguì Pietro, «sperimentando
la natura di quest’infame guerra che ruba i figli al mare e alla terra;
osservando i gerarchi incollati alle loro amanti e i loro capelli impomatati; constatando la fuga di altri con soldi e gioielli, ho compreso il significato
di quelle parole e così, nel momento giusto, ho tagliato ... la rete».
«Bella metafora quella del tuo
parente, interessante risposta la tua», esclamò Rita e, arruffandogli
affettuosamente i capelli, precisò: «Non mi pare che puzzi più di altri ... e poi il tuo
accento mi fa impazzire!».
Pietro sorrise come un bambino,
tirò fuori da una tasca una pezzuola unta di olio e, soddisfatto, si dette a
oliare mitra e rivoltella.
L’alba era ormai sopraggiunta e
bisognava muoversi in fretta.
* * *
La valle, fino al piano, dopo
un difficile scontro protrattosi per giorni, era quasi del tutto libera
grazie anche allo spontaneo appoggio della popolazione e alle favorevoli
condizioni del tempo. Restava soltanto un breve tratto lungo il fiume Taro dove
un battaglione tedesco, dotato di armi pesanti, di mezzi e ben protetto dalle alte sponde del fiume,
continuava a dar filo da torcere alle numerose formazioni partigiane affluite nella zona. La situazione di sostanziale stallo preoccupava non
poco e, tuttavia, il generale arretramento nazifascista nell’intera regione
aveva consentito al Comando Unificato di Liberazione di trasferirsi provvisoriamente nel Palazzo
municipale di Pianoro, alcuni chilometri più in giù di Piedivalle. Ma di lì a
poco, in questa situazione fluida, tesa e a tratti confusa, avrebbe preso
corpo, proprio lungo il Taro, quella che sarebbe stata ricordata come la più
straordinaria tra le imprese del Pescatore alla testa del suo gruppo.
Pietro e i suoi compagni, da
oltre due giorni, disinformati della generale evoluzione in atto nell’intera zona,
avevano abbandonato il rifugio per riprendere il cammino interrotto. Ma ben
presto le staffette li avevano avvertiti della situazione di stallo
venutasi a creare lungo il Taro. Nel Comando generale di zona, vista la
situazione critica, c’era molta apprensione per loro e, pertanto, se ne
sollecitava l’avvicinamento alla base di Pianoro.
A un certo punto, però, Pietro
e i suoi avevano deviato verso la maledetta curva: non avrebbero mai potuto
rassegnarsi al pensiero di quei poveri corpi abbandonati! Quando vi giunsero
constatarono, però, che mani pietose li avevano sepolti e provarono un gran
sollievo. Chi altri, se non Italo, il loro salvatore, aveva potuto provvedervi?
Si accostarono con cautela alla casa. Era tutto chiuso, silenzio, il camioncino
sparito. L’unico segno di vita, un galletto razzolante. Non era prudente,
però, attardarsi oltre in quei paraggi e così decisero di proseguire il
cammino, sperando che prima o poi avrebbero rivisto Italo. Solo Luigi si attardò qualche minuto in più. La fame si tagliava a fette e quel galletto cadeva a puntino. Cercò frettolosamente le uova poiché, se c'era un gallo, non potevano mancare le galline, e se c'erano galline, c'erano uova infilate da qualche parte. Cercò rapido in tutti gli angoli, niente: chissà dove le avevano nascoste e da dove fosse piovuto quel pennuto. I compagni, intanto, s'erano messi in marcia e gli gridarono di far presto. Solo il tempo di ... afferrarlo e li avrebbe raggiunti. Prima di quanto sperasse riuscì, fra gli starnazzi del poveretto, nella difficile impresa, lo ribaltò, gli stirò il collo in un baleno e lo infilò nello zaino; quindi in pochi secondi raggiunse gli altri. Quando fu accanto a Pietro gli dette una gomitata contro il braccio e gli spalancò lo zaino sotto gli occhi: «Quando rintracceremo Italo», disse raggiante, «lo ringrazieremo anche per questo!».
Giunti in vista di Pianoro, scrutando col binocolo, si erano fatte idee ben precise sulla viabilità, sui punti meno esposti, sui tracciati più brevi e, soprattutto, sull’esatto posizionamento lungo il fiume della tenda degli ufficiali nazisti. A un certo punto avevano deciso di sostare il tempo necessario di studiare, nei minimi particolari, un piano d’azione ed era apparso chiaro che questo si sarebbe potuto attuare solo a condizione di riuscire a reperire un paio di divise naziste, cosa cui avrebbe provveduto Rita.
Rita, però, aveva partecipato
alla discussione dando segni di forte dissenso sull’operazione e, solo quando
era apparso tutto deciso, era intervenuta energicamente chiedendo che si mettesse ai voti la proposta di Pietro. «Siete dei bambocci
esaltati», aveva urlato incollerita, «vi rendete conto di avere totalmente perso
il contatto con la realtà?!».
L’avevano guardata interdetti e
lei aveva rincarato. «Non capite che equivale a un suicidio ... meno di un’esibizione
da circo? Non vi bastano i compagni già caduti? Vi impedirò questa follia che
vorreste attuare senza neanche informarne il Comando». Quindi d’impeto aveva
afferrato Pietro per la casacca, all’altezza della gola e, scuotendolo, gli
aveva ripetuto gridando: «Ve lo impedirò a tutti i costi e con ogni mezzo...
Oltre alle spiegazioni che dovremo fornire per la morte dei compagni, ammesso
che si resti vivi, ci vuole pure questa follia!».
Pietro aveva staccato lentamente
la mano di Rita dalla casacca. «Ascolta», aveva esordito a nome di tutti,
«questo è il tempo in cui le parole sono un tutt’uno con l’azione. Tu sei stata
preziosa, come ciascuno di noi lo è stato e lo è. Nessuno ci ha però obbligati
a compiere la scelta», aveva a quel punto rimarcato, battendo con forza il
pugno contro un ramo. «Piaccia o meno», aveva aggiunto, «siamo in guerra, e la
morte è sempre nel conto. Tu, Rita, vedi … comprendiamo la tua ansia, ma non
vediamo con chi dovremmo giustificarci se non con la nostra coscienza. Il
problema, allora, è un altro: è giusto o non è giusto ciò che abbiamo deciso di
fare? Per noi lo è poiché è certo che, se l’azione riuscirà, come noi crediamo,
potranno essere risparmiate molte vite. In caso contrario, male che vada,
saremo al massimo in un paio a cadere: io e Giacomo».
«E già, hai detto niente: parli
di uomini come fossero birilli! Ma cosa avete in testa?!», gridò Rita,
scaraventando con rabbia lo zaino a terra.
A quel punto, Giacomo Vergara, il
più anziano del gruppo, che aveva seguito la scenata un po’ in disparte, s’era
deciso ad intervenire. Era un bell’uomo alto e asciutto, finemente colto. Sull’esperienza
di quella vita, s’era pian piano costruita una rudimentale filosofia che aveva
finito col contagiare un po’ tutti. «Noi siamo degli illusi, crediamo di
modellare il mondo», le aveva detto con fare fraterno, «ma in realtà
galleggiamo nel mare degli eventi e non determiniamo che qualche briciola di
verità e di giustizia poiché, se ci rifletti, queste dipendono solo in parte da noi. È, piuttosto, la spinta vitale delle cose, il fluire e l’intreccio
degli stessi eventi a determinare i nostri atti. A noi, nell’arco della nostra vita, è concesso di compiere
forse soltanto un paio di scelte fondamentali, quelle per le quali varrebbe
financo rischiarla la vita. Forse non è vero», aveva proseguito dando fondo a
tutta la sua capacità persuasiva, «che una di queste scelte l’abbiamo già
abbracciata nel momento stesso in cui abbiamo deciso di lottare tra queste
valli? Non è forse ciò che ci è realmente accaduto? E lo stesso non è
probabilmente accaduto ai giovani repubblichini convinti di stare dalla parte
giusta? Io lo sento da
che parte stanno verità, inganno e ragione, ma solo i fatti», aveva concluso
pensoso, «potranno un giorno suggellarlo dinanzi al mondo».
«Giacomo, ma non ti rendi
conto», aveva ribattuto Rita, «di confondere tutto e tutti...? Siamo noi e solo
noi a determinare gli eventi, con le nostre idee, con le nostre scelte e
passioni, con i nostri sentimenti ...».
«A determinarli? Sì, ma se
agisci», aveva obiettato Giacomo, «in caso contrario a subirli!».
«Fate come credete», aveva
infine sussurrato Rita impotente e, come spesso le accadeva in quei frangenti,
il pensiero era corso ai suoi genitori. Per stemperare l’angoscia, s’era persa
a vagare con la sguardo nella vallata silenziosa e da quel momento non aveva
più aperto bocca, proseguendo il cammino con la morte nel cuore.
* * *
Lungo le sponde del Taro, Karl
Steiner, ufficiale della Wehrmacht, comandante di quel che rimaneva del suo
battaglione, anche quel giorno, dopo l’ennesima notte d’insonnia, s’era
definitivamente alzato quando già albeggiava.
Sorseggiando del the dinanzi l'apertura della tenda, osservava inquieto l’andirivieni
di soldati. Si sentiva fiaccato: mai come allora s’era
trovato in situazioni tanto critiche. Da giorni, sino a tarda sera, era stato
un continuo martellare e ora anche lui era in attesa di un’altra terribile
giornata. Le munizioni ormai
scarseggiavano e, realisticamente, era impensabile fidare su altri
rifornimenti.
La sua esistenza, vissuta nel mito di un impero di razza mai nato, gli appariva ora come un vascello traboccante di menzogne, miseramente infranto lungo le sponde di un fiume straniero. Non aveva forse sfilato anche lui, giovane germoglio di stirpe guerriera, gli occhi ridenti rivolti al glorioso futuro, dinanzi allo sguardo esaltato del suo nume? E non aveva goduto anche lui, in tempi migliori, dei privilegi della sua casta? Si chiedeva, ora, dove fosse finito e per chi? per cosa? perché? e che ne sarebbe stata della sua famiglia, della sua vita?
La sua esistenza, vissuta nel mito di un impero di razza mai nato, gli appariva ora come un vascello traboccante di menzogne, miseramente infranto lungo le sponde di un fiume straniero. Non aveva forse sfilato anche lui, giovane germoglio di stirpe guerriera, gli occhi ridenti rivolti al glorioso futuro, dinanzi allo sguardo esaltato del suo nume? E non aveva goduto anche lui, in tempi migliori, dei privilegi della sua casta? Si chiedeva, ora, dove fosse finito e per chi? per cosa? perché? e che ne sarebbe stata della sua famiglia, della sua vita?
Poco più in là, in quello
stesso momento, Pietro e Giacomo, tesi, pallidi, andando lentamente a ritroso,
sbucarono dal nascondiglio ricavato nella notte tra la vegetazione fluviale,
proprio all’interno del campo tedesco. Indugiarono appena il tempo necessario
e, sempre con le spalle rivolte ai soldati nemici, finsero di urinare tra le
sterpaglie. Poi, con grande naturalezza, si volsero verso le tende,
affibbiandosi le patte dei calzoni delle loro ... impeccabili uniformi della
Wehrmacht e, conversando in tedesco,
si diressero, come fossero stati lì da sempre, verso la tenda del colonnello
Steiner. In realtà solo Giacomo parlava mentre Pietro, arrestandosi di tanto in tanto
ad annuire con vistosi movimenti del capo, fingeva d’interloquire con un
monotono “ja...ja”, l’unico suono da lui in grado di pronunciare.
La lieve foschia mattutina
ovattava l’aspro parlottio e il rassegnato andirivieni dei soldati. Ed era
proprio quel parlare aspro e misterioso che suscitava in Pietro un senso indefinibile di smarrimento. Un impercettibile tremore gli aveva inoltre preso
mani e gambe, ma presto s’avvide che più procedeva, più si sentiva speranzoso e
sicuro. Il merito era soprattutto di Giacomo, che parlava correntemente il
tedesco, avendo vissuto per oltre dieci anni in Germania, ad Amburgo.
Egli vi aveva frequentato le scuole elementari e medie, essendo suo padre, Giulio Vergara, addetto al Consolato italiano in quella città. Negli anni vi era spesso ritornato, avendo stretto salda amicizia con un gruppo di studenti tedeschi che, come più tardi avrebbe appreso, erano stati internati nel campo di Belsen a causa delle loro idee antinaziste. Quell’evento aveva profondamente segnato la sua esistenza, non riuscendo mai a darsene pace.
Egli vi aveva frequentato le scuole elementari e medie, essendo suo padre, Giulio Vergara, addetto al Consolato italiano in quella città. Negli anni vi era spesso ritornato, avendo stretto salda amicizia con un gruppo di studenti tedeschi che, come più tardi avrebbe appreso, erano stati internati nel campo di Belsen a causa delle loro idee antinaziste. Quell’evento aveva profondamente segnato la sua esistenza, non riuscendo mai a darsene pace.
Successivamente, nell’Università
di Torino, rotto ogni indugio a causa di un tragico episodio di cui era stato vittima
un suo professore antifascista, Augusto Ripamonti -episodio che lo aveva
ulteriormente convinto dell’odiosa natura del regime e dello scellerato
imperialismo germanico- era entrato in contatto con un gruppo antifascista e,
da lì, il passo nella lotta armata era stato breve.
Giacomo era l’unico esempio,
del gruppo del Pescatore, di intellettuale puro che avesse, cioè,
compiuto la sua scelta per maturazione ideologica, ma anche sulla spinta dei
rapporti a dir poco burrascosi col padre, cui non perdonava l’adesione a quegli
sciagurati regimi.
Disinvolti, interpreti temerari
della messinscena, raggiunsero l’ingresso della tenda del colonnello tedesco piantonata da un soldato dall’aria indolente. «Dispaccio urgente per il signor colonnello»,
annunciò Giacomo in perfetto tedesco. Il piantone, senza batter ciglio, fece
cenno di passare, ma ad entrare con passo sicuro fu il Pescatore, tenendo ben in mostra un foglio ripiegato. Giacomo,
invece, restò fuori a conversare circospetto col piantone.
L’imponente figura di Steiner
gli si stagliò di fronte. In piedi, curvo su un tavolinetto, era intento a
esaminare alcune carte topografiche. Steiner alzò lo sguardo, fissandolo con occhi
interrogativi. Pietro non accennò minimamente al saluto nazista, e per
un attimo ebbe la sensazione che lo stesse aspettando, come se la sua improvvisa presenza fosse da sempre impressa nella sua mente.
«Che c’è?», chiese calmo
Steiner.
Pietro gli porse il foglio e si limitò a dire in italiano di leggere. L’ufficiale non batté ciglio e,
ostentando indifferenza, non parve curarsi del foglio. Ma non riuscì a dissimulare l'impercettibile fremito che dalle labbra gli si spense sul mento, e solo allora accennò a una reazione con la sua Mauser. Pietro, però, lo anticipò con un balzo e, scuotendo il capo in segno di rimprovero, gli trattenne pacatamente la mano sulla fondina. Quindi,
senza iattanza, gli fece segno di consegnargliela.
Steiner parve esitare un istante,
poi reclinò leffermente il capo ed emise un sospiro. Ma non si senti umiliato: il fare misurato di quel giovane, gli aveva reso dignitosa la
resa. Si sfilò lentamente la fondina e la pose nella mano aperta di Pietro. Steiner l’osservò meglio: la pelle olivastra e
gli occhi grandi e neri come carbone, contrastavano con la divisa che indossava!
E fu allora che vide definitivamente crollare il suo mondo.
«Legga, perdio, legga!», gl’intimò
Pietro, calando una poderosa manata sul tavolinetto su cui stava spalancato il finto dispaccio.
Steiner si riscosse, prese il foglio tra le mani e lesse
ciò che Giacomo aveva scritto in perfetta tedesco:
“Chi
le sta di fronte è un partigiano che non parla la sua lingua. Proviene
dalla Sicilia ed è qui, come tutti noi, a combattere per riscattare l’onore d’Italia.
Odiamo questa guerra, non siamo stati noi a volerla, così come non vorremmo
proseguirla vanamente un giorno di più. Ma ciò dipende solo da lei.
Sinceramente vorremmo, invece, che tornaste nella vostra terra, evitando altre rovine
a noi e a voi stessi. Lasci, dunque, il Suolo italiano, consegni le armi: la
frontiera è vicina, sarete presto in salvo. E consegni pure, nelle mani dell’Esercito
di Liberazione, i giovani fascisti repubblichini che sono tra voi e ai quali
garantiremo un regolare processo. La informo inoltre che, fuori da questa tenda,
altri patrioti ben mimetizzati l’attendono: nell’interesse di tutti, non
compia gesti inconsulti. Il patriota
Alati dovrà puntarle la rivoltella alla nuca. Disponga che una camionetta sia pronta per
condurla celermente presso il nostro Comando dove resterà in ostaggio fino
alla verifica del preciso rispetto delle condizioni poste.
W L’ITALIA LIBERA”.
L’ufficiale della Wehrmacht si ricompose, commentando in uno stentato italiano: «Bravi
partizano! Solo itagliano hano fantàsia».
«Finiscila con queste minchiate»,
lo interruppe Pietro, «spirùgghiati, chiama l’aiutante in campo e fai partire gli
ordini».
Anche Giacomo, ad un fischio di
Pietro, entrò nella tenda per uscirne subito dopo assieme col colonnello ben
stretto fra loro.
La Beretta vibrava alla nuca di
Steiner quando, in un silenzio irreale, montarono sulla camionetta e, avviato
il motore, partirono rapidi verso Pianoro, lasciando avvolti in una nuvola di polvere
i soldati impotenti.
* * *
«Scusi, professore, se la
interrompo», disse imbarazzata Emma, una brunetta dagli occhi a spillo.
«Di’ pure, Emma».
«Potrà sembrarle banale, ma una foto di suo zio esiste? E se sì, potrebbe farcela vedere uno di questi giorni?».
«Ho capito», risposi
impassibile. «Se la cosa può aiutarti, be’ … allora, in un certo senso posso fartela vedere subito: guarda me e vedrai mio zio Pietro in carne ed ossa».
Emma fece un’espressione
delusa, tutti gli altri risero, ma io mi sentii incoraggiato poiché la curiosità rivelava l’interesse
catturato.
«Ragazzi», dissi allargando le
braccia, «la campanella è inesorabile: devo lasciarvi, mi aspettano i vostri
compagni di terza B. Proseguiremo il prossimo
sabato».
Uscii dall’aula e piegai a
destra per il corridoio. Alle mie spalle udii un insolito, sommesso brusio.
Fotografie
compromettenti
Durante il viaggio di ritorno a
Torrechiara non feci che pensare a quell’inizio di giornata: mi sentivo
soddisfatto di come si mettevano le cose. Appena sceso in stazione sganciai la
bicicletta dal solito palo e scivolai verso casa affamato come un lupo.
In quei giorni Torrechiara, nonostante
le limitazioni sull’affissione, era stata tappezzata di
manifesti elettorali d’ogni tipo e dimensione. Facce suadenti, sorrisi
smaglianti, promesse accattivanti svettavano incollati in ogni angolo.
Appena giunto dinanzi alla porta di casa, mi accorsi che neppure la mia via, pur scarsamente abitata, era sfuggita alla sorte. Infatti, nel muro della casetta di fronte, da anni disabitata, ne spiccava uno nuovo con caratteri cubitali:
Appena giunto dinanzi alla porta di casa, mi accorsi che neppure la mia via, pur scarsamente abitata, era sfuggita alla sorte. Infatti, nel muro della casetta di fronte, da anni disabitata, ne spiccava uno nuovo con caratteri cubitali:
“BASTA CON LE CALUNNIE DI MARIO
FERRO E DEI SUOI SOSTENITORI. DOMENICA 29 ALLE ORE 17 INCONTRO CON GLI ELETTORI AL CINE
TEATRO VITTORIA”.
Il paese, in quelle settimane,
era attraversato da forti tensioni, in un acceso contrasto tra “vecchio” e “nuovo”.
Si trattava di un vero e proprio scontro epocale che anticipava il declino dei
vecchi equilibri politico-affaristici: stava maturando, infatti, da una parte una
nuova coscienza, una specie di processo di liberazione da anni di soprusi, di
omertà e di paure; dall’altra andavano consolidandosi nuovi e più agguerriti
apparati. Per la prima volta, poi, nei comizi e nei dibattiti,
erano stati pubblicamente spiattellati i nomi dei capicosca e grande
emozione aveva suscitato quello scontro caratterizzato da roventi polemiche
e oscure minacce. Anch'io, dopo un lungo disincanto, ben consapevole dei
rischi, m’ero tuffato nella mischia a sostegno del maestro elementare Mario
Ferro, uno dei tre candidati a sindaco, quello accusato dal manifesto che mi stava di fronte.
Non appena messo piede in casa, Gina come al solito mi venne incontro reclamando, con sonori miagolii, attenzioni e carezze. Per terra notai un foglietto che raccolsi: riconobbi subito la scrittura di Franco. Mi avvisava che alle 18 ci sarebbe stata una riunione riservata con Mario Ferro in casa di Irene. Franco era un
mio vecchio amico col quale, fin da giovane, avevo condiviso tante
battaglie. Misi in realzione il biglietto col manifesto e intuii che doveva trattarsi di questione piuttosto delicata.
Pranzai con comodo, misi qua e là in ordine, carezzai Gina e le versai altri croccantini nella ciotola, seguii l'ultima parte del TG delle 17 e infine, un po’ in anticipo, mi avviai in bici verso casa
di Irene. Il cielo verso mare s’era fatto minaccioso, nuvoloni neri s’addensavano,
lasciando prevedere che, di lì a poco, si sarebbe scatenato il diluvio.
Giunsi per primo.
Irene, in realtà, abitava una villa ottocentesca ereditata dalla nonna materna,
la baronessa Peralta. Sorgeva nella zona alta del contado, poco fuori dal centro
abitato, su un pianoro ricco di
vegetazione da cui si dominava il paese. Alla villa si accedeva da un enorme cancello sorretto da due
grandi pilastri in pietra arenaria. Da lì, fiancheggiato da mandarini e limoni, si
snodava un viale tutto curve in terra battuta che, percorsi un centinaio di
metri, piegava dolcemente a sinistra per terminare nello spiazzo di fronte la villa,
circondata da maestose palme centenarie. Irene, grazie anche ad un’attenta
manutenzione, era riuscita a conservarne quasi intatto l’antico fascino, pur
sfruttandone solo un’ala, per lei più che sufficiente. Al piano superiore, le
cui stanze si affacciavano su una balconata sempre ricca di gerani e grandi
macchie di gelsomino, si accedeva dall’interno, per mezzo di un’ampia scala.
Ticchettai con le dita sui vetri
di una persiana del portico al pianterreno. Lei aprì quasi subito. Mi
apparve più del solito radiosa, il perfetto disegno delle labbra e i grandi occhi
nocciola a mandorla. Mi prese per mano, mi baciò sulle labbra e mi condusse
silenziosa lungo il corridoio che immetteva nella grande cucina-soggiorno. Mi
precedeva con la sua inconfondibile andatura, i capelli ondulati che le oscillavano
lievemente sulle spalle. Quella sera indossava un golfino beige con
discrete applicazioni floreali sulle maniche, un fazzoletto di seta color
nocciola, leggermente striato di verde, annodato al collo, e la gonna scozzese
plissettata che le esaltava i fianchi.
Irene,
intanto, mentre mi parlava del più e del meno, mi chiedeva della scuola e di quel mio progetto in atto, nell’attesa che fossimo al completo, occupò il tempo a preparare la
macchinetta del caffè, le tazzine con la zucheriera e ad aggiungere un bel ceppo nella grande stufa in ghisa. Io, rimasto in piedi al centro
dell’ampia cucina, sentendomi trascurato, a un certo
punto la richiamai bonariamente: «Non sono venuto per
assistere alle tue danze. Sta’ un po’ calma, smettila di girare come una
trottola ... sediamoci qui sul divano!».
«Uuuh, come l’abbiamo passionale questa sera!», ribatté lei, proseguendo affaccendata come nulla fosse, «ma ti sembra questo il momento di effusioni?!».
Aveva appena finito di dire "effusioni", che avvertimmo il sopraggiungere degli altri
Aveva appena finito di dire "effusioni", che avvertimmo il sopraggiungere degli altri
Nubile, non più giovane, ma ancora attraente, fotografa d’eccezione, dal carattere volitivo e a tratti impulsivo, discendeva da una aristocratica famiglia di Torrechiara. Ma lei, Irene, aveva perso ormai ogni tratto dell’antica nobiltà familiare.
Diversi anni prima aveva
intrecciato con me un’amicizia che s’era presto trasformata in qualcosa di più,
ma si sa com’io la pensassi in fatto di legami e pertanto, dopo avere apertamente chiarito ogni
aspetto di quel rapporto, lei m’aveva assecondato, condividendone in gran parte le ragioni. La
relazione, proseguita senza particolari contraccolpi, s’era tuttavia mantenuta sempre nella riservatezza. In seguito avevamo iniziato a frequentarci con
persone come Franco, Mario ed altri il che era avvenuto diversi anni prima, da quando, cioè, era stabilmente
tornata da Mantova, città della madre, dove da fin ragazzina s’era trasferita
per motivi familiari e di studio.
Da quando era tornata a
Torrechiara, qualcosa di nuovo era però cominciato a crescere in lei: si
sentiva più libera, più sicura; stava rigenerandosi, scrollandosi di dosso antiche
paure come in un preludio d’attacco contro il confuso risentimento che nutriva
per la sua terra. Questa indistinta condizione dell’animo, che affondava in un’antica
e drammatica vicenda, stava ora tentando di analizzarla razionalmente, non per
cancellarla dalla memoria e dalla storia, ma per affrontarla a viso aperto,
nella sua obiettiva realtà politica e civile: un moto -pensava- che avrebbe dovuto investire l’intera Torrechiara.
Orfana di entrambi i genitori fin dai primi anni di
vita, uniche due vittime di un banale incidente ferroviario
nei pressi di Mantova, era stata allevata dalla baronessa, sua nonna paterna, che
lei amava oltre ogni limite. La baronessa, però, ormai sola e avanti negli anni,
sottoposta a un vile stillicidio di “espropri” da parte della cosca mafiosa del
luogo, aveva dovuto più volte soccombere ai soprusi, morendone di crepacuore. Irene,
concluso a tredici anni il ginnasio, aveva così dovuto abbandonare nel silenzio
generale Torrechiara per trasferirsi a Mantova, presso una zia, sorella della
madre. L’unica proprietà scampata alla rapina era la villa, quella in cui era
nata lei e prima ancora suo padre e dove, in quel momento, io e gli altri, come
in un atto di rivalsa civile e morale, studiavamo il modo di non far passare
sotto silenzio le nuove prepotenze che si profilavano in paese.
Il maestro Mario Ferro, figlio
di contadini, un tipo asciutto e longilineo, occhiali e sguardo rassicurante,
giunse in ritardo mentre di fuori aveva già preso a diluviare.
«Scusate per il ritardo», disse,
scrollando frettoloso l’ombrello sotto il portico, «ma sono stato chiamato in
caserma. Il maresciallo è allarmato per il clima che si è creato in paese; è
preoccupato soprattutto per noi, e mi ... anzi … c’invita ad andare più
cauti!».
Intanto, mentre così parlava,
col fazzoletto s’era messo ad asciugare in modo maniacale le lenti schizzate di
pioggia. Sembrava non la finisse più con quell’operazione, come fosse stato
colpito da una specie di tic nervoso.
«Perché non la smetti con quei
benedetti occhiali e ci spieghi bene che è successo?», disse Irene spazientita.
«Niente, nulla di particolare;
è solo il clima complessivo che preoccupa il maresciallo», precisò ancora Ferro che intanto
aveva inforcato gli occhiali.
«E tu cosa gli hai detto?», lo
incalzò Franco.
Ferro esitò un attimo: «Io gli
ho testualmente detto che andremmo avanti come è giusto che sia».
«Andremmo …?! E domani, con quella manifestazione del Vittoria che dobbiamo fare? lasciare che Ravanusa rivolti come
sempre la frittata?», intervenni io corrucciato.
«Assolutamente, no», intervenne
Irene furente, «non dobbiamo permettere che stravolgano la verità dei fatti.
Siamo nel ballo? bene, balliamo; inchiodiamo Ravanusa e i suoi degni compari
alle loro responsabilità. Le foto in nostro possesso le abbiamo forse dimenticate?
Suonano come un organo! Che aspettiamo? rendiamo tutto pubblico, lì, in piazza,
e questi criminali vedrete che si squaglieranno come neve al sole».
Ferro impallidì. «Ne sei
veramente convinta?», disse, «siamo sicuri d’essere tanto forti da sostenere l'impatto?».
Il dubbio insinuato da Ferro
gelò tutti. Irene a quel punto balzò come una molla e decretò: «Il prossimo
sabato sera, comizio in piazza. Salirò anch’io sul palco e sarò io, soltanto io
a suonare l’organo».
Sguardi titubanti s’incrociarono:
Irene non scherzava, la conoscevamo bene.
«È inevitabile: anche volendolo
non possiamo tirarci indietro», intervenni io a quel punto.
E Franco: «Non credo, nonostante i cambiamenti in atto nella nostra comunità, che i tempi siano maturi per simili azioni dirompenti; rendiamoci conto che siamo ancora fondamentalmente isolati, che appariremmo come dei velleitari … dei pazzi, che faremmo soltanto il loro gioco. In una parola», concluse, «qui ci giochiamo tutto, ma proprio tutto ...! Spero solo che tu, Irene ... Placido ci riflettiate bene prima di ...».
E Franco: «Non credo, nonostante i cambiamenti in atto nella nostra comunità, che i tempi siano maturi per simili azioni dirompenti; rendiamoci conto che siamo ancora fondamentalmente isolati, che appariremmo come dei velleitari … dei pazzi, che faremmo soltanto il loro gioco. In una parola», concluse, «qui ci giochiamo tutto, ma proprio tutto ...! Spero solo che tu, Irene ... Placido ci riflettiate bene prima di ...».
Quegli argomenti non parvero
scalfire Irene: «Ci ho riflettuto, è da mesi che ci rifletto», mormorò tra sé,
«avete forse dimenticato che il silenzio uccide …?».
«Questo non puoi, non te lo
permetto», scattò Ferro, «hai detto: avete, come se tu fossi l’eroina senza
macchia e senza paura e noi i codardi di turno in preda al terrore. Certo,
sfido chiunque a non aver paura... ma se attuassimo ciò che proponi ci
assumeremmo un’enorme responsabilità, che andrebbe ben oltre le nostre persone.
Qui non si gioca una partita a ramino, ma il futuro del paese e anche la nostra
pelle, se non l’hai capito. E poi, a ciascuno il proprio ruolo: non siamo né
poliziotti, né magistrati …».
«Basta, ho capito, è tutto
chiaro. Se alcuni di voi non condividono, ma anche se nessuno di voi
condividesse, pazienza», insistette Irene calma, «significa che quanto ho
proposto, lo farò a titolo strettamente personale. Volete … potrete
impedirmelo?!».
«No, non possiamo impedirtelo»,
disse Franco, «ma vogliamo soltanto ricordarti che il nostro compito è
politico. Noi abbiamo il dovere di produrre e pretendere atti amministrativi
chiari, onesti, trasparenti e legali, nell’interesse di tutti».
Quelle foto compromettenti,
scattate da Irene col teleobiettivo dalla torretta della villa e in periodi
diversi, ritraevano il rispettabile dottor Ravanusa intento a conversare
amichevolmente nel giardino del capomafia. Ravanusa era un medico politicamente
molto potente, capo elettore inamovibile, conosciuto in tutta la provincia,
avversario storico del gruppo di Mario Ferro e degli altri.
In quel momento speravo che Irene,
alla fine, avrebbe desistito. Infatti in me, era chiaro il
copione, il paradosso che sarebbe emerso alla fine: quelle foto, che inchiodavano il medico,
sarebbero presto divenute un peso soffocante, tizzoni ardenti più per noi che
per lo stesso Ravanusa. Il solo riparlarne non stava già forse acuendo tensioni
e spaccature al nostro interno? No, un momento, a rifletterci meglio, lo scenario che si sarebbe profilato era del tutto prevedibile. Era stato sempre così nella storica lotta: anche dinanzi
alle più schiaccianti evidenze dei fatti, avrebbero sfoderato le giustificazioni
più incredibili; anzi, tanto più incredibili sarebbero state, tanto più verosimili sarebbero apparse all'opinione pubblica. Innanzitutto avrebbero
messo in giro la voce che quelle foto erano un volgare trucco,
il risultato di sofisticate diavolerie da computer; oppure, l’argomento
più plausibile, che Ravanusa, di tanto in tanto, faceva visita al capo mafia per
semplice dovere professionale: forse che il medico non è come il prete o l’avvocato?
Di fuori, intanto, aveva quasi smesso di piovere. Io, ultimo rimasto, osservai attraverso i vetri appannati le palme grondanti illuminate dalla luce dei lampioni dello spiazzo. Decisi ch’era il momento di tornare a casa. Già in piedi, ingollai l’ultimo sorso di liquore, baciai Irene senza convinzione e, per far sbollire del tutto la tensione, mentre mi avviavo in bicicletta per la discesa, le gridai in tono scherzoso: «Io te lo impedirò, borghesuccia avventuriera da quattro soldi».
«Va’ al diavolo!», fece lei di
rimando.
La
terra umida di pioggia mi trasmise l’odore di pulito che tanto mi piaceva e per un
istante avvertii forte la voglia di tornare indietro da lei, ma era meglio che
restasse sola a riflettere con se stessa. Pedalai più forte e così il desiderio
di lei svanì presto. Giunto a casa, non potei fare a meno di immaginarmela sola e spaurita,
raccogliersi i capelli dietro la nuca con quel suo rapido roteare delle mani, lasciarsi cadere supina sul sofà, non senza aver prima afferrato al volo il pesante posacenere posto sul vicino tavolinetto.
In quella casa per lei troppo grande, avrebbe avvertito improvviso il vecchio, distruttivo senso di isolamento. Avrebbe acceso chissà quante sigarette e, per quella notte, forse, non avrebbe preso sonno.
In quella casa per lei troppo grande, avrebbe avvertito improvviso il vecchio, distruttivo senso di isolamento. Avrebbe acceso chissà quante sigarette e, per quella notte, forse, non avrebbe preso sonno.
* * *
La settimana era volata in un
soffio. In viaggio per Palermo ripensai al comizio da tenere, anche perché, nei
giorni precedenti, avevo avuto altri frettolosi contatti con Irene senza, purtroppo,
ottenere alcunché.
Scesi dal treno, attraversai la
stazione e tagliai per Ballarò già brulicante e il solito uomo, con una pancia a botte, mi si accostò offrendomi le “americane”.
A scuola giunsi come sempre
puntuale e, cosa strana, constatai con piacere che tutti i ragazzi e le ragazze
mi avevano preceduto, Eloisa compresa.
«Vedo che possiamo iniziare
subito … Chi rammenta dove abbiamo interrotto sabato scorso?».
In molti alzarono la mano, ma
fu a Laura che chiesi di riassumere: «Pietro e Giacomo Vergara,
col colonnello tedesco preso in ostaggio, montano sulla camionetta e si avviano
verso il comando partigiano, lasciando i soldati impotenti».
«Perfetto!»,
esclamai.
Secondo sabato
La Belva
Intanto
Rita e gli altri erano riusciti, fin dal mattino precedente, a raggiungere
indenni Pianoro, il paese sottostante a Piedivalle, dove -come vi ho già accennato in precedenza- si era provvisoriamente situato il Comando
Generale delle formazioni di zona, e lo avevano subito informato della
temeraria azione messa in atto dal Pescatore
e Giacomo Vergara. Il rapporto, molto dettagliato, era stato presentato -senza
lasciar trasparire alcun dissenso interno- ad uno dei comandanti più
prestigiosi, il medico Attilio Liberati, uomo noto ed apprezzato per
concretezza ed equilibrio. Costui, leggendo il resoconto, era andato su tutte
le furie e aveva subito convocato la speciale commissione disciplinare. Ne era
nata una discussione burrascosa poiché, in realtà, l’azione dei due rischiava
di complicare l’imminente attuazione di un piano generale deciso dal Comitato
di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia.
«Due
pazzi individualisti avventurieri da mettere al muro», aveva urlato Calcaterra
fuori dai gangheri, uno dei massimi componenti della commissione, seguito a
ruota da un altro secondo cui quei due, disattendendo precise disposizioni,
rischiavano di far saltare tutto e tutti.
Alla
fine lo stesso Liberati era riuscito, così come accaduto in altre analoghe
circostanze, a ricondurre tutti alla ragione. Il vecchio comandante aveva fra
l’altro affermato che, a ben pensarci, forse non sempre ogni male veniva per
nuocere. E così, tra qualche malumore, era stato deciso, non sussistendo in
quella situazione altra scelta, di anticipare di qualche ora le operazioni di
accerchiamento a sostegno del piano dei due … folli; piano che, se fosse
riuscito, avrebbe effettivamente risparmiato molte vite e molto tempo.
La
piega che l’evento stava prendendo confermava, dunque, ancora una volta il modo
di pensare di Giacomo e Pietro.
In
realtà, il vero obiettivo dell’afflusso di partigiani a Pianoro non era tanto e
solo la liquidazione del battaglione nazifascista, che si presentava solo come
un semplice intralcio, quanto, piuttosto, qualcosa di molto più delicato e
complesso che da tempo maturava: la messa a punto, cioè, di un’articolata e
vasta azione politico-militare che avrebbe impresso, nel volgere di qualche
settimana, una decisiva svolta alla guerra, anche con riflessi internazionali
di primaria importanza. Il Comando generale del CLN-Alta Italia aveva infatti deciso il trasferimento nelle città
industriali di numerosi gruppi, tra i più ferrati dal punto di vista
politico-organizzativo, per sostenervi, ben mimetizzati tra gli operai,
grandiosi scioperi nelle fabbriche quale preludio di una grande insurrezione
nazionale. E Pianoro, quasi al confine del territorio nazionale, in quel
momento diveniva uno snodo fondamentale della nuova strategia messa in atto dai
comandi generali.
*
* *
A
Pianoro, in quelle ultime ore, regnava un cupo silenzio d’attesa quando le
vedette annunciarono che un mezzo motorizzato s’avvicinava veloce all’abitato.
Una
camionetta tedesca, con un telo bianco legato alla canna della lunga
antenna-radio, sollevando una lunga nuvola di polvere, imboccò la strada
leggermente in salita. Il silenzio fu rotto da incontenibile entusiasmo: ce
l’avevano dunque fatta! Quando entrarono in paese, la notizia dell’azione
riuscita s’era già diffusa e una gran folla si riversò in strada accogliendoli
tra due ali festanti. Giunti poi dinanzi al Municipio che ospitava il Comando,
furono circondati da centinaia di compagni che sparavano in aria, che li
abbracciavano e baciavano, che davano loro pacche sulle spalle. Steiner era
impietrito e bianco come un lenzuolo.
«State
calmi che me lo spaventate», andava ripetendo Giacomo. E Pietro, non vedendo
l’ora di consegnare l’ingombrante ostaggio, urlava: «Fateci incontrare con il
Comando. Fate largo, porca miseria, fate largo!».
D’un
tratto, come se un segnale misterioso fosse sceso dall’alto, fu silenzio:
Pompeo Colasanti, il baffuto prestigioso comandante, seguito da Liberati,
Calcaterra ed altri, avanzò con passo lento tra la folla che s’aprì come
un’anguria.
«Mi
hanno avvertito e son corso fin qui di proposito per voi», disse con voce
tonante. «Entro questa sera esigo ... esigiamo un dettagliato rapporto sui due
compagni caduti nella curva a Piedivalle. Per quanto riguarda poi - diciamo
così - l’impresa di oggi, cominciate a farvi il segno della croce». Poi si girò
per tornare al Comando, ma s’arrestò un attimo, si volse nuovamente ai due e
aggiunse:
«…
E spero che non vi montiate la testa. V’immaginate cosa accadrebbe se ognuno di
noi facesse di testa propria? Ringraziate il cielo», concluse, «che non ci
siano stati altri caduti per causa vostra».
«Proprio
così!», rispose Giacomo, «altrimenti non avremmo osato».
«E
già, proprio così!», gli fece eco Pietro visibilmente imbarazzato, mentre con
le mani si spolverava la mitica casacca.
Pompeo
Colasanti si arrestò, si lisciò i baffi pensieroso e tornò indietro,
accostandosi ai due ancor di più, mentre la piccola folla restò in attesa. Un
largo sorriso si disegnò sul volto di Colasanti che, a braccia aperte tuonò:
«Maledetti incoscienti» e, tra gli applausi, li strinse a sé come due figli
ritrovati. L’inchiesta s’era di fatto così conclusa.
Pietro
fin dall’inizio aveva cercato Rita in lungo e in largo con lo sguardo. Da
quando s’era rinchiusa in se stessa, lui ne aveva sofferto e ora avvertiva il
bisogno di riparare. Non si era però accorto, in quel trambusto, d’averla
sempre avuta, lei così minuta, proprio alle spalle. E così se la ritrovò
improvvisamente dinanzi, col suo ovale e i soliti riccioli sugli occhi.
«Dov’eri
finita?», le chiese ansioso.
«Sono
stata tutto il tempo qui, accanto a te, a sorbirmi il tuo puzzo, soldaten»,
disse ridendo, e aggiunse. «Brucia questa divisa, fatti una bella doccia, un
lungo sonno e domani mi racconterai tutto per filo e per segno».
«Puzzo
di pesce!?», chiese lui autoironico.
«No,
magari!», rispose lei con un’allegra risata, «puzzi solo di canaglia», e in un
impeto di felicità per la vita che aveva ripreso posto nel suo cuore, gli dette
un rapido bacio sulle labbra.
Pietro
rispettò gli “ordini” di Rita come una recluta, ma stentò a prender sonno, non
riusciva a scacciare dalla mente quel bacio. Fino a quel giorno non era mai
stato baciato da una donna; e poi … una professoressa, una persona di cultura!
Che aveva da spartire lei con le sue labbra?
La
mattina seguente, appena sveglio, non poté fare a meno di chiedere consiglio a
Giacomo, l’unico che, forse, avrebbe capito, che sicuramente aveva più
esperienza di lui in quel genere di … imprese. «Cerca di crescere, Pietro»,
l’esortò Giacomo divertito, «è da mesi che ti fa gli occhioni dolci! Dove hai
la testa?».
Pietro,
vista la scarsa immedesimazione dell’amico, lo mandò al diavolo, scagliandogli
bonariamente il berretto in faccia. Poi spalancò il portone del fienile dove
avevano trascorso la notte e, mentre l’altro lo avvertiva che l’avrebbe
raggiunto nel palazzo municipale, piegò a sinistra verso l’abitato. Giunto in
prossimità di piazza Municipio, notò un camioncino posteggiato in una viuzza
laterale. Si arrestò, tornò indietro di qualche passo per guardare meglio. Gli
pareva d’averlo già visto, di conoscerlo. Ma sì: era quello di Italo!
Osservando con più attenzione scoprì che la cabina e il cassonetto erano qua e
là sforacchiati da numerosi colpi, e un brutto presentimento lo assalì: “Dove sarà finito quel ragazzo?”, si
chiese.
Deciso
a rintracciarlo, affrettò il passo, raggiunse il palazzo e domandò alle guardie
se, per caso, avessero visto o conoscessero un certo Italo, di Piedivalle, un
ragazzo non ancora diciottenne, viso pulito, snello come un remo. Una delle
guardie, ch’era della zona, gl’indicò l’officina del fabbro di fronte. «Se non
sbaglio», rispose, «vi ho visto entrare il padre un momento fa».
Pietro
attraversò la piazzetta, entrò nell’officina e chiese se ci fosse il padre di
Italo.
«Sono
io. E tu chi sei?», rispose qualcuno. Era un uomo curvo, rugoso e, probabilmente, dimostrava più dell’età
che in effetti aveva.
«Io
sono Pietro, il Pescatore, e devo a suo figlio la fortuna d’essere ancora vivo.
«Pietro
... il Pescatore», ripeté incredulo l’uomo, lanciando occhiate al fabbro per
sincerarsi d’aver capito bene. «Italo, dunque, ti avrebbe salvato la vita?
allora è vero quel che si dice, proprio a te, al Pescatore?!».
«Sì,
proprio così: se non fosse stato per lui, lassù, a Piedivalle, in quella curva
maledetta...».
«Ti
prego, non continuare», lo interruppe.
«Ma,
perché ... Italo dov’è?», sussurrò Pietro oppresso dal presentimento.
«Ma
come, non lo sai? Proprio quel giorno, ritornando...».
Nessuno
aveva ancora trovato il tempo e il coraggio di raccontare a Pietro e agli altri
cosa fosse realmente accaduto subito dopo la loro fuga a ritroso nell’alta
valle. Aveva la sensazione che fosse passato un secolo dal giorno in cui Italo
era andato loro incontro. Quanti avvenimenti nell’arco di pochi giorni!
Uccisioni, fughe e marce forzate; fame, paure e, infine, Steiner. Tutto s’era
svolto con una tale rapidità che quasi non riusciva più ad orientarsi nel
tempo.
Ascoltò
il racconto del padre, e quanto più vi si addentrava, tanto più cuore e
stomaco gli si nturciuniavanu dentro.
Dopo
il salvataggio Italo, non appena rientrato a casa, aveva udito il rumore di
alcune camionette e di un camion. Si trattava di numerosi repubblichini del
“Corpo Speciale Antiguerriglia”. Era
chiaro che fossero in cerca di vendetta per quanto accaduto poco prima. Si
erano fermati un po’ più su, proprio nel punto in cui era avvenuto lo scontro
e, imprecando contro i “banditi”, avevano esaminato i cadaveri dei loro
camerati, adagiandoli sul camion. Poi, rivolti ai corpi dei due partigiani
caduti, li avevano presi a calci, a sputarvi e a urinarvi addosso. Infine, li avevano
legati tutti assieme per i piedi, come un mazzo di carciofi, avevano fissato
l’altro capo della fune ai ganci delle sponde del camion ed erano ripartiti con
quei poveretti penzolanti a mezz’aria.
Ma
avevano percorso appena qualche decina di metri poiché Italo, col suo mezzo,
aveva sbarrato loro la strada e quelli, convinti si trattasse di un’altra
imboscata, s’erano messi a sparare come forsennati. Italo, fino a quel momento,
l’aveva scampata, essendosi rannicchiato sul fondo della cabina.
Intanto
il giovane cappellano di Piedivalle, Don Libero Liberi, da poco ritornato da un
vicino casolare, sentendo gli spari era accorso: «Per amor di Dio, fermi ...
non sparate...!». Poi, accortosi dello scempio di quei poveri corpi penzolanti,
aveva alzato le braccia al cielo. «Bestie! Siete diventati peggio delle
bestie», aveva urlato. Molti di quei repubblichini, dinanzi all’inattesa
comparsa del prete, s’erano arrestati incerti sul da farsi.
Intanto
Italo, semi stordito, era sceso lentamente dal camioncino e, mani alzate, s’era
avvicinato a colui che sembrava essere il capo. Lo aveva riconosciuto: aveva un
ghigno perfido. Era proprio lui, Ripamonti, la Belva della Valle, quello
privo, fin dalla nascita, dell’orecchio sinistro: al suo posto un’escrescenza
attorcigliata come guscio di lumaca. «E tu non piangi? non t’inginocchi,
femminuccia?», l’aveva apostrofato la Belva
gonfiando il petto e mettendo mani ai fianchi.
Quel
gratuito sbeffeggio, come una frustata, aveva richiamato all’ordine i camerati
“inteneriti” che s’erano così messi ad ancheggiare, arricciando le labbra ed
emettendo sdolcinati sospiri.
Italo,
allora, dinanzi ai corpi martoriati, si era fatto ancor più vicino a Ripamonti
e, scrutandolo negli occhi, come a volervi rintracciare l’origine del male, lo
aveva colpito con un violento schiaffo, proprio lì, a sinistra, su quel
moncherino d’orecchio. Ripamonti, dissimulando con un sorriso l’odio che
l’aveva pervaso, era rimasto impassibile. «Bene, comprendo e rispetto», aveva
infine commentato, «la vostra sensibilità. In effetti non è umano, non è
... cristiano: è giusto dare degna sepoltura a questi poveri disgraziati! Però
tu e il tuo prete dovrete aiutarci. Su, scavate», aveva intimato, estraendo due
pale da sotto il cassone del camion. Con i mitra puntati alla schiena, pregando
Dio e chiedendogli perdono, s’erano così piegati al pietoso lavoro.
All’imbrunire,
quando ormai la terra era stata rimossa e il suono delle campane si era udito
lungo la vallata, la sventagliata su don Libero aveva accompagnato l’ultimo
rintocco.
L’ultimo
colpo, invece, se l’era riservato la Belva,
perpendicolare sull’orecchio sinistro di Italo.
«Noi»,
concluse il padre, «siamo gente semplice … sai … ma Italo non sopportava le
ingiustizie, le sopraffazioni e don Libero era fiero di lui … gli faceva pure
scuola. Ora sono rimasto solo, e mia moglie è fuori di testa».
Di
quel racconto terribile, un particolare aveva profondamente turbato Pietro. Non
erano stati tanto i calci o gli sputi; per lui, quegli atti, per quanto feroci,
rientravano pur sempre nelle selvagge pulsioni umane. Ma l’atto di lordare quei
corpi con l’immonda urina, andava ben oltre la bestialità.
Immobile,
stette a fissare quel povero padre per alcuni istanti, poi gli pose le mani
sulle spalle … tentò di dire qualcosa, ma senza riuscirvi. Prima di uscire,
però, quando già era sull’uscio dell’officina, si volse ancora verso di lui e
gli chiese: «Carlo Ripamonti … vero?».
* * *
Poco
dopo 1’“Operazione Steiner”, l’imponente schieramento di uomini disposto lungo
le sponde del Taro, avrebbe presto sferrato il contrattacco finale.
I
tedeschi apparivano fiaccati sia nel corpo che nel morale e una sensazione di
resa serpeggiava nel campo. Com’era prevedibile, però, immediatamente dopo
l’incursione di Pietro e Giacomo, nell’accampamento erano scoppiati furiosi
contrasti fra i tedeschi e gli oltre trenta repubblichini aggregati. Questi
ultimi, sentendosi traditi, avevano scelto, come unica via di scampo,
d’imboscarsi nel territorio circostante. Tuttavia molti di costoro, in poco
tempo, e solo grazie alle segnalazioni dei contadini, erano stati catturati da
gruppi di partigiani ancora in avvicinamento verso Pianoro. Il commissario
Colasanti, intanto, ancor prima d’intraprendere la via del ritorno al “Centro
del CLN-Alta Italia” di Torino, aveva indetto l’Assemblea Generale, delegando a
presiederla, con un nutrito ed importante ordine del giorno, il vecchio
Liberati.
Quando
Pietro fece ingresso nel salone, la riunione dei rappresentanti delle varie
formazioni era già iniziata da qualche minuto e Liberati gli fece cenno di
affrettarsi a prender posto. Pietro incrociò lo sguardo di Rita e di Giacomo
che, ben conoscendolo, compresero subito che qualcosa era andata storta.
Liberati
proseguì nella sua breve introduzione, evidenziando gli aspetti più disparati
della situazione delle valli circostanti, addentrandosi via via nello stato
generale della regione.
La
guerra di Liberazione sembrava volgere ormai al suo epilogo, l’occupante
nazista tradiva vistosi segni di cedimento e la Repubblica di Salò, che nei
mesi precedenti aveva dimostrato un’insperata tenuta, cominciava ora a
disgregarsi sotto i colpi inesorabili della Resistenza armata. Lo stesso Duce,
infine (s’era saputo da fonti attendibili), era in diverse occasioni apparso in
pubblico sfiduciato e fiaccato nel corpo e nell’anima.
«…
Occorre, quindi, dare la spallata finale, sostenere con ogni mezzo il
proletariato urbano impegnato, ora come non mai, in scioperi e sabotaggi fino
ad ieri impensabili, ma che ora», concluse Liberati, «devono dispiegarsi in
tutta la loro ampiezza sino a sfociare nell’insurrezione di tutto il popolo. La
libertà e il destino d’Italia è al suo compimento!».
Subito
dopo, intervenne Calcaterra per spiegare minuziosamente le varie fasi del
piano. Alcune avanguardie avrebbero dovuto trasferirsi, in assoluta copertura,
nelle città di Torino, Biella, Ivrea e Alba per potenziare ed estendere nuclei
logistico-operativi armati. Infine lesse l’elenco dei partigiani prescelti con
la relativa destinazione: «Giacomo Vergara e il suo gruppo», citò per ultimo,
«responsabile politico della Formazione Stella,
è assegnato a Torino, e insisterà sulla FIAT Lingotto. Tuttavia», concluse,
«Vergara partirà solo quando si sarà deciso qui, in loco, cosa farne
dell’ostaggio tedesco. Ma di questo», concluse, «vi informerà dopo e meglio il
comandante Liberati».
Prima
che la riunione si sciogliesse, grappoli di mani si levarono qua e là per
chiedere chiarimenti sul progetto insurrezionale e così la riunione andò per le
lunghe a causa di contrasti sorti su alcuni aspetti. Pietro, ad un certo punto,
riuscì ad avvicinarsi a Giacomo e Rita e in breve li informò su ciò che poco
prima gli aveva raccontato il padre di Italo. Furono momenti di profondo sdegno
misto a commozione. «Non deve passarla liscia quel cane rognoso», sussurrò Rita
colma d’ira.
Frattanto,
quando la riunione stava per volgere al termine e molti s’erano già predisposti
ad abbandonare la sala, dal fondo Liberati avvertì: «Un momento, un momento
ancora, non abbiamo terminato».
Tutti
si volsero verso di lui e ritornò il silenzio. «Vi prego, ancora un istante»,
aggiunse a sua volta Calcaterra, «dobbiamo comunicarvi un’ultima cosa».
Liberati, imbarazzato, dette due colpetti di tosse nervosa, ravviò indietro,
con un gesto automatico del capo, i folti capelli bianchi e disse: «Come
certamente saprete, dopo la cattura di Steiner, i repubblichini al suo seguito
si sono dati alla macchia. Per fortuna, però, ieri notte, come già saprete,
grazie al risoluto intervento del gruppo Giustizia e Libertà della Valsesia,
avvertito dalla popolazione del luogo, ne sono stati acciuffati parecchi».
Liberati s’interruppe, tossì ancora, poi riprese più teso: «Tra costoro risulta
esservi, senza ombra di dubbio, pure... Carlo Ripamonti, la Belva. È stato catturato all’interno di
una stalla mentre - immaginate!- tentava di confondersi tra il letame. Nello
specifico caso di questo criminale, abbiamo subito imposto, fino ad un momento
fa, la consegna del più assoluto silenzio per evitare reazioni vendicative tra
la popolazione o tra quanti di voi hanno giurato di fargliela pagare. Comunque,
se ciò può rasserenarvi, vi confermiamo che è al sicuro e ben protetto».
La
sala ammutolì per qualche attimo. Poi, poco per volta, come dopo un
bombardamento, montò il brusio. Pietro avvertì come un rivùgghiu nel petto. Poi
tornò la voce vibrante di Liberati che diceva: «Questione di ore e gli si farà
il processo».
Il
Pescatore riemerse dai flutti con la stessa rapidità con la quale, un attimo
prima, era sprofondato. Fu allora che qualcosa di incontenibile, un conato, gli
partì dal fondo dello stomaco. Montò ritto sulla sedia traboccante di rancore:
«È al sicuro. L’avete sentito, no? Al sicuro e ben protetto!». Poi, come se
l’ira gli si stesse sciogliendo, abbassò le braccia e chiese sommessamente:
«Dov’è …? portatemelo qui, adesso, che lo scanno con queste stesse mie mani!».
«Ha
ragione il Pescatore. Troppo comodo
dopo quello che ha combinato in lungo e in largo...», tuonò uno armato fino ai
denti dal fondo della sala. «Devi consegnarcelo subito che lo facciamo secco in
piazza con tutti i suoi complici», fece eco un altro rivolto al vecchio capo.
Liberati,
a quel punto, temendo che la situazione gli sfuggisse di mano, diede subito
fondo a tutte le sue facoltà persuasive. «Adesso calmati, Alati; calmatevi
tutti. Ragioniamo», cominciò con voce ferma e pacata, «non è più il momento
delle esecuzioni sommarie. I tempi sono ormai maturi per avviare fin d’ora
l’applicazione della legalità democratica che è l’unica in grado d’imporre azioni
veramente forti ed esemplari che siano d’esempio a tutti. La forza della
legalità, dunque, anche nei confronti di questo criminale incallito … Che si
istruisca subito un vero e proprio pubblico processo; che tutti sentano, che
tutti vedano», concluse con piglio deciso, «che tutti sappiano dei suoi orrendi
crimini e che paghi per questo ... Solo così potremo riaffermare il primato
della legalità, dell’autorità democratica, della giustizia in nome del Libero
Governo Democratico Provvisorio d’Italia».
Pietro,
con la testa reclinata in avanti e le braccia conserte, restò seduto in
silenzio.
«Ma
cosa c’entro io con la partenza rinviata per Torino?», chiese a quel punto
Giacomo rivolto a Liberati. Era proprio quella la domanda che il comandante
aspettava per far sbollire la tensione. «C’entri, e come!», rispose sollevato,
«tu, in questo momento, sei la persona più adatta per istruire il processo in
tutti i possibili particolari, per verificare ogni elemento; per
tracciare il profilo di questo degenerato; per interrogarlo … e … e … tra una
settimana al massimo, condurlo in piazza per il pubblico processo».
Giacomo,
dopo un attimo di esitazione, dichiarò che avrebbe accettato l’incarico, ma a
condizione che a Pietro Alati e al suo gruppo fosse assegnato il compito, sotto
la sua diretta responsabilità, della sorveglianza del prigioniero fino al
pronunciamento della sentenza.
Liberati
scrutò Pietro e, malgrado in cuor suo poco convinto, rispose: «Non avrei …
nulla in contrario».
Dopo
le asprezze del giorno precedente, tutto sembrava ora proseguire entro la
normalità di una guerra che si avviava verso l’epilogo. Giacomo, seguito da
Pietro, Rita ed altri, scese nel seminterrato del Municipio, trasformato in
cella d’isolamento, per interrogare il prigioniero. Era stato chiaro,
soprattutto con Pietro, nel pretendere il massimo autocontrollo, pena
l’immediata revoca dell’incarico. Gli uomini di guardia sfilarono dagli anelli
la pesante catena ed entrarono in un ambiente fresco dove soltanto un po’ di
luce filtrava da una finestra stretta e lunga, situata in alto, a livello di
strada. Sul pavimento, sotto la finestrella, vi era un tavolaccio con un po’ di
paglia e a fianco, su un ripiano, una brocca di metallo con l’acqua; in un
angolo, poco discosto, un secchio per le necessità fisiologiche.
«Troppo
comodo!», commentò a mezza voce Rita.
Ripamonti
stava ancora fuori dalla loro vista, protetto dalla penombra. Giacomo girò la
farfalla dell’interruttore e il piatto smaltato di luce rischiarò tutt’intorno.
Apparve schiacciato contro le pareti dell’angolo più buio, diafano, rigido, i
capelli lunghi, l’orecchio deforme. La Belva
fece un passo avanti.
«Fermo»,
gli ordinò secco Giacomo, «devo ordinarti io quando e come muoverti», ed avanzò
lui di qualche passo, mentre Pietro e Rita lo seguirono all’unisino. «Siamo
stati incaricati», lo informò Giacomo con voce ferma e chiara, «dal Libero
Governo Democratico del CLN Alta Italia, di istruire un pubblico processo a tuo
carico per gli orribili crimini da te commessi ai danni della popolazione
civile e dei combattenti per la libertà. Siamo qui per interrogarti …».
«Stai
tranquillo, carogna», si intromise Pietro, «faremo presto …!».
Giacomo
lo guardò con aria di rimprovero.
Lo
sguardo di Ripamonti, lì, vinto, ripiegato su se stesso, capelli arruffati,
uniforme un tempo impeccabile, ora sporca di letame e strappata qua e là,
evocavano il disfacimento dell’impero di cartapesta. Ma la Belva ebbe un guizzo di scherno: «Siete stati incaricati … da
chi...? Non ho capito bene … cosa sarebbe questo ... “governo democratico” con tutti quegli … appellativi...?». Giacomo
sapeva bene come controllarsi, ma non era altrettanto certo di Pietro. Con la
coda dell’occhio, avendo intravisto il suo sguardo indignato, aveva anticipato
la sua reazione: «Guai a te!», gli aveva sussurrato, afferrandolo per un
braccio.
«Mi
avete scassato!» reagì il Pescatore. Poi d’improvviso parve placarsi: «Va be’,
non mi muovo … non lo tocco neppure, ma un solo piacere ti chiedo: fammici
pisciare di sopra».
«Guardie,
aprite la porta», ordinò Giacomo a quel punto.
Pietro
lasciò in fretta il seminterrato, ma si capiva che non sarebbe finita lì.,
mentre Rita lanciò uno sguardo a Giacomo come a voler dire “cerca di capirlo!”.
E
infatti non finì lì. Non appena fuori, Pietro si accostò alla finestrella
bassa, posta a livello di strada, proprio quella che dava sulla stanza della
Belva, s’inginocchiò e gridò forte:
«Ripamonti
…!».
La
Belva, là in basso, alzò d’istinto lo sguardo, e un tiepido getto gli inondò la
faccia.
Giacomo
raggiunse come una furia Liberati intento nella sua stanza ad esaminare dei
documenti e lo informò di quanto accaduto. Quello scosse la testa, si tolse gli
occhiali e rispose che era ampiamente prevedibile. Quindi concluse secco: «È
emotivamente inadeguato per queste cose. Rimpiazzalo al più presto …!».
Quando
Pietro lo seppe, sereno come un angelo disse che non gliene fotteva un bel
niente, tanto che quello che doveva fare lo aveva fatto, e che per lui potevano
pure liberarlo quel verme assassino: «Ora può pure capitare che la guerra duri
altri cent’anni, che nascano altri venti Mussolini e venti Hitler. Non me ne
fotte proprio niente, anzi: sono così soddisfatto che lo rifarei non so quante
altre volte!».
Gli
sguardi di Giacomo e di Rita si incrociarono per un istante ed entrambi
accennarono ad un risolino nervoso. Il Pescatore a quel punto si allontanò
senza aprir bocca, ma sentì che la mente
e il cuore gli si erano finalmente liberati, e dette un profondo sospiro di sollievo.
Nel
primo pomeriggio, come stabilito, Giacomo tornò giù dal prigioniero, ma questa
volta soltanto con Rita.
«Siediti»,
gli ordinò Giacomo.
Ripamonti
ubbidì senza fiatare. I capelli arruffati e gli occhi arrossati tradivano il
segno di un pianto recente. «Avresti una sigaretta?», chiese, facendo il gesto
con l’indice e il medio protesi, tipico di chi è abituato a pretendere tutto.
«Ascolta»,
puntualizzò Giacomo con fare calmo e formale, «la sigaretta te la do, ma sia
chiaro: devi chiedere per favore e
darmi del lei … Qui non sei tra i tuoi compari!».
«Va
bene, ho capito», rispose l’altro rassegnato a un confronto più duro del
previsto, «ma non credo ci sia granché da discutere».
«Questo
lo stabilisco io», tagliò corto Giacomo, e andò diritto là dove, né Rita, né lo
stesso Ripamonti, avrebbero mai potuto supporre. «All’Università di Torino»,
proseguì senza altri preamboli, «quand’ero studente, ho conosciuto … tuo padre
…!».
La
Belva ebbe un sussulto. «Cosa c’entra adesso mio padre?», rispose rancoroso, «e
poi perché la fa cosi lunga?!».
«C’entra,
invece. C’entra, e come!», fece Giacomo ancor più determinato nell’affondo. «Ti
racconterò tutto quel che so o di cui, molti anni fa, sono stato diretto
testimone, tanto da indurmi a scegliere da che parte stare». Si alzò, si ravviò
i capelli con le mani, mentre l’altro lo fissò con sguardo interrogativo,
chiedendosi forse cosa mai stesse architettando quel buffone che gli stava di fronte.
La
tortuosa vita del repubblichino Carlo Ripamonti, così come s’era costruita fin
dalla infanzia, rappresentava, sotto molti aspetti, l’immagine speculare della
vita di Giacomo e della sua stessa famiglia. Il percorso del primo, però, era
andato per sentieri contorti, indecifrabili per chi non avesse avuto la
posibilità di conoscerne e comprenderne il contesto entro cui s’era venuta
costruendo. Il tratto epocale, che accomunava quella generazione di giovani
abbeveratasi a un mondo fasullo e, più tardi, scaraventata in scelte
dilanianti, gli aveva impresso forme mostruose, insediato nella sua giovane
mente tarli incurabili. Il risultato era stato la Belva, un’impietosa macchina dispensatrice di morte e rovina.
Ancora
adolescente, strappato dalla madre austriaca, ammiratrice di Hitler,
all’educazione umanistica del padre, aveva subìto l’insulto più umiliante per
uno come lui, nutrito dalla madre di virili ideali. Infatti era stato escluso,
a causa di quell’evidente difetto all’orecchio, dalle schiere di coloro che il
regime eleggeva a modello di sana, perfetta e ardita razza guerriera.
Questa sua anomalia era stata vissuta, nell’intimo dell’infanzia e
dell’adolescenza, come un marchio infamante e, pertanto, soltanto da volontario
gli era riuscito di arruolarsi nel Battaglione Universitario d’Assalto delle
Camicie Nere, organizzazione che, in seguito, si sarebbe particolarmente
distinta nella feroce repressione della resistenza armata.
Il
professore Augusto Ripamonti, padre di Carlo, titolare della Cattedra di
Archeologia dell’Università di Torino, umanista di profonda coerenza morale,
era stato tra i pochissimi docenti italiani a rifiutarsi di giurare fedeltà al
regime, ben consapevole dei rischi personali e familiari cui sarebbe andato
incontro. E difatti, di lì a qualche tempo, era stato al centro di un clamoroso
episodio durante una affollata lezione di studenti e … squadristi.
«Io
ero li quel giorno», precisò Giacomo, «ero in quell’aula a seguire
l’impareggiabile lezione del professore Augusto Ripamonti, cioè di tuo … padre.
Tu non sai cosa avvenne, eri ancora un bambino. Non conosci, forse, il reale
motivo che lo allontanò da te, dalla famiglia, dall’Italia».
«Non
so di cosa parli, né voglio saperlo; ho chiuso con quel mondo, con tutto e
tutti. Con quale diritto tu, ora, ti intrometti nella mia vita privata?», disse
scattando, «chi cazzo sei tu? Emetti la sentenza e taglia corto».
«Troppo
comodo!», ribatté Giacomo, scandendo a voce bassa le parole. «Forse pure gli
orrendi crimini contro uomini inermi fanno parte del tuo privato? Che ne dici,
ad esempio, della fine di Italo Cervi e del prete di Piedivalle? E delle altre
odiose violenze su donne, vecchi e bambini? e delle altre nefandezze? Il tuo
privato … Sei solo un criminale!».
Là
fuori, per quelle tortuose viuzze lastricate, tra quelle casette fra loro
abbracciate come in un lamento collettivo, sarebbero stati in tanti disposti a
scannarlo sulla pubblica piazza.
Giacomo
gli si avvicinò e, con le punte delle dita, lo sospinse a sedersi. «Ora
ascolterai fino all’ultima sillaba ciò che ho da raccontarti», scandì
puntandogli l’indice contro.
«Il turbinio della così detta rivoluzione dei mazzieri era
agli inizi, -esordì Giacomo-. Quel mattino, lo spocchioso esponente di
una organizzazione giovanile fascista interruppe con queste parole tuo padre:
“Ripamonti, prima che prosegua nella sua chiarissima lezione, le saremmo tutti
grati se udissimo dalla sua … viva voce le sue altrettanto chiare posizioni
sulla rivoluzione in atto e sulla figura del duce”. Ce l’ho ancora vivo negli
occhi il professore, andare avanti e indietro a passi lenti, in un silenzio irreale;
fermarsi un istante a riflettere, come soleva fare, col capo leggermente
reclinato in avanti, la mano destra chiusa sotto il mento e la sinistra dietro
la schiena. “Caro ragazzo -rispose con voce limpida- ho scavato un’intera vita e continuo a farlo; ho riportato alla luce
stupefacenti tracce della storia umana; ho studiato mirabili, grandiose
architetture quali … pensi, le piramidi, che da millenni ci inseguono con la
loro misteriosa grandiosità ed ho decifrato documenti di straordinario valore
spirituale ed umano … Ora, lei mi chiede cosa io ne pensi di questo … duce. Non
so esattamente a chi si riferisca, ma immagino che per lei sia un monumento di
virtù. Tuttavia so pure con assoluta certezza che della sua grandezza o miseria
si vedrà a seconda che consegni alla Storia piramidi o … macerie! Ne dubito,
tuttavia!
A questo punto un altro esagitato,
urlando, chiese al professore di cosa esattamente dubitasse.
“Di che dubito? Ma, ovviamente, caro
figliolo -precisò compassato- dubito fortemente che possa edificare piramidi”». Una bolgia
indescrivibile di insulti e minacce risuonò nell’aula.
«Fuori dall’università, pallone
gonfiato … fuori … fuori disfattista … fuori. Altri squadristi, poi, lo
circondarono e lo agguantarono, ma tuo padre, uomo imponente qual era, con un
paio di ceffoni ben assestati, ne atterrò alcuni. Gli studenti - e tra questi
alcuni antifascisti militanti - che fino a quel momento erano rimasti
paralizzati dalla scena, riavutisi accorsero in suo soccorso. Ne nacque un
furibondo tafferuglio. Tra i soccorritori - coincidenza della vita! - c'ero
anch'io, allora giovane studente da poco entrato in contatto con un gruppo
clandestino. Ma, in breve, fummo sopraffatti. Gli legarono i polsi e al collo
gli appesero un infamante cartello:
INCHINATEVI A UN RARO ESEMPIO DI MUMMIA EGIZIA VIVENTE
(ANCORA PER POCO).
Poi, tra sghignazzi e spintoni, lo
condussero per corridoi e aule, fra lo stupore di colleghi e studenti. Una
strana espressione ironica gli si era disegnata in volto, una specie di
sorriso indecifrabile, come volesse comunicare un messaggio speciale. Tuo
padre, pur così volgarmente deriso, con quella espressione che gli brillava in
volto, non era stato minimamente scalfito nella sua dignità e fierezza,
tramutando quella ignobile violenza in una rilucente vampata di valori civili e
morali. In tutti questi anni, poi, mi
sono spesso chiesto cosa volesse realmente significare quell’espressione, e penso di aver trovato una risposta…».
Giacomo
tacque per alcuni istanti, ma Rita, che aveva seguito il racconto con intensa
emozione, lo sollecitò a proseguire. «… Forse sarà paradossale quel che penso
da tanti anni, ma credo volesse dire a tutti, che proprio quegli
sciagurati come te», concluse fissando più intensamente la Belva, «ancor più dei
giovani antifascisti presenti, un giorno gliene sarebbero stati grati».
Giacomo
sedette, dando fuoco a un’altra sigaretta. La Belva si pose in piedi, levò pian
piano le mani a mezz'aria e ne mimò il gesto del battito, accompagnandolo con
parole di scherno: «Bene … bravo … toccante!». Ma non riuscì a celare il
tremore che s’era impadronito delle mani e della voce.
Rita
comprese che Giacomo aveva colpito nel segno. «Un pubblico processo? Ma va'», rifletté, «sarebbe una penosa farsa! In fondo Pietro ha ragione».
Giacomo
l’osservò di traverso, diede un’ultima boccata alla sigaretta, la gettò per
terra e la schiacciò col tacco. «Vedi? Tu vali meno di questa cicca!». Quindi
si rialzò e ordinò ai compagni di aprire.
Il
buio della sera era già sceso quando la porta iniziò a rinchiudersi alle loro
spalle. Giacomo esitò un attimo, la bloccò con la mano e, prima di scomparire
per sempre, gli parlò per l’ultima volta. «Se ci tieni ti mando un prete, ma
dubito che ce ne sia un disposto a sentirti». Girò la farfalla dell'interruttore
posta all'esterno della stanza, raccomandò alle guardie la più scrupolosa
sorveglianza e scomparve su per le scale seguito da Rita.
Pietro
quella stessa sera, dopo aver mangiato un uovo sodo e qualche castagna lessa,
si stese supino su un ampio sedile in pietra posto di fianco al fienile. Notò
con piacere che il cielo, dopo la foschia del pomeriggio, era tornato limpido e
le stelle risplendevano come non mai. "Com'è
immenso …!", rifletté, fissando a caso un grappolo di stelle verso
sud. E si mise a fantasticare su come, in quel preciso istante, qualcuno della
sua famiglia avrebbe potuto scorgerle tali e quali anche da Torrechiara.
Ad
un tratto udì un leggero scalpiccio alle spalle e, di riflesso, si pose
allerta, ma subito si rassicurò. Era Rita che, di ritorno dall’osteria, dove si
era intrattenuta con gli altri, gli disse di averlo cercato. «Sentivo il
bisogno di stare a conversare un po’ con te, lontana dalla confusione».
«Be’,
come vedi m’hai trovato e ne sono felice».
«Ti
sei calmato, Pietro?».
«Direi,
piuttosto, che mi sono liberato, anche se non avrei dovuto farlo … quello che
ho fatto stamattina, con te là presente», cercò di scusarsi, «ma vedi, la
carogna si era trovata esattamente sulla mia traiettoria e così...! E poi ho
agito d’impulso: ero fuori di me».
«Vedi,
Pietro, in ogni caso non avresti dovuto farlo, io presente o meno», precisò
Rita, «noi siamo realmente diversi da loro, ma non basta dirlo, dobbiamo
concretamente dimostrarlo in ogni attimo della nostra vita ... Ma basta così»,
troncò, «non è più il caso di parlarne», e, come a volerlo consolare, gli
carezzò teneramente il viso. Lui, però, osò trattenerle la mano, non sapendo
che il sangue dentro gli si potesse avvampare così. Rita, lì per lì, non sembrò
avvertire quel tumulto, fin quando lui non la baciò.
*
* *
Liceo (….). Palermo, 1999
M’interruppi
per qualche istante. Avevo avuto la sensazione che la narrazione mancasse di un
qualcosa, non riuscendo a legare fra
loro i rivoli dei ricordi.
Fu
Peppino a togliermi dall’incertezza: «Professore», domandò, «ma mentre il
Pescatore era lì a lottare tra le montagne piemontesi -glielo chiedo anche per
ricollegarmi all'interrogativo di Ruggero di sabato scorso-, cosa succedeva in
Sicilia? o, più precisamente, a Torrechiara, per non andar troppo lontano?!».
«E
già», risposi, accavallando le gambe, «hai fatto molto bene “voltare” per
Torrechiara».
Nello
stesso mese, ma dell'anno precedente ai fatti prima narrati -ripresi-, a
Torrechiara, al consueto caldo di luglio, un altro genere di alta pressione
s’era aggiunto, il che aveva reso l’aria ancor più insopportabile. Il fatto è
che tutta la popolazione era stata in agitazione per più giorni nell'attesa che
gli Americani, sbarcati un mese prima a Pizzolungo, entrassero in paese. Lo sbarco
delle truppe era stato preceduto da ondate di bombardamenti che avevano
martoriato le principali città e, una volta avviata la penetrazione di terra,
era apparsa evidente l’inconsistenza di qualsiasi serio contrasto nemico.
Infatti tedeschi e fascisti erano tatticamente impegnati ad arretrare verso il
Nord per preparare -si vociferava- la controffensiva finale. Inoltre l’entrata
degli Alleati a Torrechiara, così come avvenuto negli altri centri dell'Isola,
era stata preannunciata dal lancio aereo di variopinti volantini.
A
quel punto mi alzai: m'ero ricordato d'averne con me un raro esemplare.
Avvicinatomi alla cattedra, aprii la borsa e annunciai emozionato: «Ne ho uno
con me... eccolo, è ancora immacolato, salvato
da mio padre, guardate».
Mi
circondarono in una ressa indescrivibile. Si trattava di un foglietto verdino
ben protetto da una busta di plastica trasparente che gli studenti, ansiosi di
leggere, cominciarono a strapparsi di mano, tanto che temetti il peggio:
«Scommettiamo», gridai, ma in cuor mio ero raggiante, «che, dopo avere
resistito per oltre mezzo secolo, voi ora me lo distruggete in un secondo?».
“AMICI SICILIANI! VENIAMO
IN PACE A LIBERARVI DALLA DITTATURA. MOLTI DI NOI SONO FIGLI DI SICILIANI
EMIGRATI TANTI ANNI FA E TORNANO TRA VOI COME FRATELLI PER AIUTARVI A
RINASCERE. PRESTO SAREMO ANCHE NEL VOSTRO PAESE. LUGLIO 1943.
COMANDO GENERALE DELLE FORZE ARMATE ALLEATE.
In
paese, dunque -ripresi- l'ondeggiante discesa delle variopinte “farfalle”, in
un’atmosfera di arcana magia, era stata osservata con indifferenza solo
apparente. Nessun adulto, infatti, s’avìa calatu a raccoglierle, ma
l’ostentazione di quella furbesca indifferenza, non aveva impedito ai loro
bambini di rastrellarli, sciamando euforici per le strade. Soltanto poco dopo,
nel chiuso delle loro case e ben al riparo da sguardi indiscreti, i grandi
avevano potuto soddisfare la curiosità repressa.
Si
era lontani, dunque, dalle furenti passioni che agitavano i cuori ribelli
del Centro-Nord, dove serpeggiava una miscela d'insidie, sospetti, vendette, ma
dove pure vi era la consapevolezza di dover rifare l'Italia con le proprie
mani; vi era la corale rivolta di un popolo che, pur dilaniato e provato,
offeso dalla feroce occupazione, contrapposto e umiliato, tuttavia prendeva finalmente
in pugno il proprio destino, costruendo dal basso i presupposti della
democrazia e della libertà per tanto tempo negate.
A
Torrechiara, invece - cari miei -, a scuotere la popolazione era bastata la
modesta attesa dei fratelli d'Oltre Oceano: una fatalistica condizione vissuta
con guardinga, curiosa novità, così come - lasciatemelo dire, ragazzi - sarebbe
forse accaduto in presenza di qualsiasi altro liberatore. Non era forse stato
questo il segno distintivo nei secoli? Cambiava soltanto che ora era arrivato
il tempo degli Americani. Ma, a ben guardare, non era poi tutto così scontato.
C'era, infatti, un tratto inconfutabile che riequilibrava -se così si può dire-
le parti: di Siciliani, fuori dalla Sicilia, ve ne erano a migliaia impegnati
tra le formazioni partigiane del Centro-Nord.
Perfetto
interprete di quell'attesa, ben collocato in prima linea, era il parroco Don
Roberto Lino, da qualche tempo soprannominato dai ragazzi dell'Azione Cattolica
Padre Sventola.
Giunto
a Torrechiara subito dopo la partenza di Pietro per la guerra, in breve tempo
era riuscito a guadagnarsi stima e simpatia soprattutto fra quell'esigua fascia
di giovani rimasta in paese. Apparteneva a famiglia facoltosa e proveniva dalla
provincia di Trapani, da Erice per l'esattezza. Il padre era stato primario
dell'ospedale psichiatrico di quella cittadina dove aveva profuso un intenso
impegno innovativo e, per ciò stesso, fortemente avversato dalle baronie
mediche e dalle gerarchie del fascio e certamente, anche grazie al clima respirato
in famiglia, Don Roberto non poteva certo annoverarsi tra i più convinti
sostenitori del regime. Gradevole nei modi e nell'aspetto, arguto e dinamico,
con la tonaca sempre svolazzante e impolverata, si dimostrava permeabile ad
ogni novità che, in qualche modo, potesse sempre tornare utile al bene di tutta
la popolazione. II vescovo, quando l'aveva convocato per comunicargli la nuova
destinazione, ben conoscendo la sua indole e la matrice culturale e familiare,
aveva molto insistito con lui sulla necessità di tener sempre chiaramente
distinta l'azione pastorale dalla politica, volendo con ciò intendere che
qualsiasi critica contro il regime sarebbe stata quanto meno inopportuna. Ma
lui aveva sempre saputo barcamenarsi senza dover mai rinunciare alle proprie
idee.
E
così, nella trepidante attesa dei liberatori, s’era fatto carico proprio lui
del ruolo di padrone di casa. Infatti, per più d'una settimana, un paio di
volte al giorno, primo mattino e primo pomeriggio, seguito da un drappello di
ragazzotti e munito di un binocolo e di due bandiere, il tricolore e un drappo
bianco, raggiungeva la “nazionale”, sostando sulla sommità della così detta
“Acchianata râ Maruonna” in modo da poter meglio scorgere l'arrivo dei
liberatori e accoglierli nei modi dovuti. A due di quei ragazzi al seguito,
inoltre, aveva stabilmente assegnato il compito di tenere ben ripiegati sotto
il braccio, l'uno il drappo bianco, l'altro il tricolore. In mezzo a loro,
infine, s'installava puntualmente lui.
«Mi
raccomando», scandiva ogni volta, «quando li vedete in lontananza, sventolatele
ben bene!». I ragazzi, che dopo giorni e giorni di questi andirivieni l'avevano
preso a scherzo, prima ancora che iniziasse con quella raccomandazione, lo
anticipavano in coro: "… sventolatele
ben bene...!". Da qui, dunque, il soprannome di Padre Sventola. Egli, tuttavia, non mostrava di dar peso a quel
gioco innocente, più segno d’affetto che d’altro, consapevole d'essere proprio
lui, almeno in quel periodo, l’unico punto saldo di riferimento. Certo, c'era
pure quel Nino Sacco, ma quella era un’altra storia!
La
chiesa di don Roberto era così divenuta l'unico vero centro di ricovero in grado di confortare chiunque
bussasse alla sua porta. La maggior cura, tuttavia, la dedicava ai pescatori, i
quali, più di altri, erano privi d'ogni genere di nutrimento che non fosse quel
po' di pesce -quando si pescava- e che
pochi, pochissimi burgisi scambiavano con i prodotti della terra. Financo i
braccianti, a confronto di quei diseredati, sembravano dei signori: almeno
quelli calzavano ancora gli scarponi, anche se accomodati, e capitavano, con un
po' di fortuna, un tozzo di pane nero e qualche oliva in cambio delle loro
braccia.
L’idea,
poi, di esporre il drappo bianco, aveva poco per volta contagiato tutti e così,
nel giro di qualche giorno, i terrazzini e i balconi del corso principale si
erano riempiti d'un permanente, candido sventolio.
Soltanto
il solito Nino Sacco (ricordate, ragazzi? l'anziano parente di Pietro, il solo
antifascista dichiarato del paese) non si era fatto contagiare. Sacco se ne era
pure lamentato e un giorno, incrociandolo, gli aveva detto: «Perché, Padre
Lino, quelle pezze bianche? Sono il simbolo della resa …!».
«Ma
come sarebbe a dire, Sacco», gli aveva risposto don Roberto, «non gliene cala
dritta nessuna, si tratta della fine del Fascismo a causa del quale lei ha
sempre sofferto».
«Già,
ma i fascisti dove sono?», aveva ribattuto Sacco, guardando in giro con fare
istrionesco. «Io vedo solo un popolo che ha subito per vent’anni e che ora sventola
la … pezza bianca!».
«Faccia
come vuole, rispetto la sua sensibilità cromatica», aveva risposto ironico don
Roberto.
«Che
cosa è cambiato?», l’aveva interrotto Sacco, «il popolo era stato ingannato,
gonfiato d’aria fritta … con la bandiera bianca». Infine, prima di lasciarlo,
aveva sibilato:
«Soltanto
la bandiera della Trinacria, mi raccomando, don Roberto».
«Sacco,
non se ne accorge? Pure lei fa aria fritta!».
Padre
Lino, pur vivendo da poco tempo a Torrechiara, conosceva a menadito le vicende personali
di ciascuno dei suoi parrocchiani più in vista. Su Sacco, però, se ne
raccontavano di storie, tanto che, alla fine, si correva il rischio di credere
a tutto e al resto di niente. Che, ad esempio, per quasi tutto il periodo degli
Anni Venti fosse vissuto da operaio a Milano, non ci pioveva. Quelli erano
stati anni in cui il regime aveva cominciato a muovere i primi passi, con le
note violenze e gli assalti alle Case del Popolo. Nei Centri industriali come
Milano, dove Sacco si era certamente distinto per pesantezza di mani, se ne
erano visti di scontri cruenti con gli squadristi. Ma ad un certo punto le voci
sul suo conto si tingevano talmente di macabro da apparire inverosimili. Si
diceva, a questo proposito, che, per vendicarsi di un torto subito, avesse
assassinato nel sonno un caporione fascista milanese e sua moglie dopo essere
penetrato nottetempo nella loro abitazione. Ma non è tutto: avrebbe loro
mozzato la testa e, immediatamente dopo, avrebbe in fretta e furia cambiato
aria.
Non
si capisce bene come queste notizie fossero giunte a Torrechiara, ma sta di
fatto che qualcosa di ambiguo si annidava nei suoi trascorsi “politici”. Lui,
invece, aveva a suo tempo giustificato l'improvviso ritorno a Torrechiara col
fatto che in quella città le fabbriche erano divenuti luoghi invivibili, dove
si conduceva una vita veramente grama, soprattutto con l'inizio dei turbinii e
che, quindi, tanto valeva starsene a patire in casa propria.
Dunque,
Padre Lino non era ancora riuscito a decifrare quanto di genuino vi fosse in
quella sua ostentata avversione al regime. Il giovane prete molte volte s'era
arrovellato con quei pensieri poiché avvertiva d'avere a che fare con una
personalità davvero complessa e, se pur scettico sulle chiacchiere circolanti,
non poteva del tutto escludere il vox
populi, vox Dei.
Ma
ad appesantire il suo profilo, ci si era pure messo un fatto fresco fresco,
risalente ai primi di luglio di quel ’43. Da quando il regime aveva cominciato
a scricchiolare e si erano fatte sempre più insistenti le voci d'un imminente
sbarco alleato, diversi voltagabbana di Torrechiara si erano messi a ronzargli
intorno, speranzosi di ricavarne qualche vantaggio. Un giorno, per l'appunto,
dinanzi al circolo dei contadini, in un tardo pomeriggio afoso, il cavaliere De
Stefani, un notabile, uno dei pochi che in paese circolasse in “topolino”, un
caporione che nel periodo felice ne aveva fatte di cotte e di crude, gli si era
avvicinato con fare mieloso e, conversando del più e del meno, era finito sulla
necessità di “guardare al futuro”, fondando, cioè, la sede di un certo partito.
«Ma
guarda un po'», aveva detto Sacco fingendosi sorpreso, «mi ha letto dentro …
nella testa, cavaliere; ma come ha fatto? Prima che lei arrivava, ci stavo
pensando e, visto che me ne parla, ora che lo guardo bene, penso che vossia
sarebbe proprio la persona adatta per dirigere questo nuovo partito, quando
sarà...».
La
popolazione sapeva istintivamente cogliere certe sfumature, ma questa soffusa
consapevolezza popolare non sarebbe stata in grado di impedire
la piega degli eventi futuri.
Il
23 luglio, in modo inaspettato, gli Americani erano finalmente entrati. Ma non
di primo mattino, né di pomeriggio e quindi, dopo i numerosi “lupo al lupo”,
non erano stati accolti sulla sommità dell’ “Acchianata” da Don Roberto Lino ed
i ragazzi sventolanti pezza bianca e tricolore.
L'antico
quadrante del campanile, infatti, segnava le 14 in punto quando la jeep, che
guidava la lunga colonna, aveva imboccato il corso principale a quell'ora quasi
deserto per la calura estiva.
I
raggi del sole a picco, rimbalzavano ignari su tutto quel bianco sventolio che
giungeva fino al mare. La jeep aveva rallentato esitante; infine s'era
arrestata. Il capitano d'origine siciliana Joe Ciliberti aveva poco dopo fatto
segno di riprendere lentamente: non per timore o per cautela, ma solo per
prolungare il piacere che gli aveva suscitato quel quadro stagliato là in
fondo, come olio di scorcio marino. Laggiù, guardando verso levante, nel limite
estremo di una punta su cui si ergeva una torre, aveva colto l'inconfondibile
mutare del vento e i palummeddi, le lievi increspature di candida spuma che si
rincorrevano qua e là a fior d’acqua. Aveva sorriso, inspirando la lieve brezza
marina, ed era come se quel luogo, così vario e colorato, gli fosse sempre
appartenuto. Lungo i marciapiedi, poi, a ridosso di case basse con facciate
bianche, rosa e azzuolate, s'arrampicavano fichi e pergolati fin sui
terrazzini, creando ridenti tettoie di verde frescura. Il tutto, osservato da
lontano, gli aveva offerto un unicum essenziale che echeggiava i racconti dei
suoi nonni emigrati tanti anni prima in America.
La
jeep s'era di nuovo arrestata: il capitano non avrebbe voluto più staccarsi da
quell'insieme impareggiabile, ma un ragazzino, accortosi del loro arrivo, era
corso ad avvertire i grandi di casa. Incredibile la rapidità con la quale si
era diffusa la notizia: prima s’era sentito montare un lieve brusio, fattosi
presto fragore, onda fluttuante che aveva investito le estreme contrade, fin
nei più recessi angoli di Torrechiara.
Ormai
la colonna si era tanto addentrata da essere sommersa da incontenibile
entusiasmo. Era iniziato il lancio di giugamme, prede ambite spasmodica dei
bambini illusi che il masticare senza fine potesse placare i morsi della fame.
Ma erano pure volate gallette, scatolame d'ogni genere e profumate Camel mai prima conosciute. Infine la
fiumana era confluita in Piazza Duomo, nel cuore pulsante del paese. Circondata
da vecchi melangoli, racchiusa tra gli antichi palazzi della borghesia agraria,
sembrava la vera testimone degli eventi. Nella parte bassa, accanto al
monumento ai Caduti della Grande Guerra, stava ritto un paladino vestito di
nero, Don Roberto, col solo tricolore in pugno e lo sguardo fiero. “Qui sarà il popolo a decidere!”,
sembrava volesse ricordare a tutti. Ma in cuor suo presentiva che così non
sarebbe stato, avendo incrociato lo sguardo di Nino Sacco che, a poca distanza
da lui, faceva scorrere compiaciuto i pollici lungo le bretelle.
Intanto
dalla Chiusa, il grande spiazzo sul mare, dove i pescatori solevano rammagliare
le reti, era salito a far festa anche il vecchio Mercurio, cioè, mio nonno, il
padre di mio padre e di Pietro. In quel momento il vecchio Alati aveva pensato
a suo figlio di cui non aveva da gran tempo notizie e in cuor suo pregava di
poterlo avere presto lì, con loro. Ma nessuno poteva immaginare che sarebbero
trascorsi ancora altri due anni prima di poterlo riabbracciare.
*
* *
Spesso
mi era accaduto d’assopirmi in treno durante il viaggio di ritorno, ma mai di
addormentarmi come quel sabato. Il fatto è che era stata una settimana faticosa
e un’insolita stanchezza, anche mentale, sembrava aver preso il sopravvento.
Ma, a parte tutto, ciò che veramente mi impensieriva era il dover convincere
Irene a riconsiderare l’opportunità di quel dannato comizio.
“Le foto!”,
riflettevo, “le foto... Figuriamoci,
prenderanno tempo, confonderanno tutto, corromperanno qualcuno e faranno
sparire i negativi ... Ma poi, cosa le salta in mente? Forse è impazzita ...!
mostrarle in un comizio! La convincerò ... la convinceremo a consegnare il
tutto in Procura, senza ricorrere a questi atti eclatanti che non fanno
cambiare di un millimetro la testa
delle persone. Lei dice che si squaglieranno come neve al sole, ma
vorrei proprio vederlo”.
Con
questi pensieri mi addormentai, scivolando pian piano in incubo.
Mi trovavo in una stanza al piano superiore della villa di Irene. Improvvisamente la porta si apriva e compariva Ruggero seguito da tutti gli altri della terza C. Tenendosi per mano davano vita ad un gaio girotondo, intonando con voci angeliche il Va' Pensiero di Verdi. Terminata l'ultima strofa, mi scagliavano addosso i loro libri di storia mentre io cercavo di ripararmi, di scansarli. Infine, come la cascata di un torrente, sfiorando il pavimento, fuoriuscivano dalla finestra spalancata, precipitando nello spiazzo antistante. Disperato, tentavo di bloccarli, ma una forza invincibile mi inchiodava al pavimento. Lottavo strenuamente e, finalmente, riuscivo a correre al pianoterra dove, proveniente dalla cucina, udivo un lieve ticchettio. Mi arrestavo e, sbirciando dalla porta socchiusa, scorgevo Irene di spalle, appollaiata su un'enorme poltrona, intenta a digitare chissà quali messaggi alla tastiera di un computer. Lo faceva con incredibile, irresistibile trasporto, come fosse collegata ad esso da una specie di cordone fluorescente, mentre lievi scintille fuoriuscivano dalla tastiera che sfiorava appena coi polpastrelli delle dita. Volgendomi poi sulla sinistra, notavo qualcosa che mi attraeva e turbava ad un tempo: un grande dipinto naif, raffigurante un gruppo di persone acconciate in modo bizzarro, occupava l’intera parete. Da esso emanava una misteriosa energia: personaggi palpitanti, simili a paladini, si mescolavano a nebbiosi paesaggi e a struggenti lamenti, a tintinnar di lame e a luccichii di armature con ondeggianti piumaggi. Un corpulento e impenetrabile uomo, che sembrava a capo della chiassosa ciurma, montava un imponente destriero color carbone dalle forme perfette, che nervosamente raspava con uno zoccolo il suolo polveroso. Sullo stesso destriero, una donna senza volto, il capo ricoperto da un elmo piumato da cui fuoriuscivano fluenti riccioli che ricadevano sul viso inesistente e, come un Angelo Gabriele, una grossa spada rilucente in pugno rivolta al cielo. Il capobanda sembrava proprio fossi io, ma nello stesso tempo non lo ero, soltanto mi somigliava come fosse me stesso. Ma in cuor mio sapevo chi fosse ... Era come se la storia si stesse riavvolgendo in una spirale senza tempo e senza spazio. Colui che non era me stesso, poi, traeva dal nulla, agguantandoli per i fili, pupi lignei di superba fattura. «State tranquilli, siamo al vostro fianco!», dicevano in coro.
Mi trovavo in una stanza al piano superiore della villa di Irene. Improvvisamente la porta si apriva e compariva Ruggero seguito da tutti gli altri della terza C. Tenendosi per mano davano vita ad un gaio girotondo, intonando con voci angeliche il Va' Pensiero di Verdi. Terminata l'ultima strofa, mi scagliavano addosso i loro libri di storia mentre io cercavo di ripararmi, di scansarli. Infine, come la cascata di un torrente, sfiorando il pavimento, fuoriuscivano dalla finestra spalancata, precipitando nello spiazzo antistante. Disperato, tentavo di bloccarli, ma una forza invincibile mi inchiodava al pavimento. Lottavo strenuamente e, finalmente, riuscivo a correre al pianoterra dove, proveniente dalla cucina, udivo un lieve ticchettio. Mi arrestavo e, sbirciando dalla porta socchiusa, scorgevo Irene di spalle, appollaiata su un'enorme poltrona, intenta a digitare chissà quali messaggi alla tastiera di un computer. Lo faceva con incredibile, irresistibile trasporto, come fosse collegata ad esso da una specie di cordone fluorescente, mentre lievi scintille fuoriuscivano dalla tastiera che sfiorava appena coi polpastrelli delle dita. Volgendomi poi sulla sinistra, notavo qualcosa che mi attraeva e turbava ad un tempo: un grande dipinto naif, raffigurante un gruppo di persone acconciate in modo bizzarro, occupava l’intera parete. Da esso emanava una misteriosa energia: personaggi palpitanti, simili a paladini, si mescolavano a nebbiosi paesaggi e a struggenti lamenti, a tintinnar di lame e a luccichii di armature con ondeggianti piumaggi. Un corpulento e impenetrabile uomo, che sembrava a capo della chiassosa ciurma, montava un imponente destriero color carbone dalle forme perfette, che nervosamente raspava con uno zoccolo il suolo polveroso. Sullo stesso destriero, una donna senza volto, il capo ricoperto da un elmo piumato da cui fuoriuscivano fluenti riccioli che ricadevano sul viso inesistente e, come un Angelo Gabriele, una grossa spada rilucente in pugno rivolta al cielo. Il capobanda sembrava proprio fossi io, ma nello stesso tempo non lo ero, soltanto mi somigliava come fosse me stesso. Ma in cuor mio sapevo chi fosse ... Era come se la storia si stesse riavvolgendo in una spirale senza tempo e senza spazio. Colui che non era me stesso, poi, traeva dal nulla, agguantandoli per i fili, pupi lignei di superba fattura. «State tranquilli, siamo al vostro fianco!», dicevano in coro.
Irene, intanto,
continuava impassibile a digitare, mentre la stampante sputava fogli bianchi. Non sembrava per nulla far caso alla mia presenza fin quando, colui che non era me stesso, con voce
cavernosa, urlava: «Siamo qui, siamo qui!». Allora si volgeva verso di me e mi accorgevo che anche lei era priva di volto.
La paffuta mano del capotreno mi scosse: «Professore … professore … è arrivato, siamo a Torrechiara. Se non scende subito, finisce a Trapani!».
Accanto
alla bicicletta, affogato nell’eterno cappotto grigio, fui sorpreso di trovarvi
Franco. Raramente era accaduto in passato. L'ultima volta era stato nel ’92,
per l'improvvisa morte di mio padre.
«Che
ci fai qui? Ch'è successo questa volta?», gli chiesi allarmato.
«Non
c'è tempo da perdere, lascia qui la bici e sali in macchina, la riprenderemo
stasera».
«Ma,
insomma, che caspita succede? Vuoi spiegarti?».
«Un
bordello succede: questa notte qualcuno è entrato in casa di Irene. È
terrorizzata e non s’è ancora ripresa … Soltanto in mattinata è riuscita
a liberarsi e ad avvisarmi. Tu eri già partito da un pezzo, ho immediatamente
chiamato Mario e ci siamo precipitati».
Impallidii,
aderii allo schienale e chiesi con un fil di voce se le avessero fatto del
male.
«Nulla,
per fortuna. Solo paura, una gran paura, sta' tranquillo, sarà lei a
raccontarti il resto… in fondo è una donna forte, lo sai. Ora sta meglio, le
abbiamo dato un sedativo e ha riposato un po'».
«Avete
avvisato i carabinieri?».
«Ma
quando mai: lei non ha voluto saperne».
«Come
non ha voluto saperne? In questi casi è la prima cosa da fare».
Franco
non rispose. Infilò l'ultima curva, sfrecciò oltre il cancello e s'arrestò
nello spiazzo a pochi centimetri da una grande fioriera.
Irene
ci aspettava in cucina, seduta sul divanetto accanto a Mario, una gamba
ripiegata sotto, come soleva fare, l'altra penzoloni. Non l'avevo mai vista in
quello stato, i capelli scomposti, il volto teso e gli occhi stralunati.
Schiacciò la sigaretta nel posacenere e mi venne incontro a stringermi forte.
Provai tenerezza e la sentii fragile come non mai.
«Ho
avuto tanta paura da non poter parlare», mi disse con voce rotta.
La
staccai da me per osservargli meglio il viso.
«Racconta,
racconta tutto, non trascurare nulla» le dissi.
«Saranno
state più o meno le tre di notte», cominciò tremante, come a rivivere quei
momenti. «Dormivo profondamente quando qualcuno ha acceso il lume del comodino.
Mi sono svegliata di soprassalto ... credevo di sognare … chissà da quanto
erano lì ad osservarmi. La mente mi si è annebbiata dal terrore: due uomini,
col viso coperto da calze di nylon e con guanti di lattice, mi stavano di
fronte». Inspirò profondamente, le si affilò il naso e proruppe in pianto.
Irene,
dopo essersi un po’ calmata, aveva proseguito nel racconto, spiegando come si
era ritrovata immobilizzata, con la bocca tappata da un grosso cerotto, con
poca aria ... paralizzata … perduta ... e con tanti, tantissimi pensieri, i
peggiori ...!
A
quel punto Franco e Mario, facendomi cenno che sarebbero tornati in serata, si
allontanarono con discrezione.
«Sta'
calma, sii forte, continua, racconta», l'esortai ancora, sfregandole il
fondoschiena e stringendola più forte a me. «T’hanno minacciata con le armi?».
«No,
no, magari l'avessero fatto», rispose tra i singhiozzi, «avevano una freddezza
… una calma … e si muovevano con tale sicurezza da penetrarti nelle ossa peggio
di una lama».
«Insomma,
che t’hanno fatto …? cosa volevano?».
«Niente,
non m'hanno fatto niente a parte legarmi e imbavagliarmi», rispose staccandosi
da me e rimettendosi sul divano. Sembrava avesse riacquistato sicurezza, ma,
osservandola meglio, notai ch'era ancora terrorizzata. Improvvisamente riprese:
«Esca i negativi, signorina», questo m'hanno detto, «e nessuno le farà male. E
mentre uno dei due parlava, l'altro, quello basso, come a farlo per caso, ha
appena spostato il lembo del giubbotto, scoprendo una pistola enorme infilata
nel cinto. A quel punto mi si è gelato il sangue!».
Mi
abbandonai sul sofà tenendo il viso tra le mani. «Lo credo bene che ti si è
gelato … Ma io me lo sentivo, me lo sentivo», sussurrai, «ma come cavolo hanno
fatto a sapere?!».
Irene
si rialzò di scatto e, come se un mostro le si rotolasse dentro, iniziò un
nervoso andirivieni per la stanza. Poi s'arrestò di colpo, accese un'altra
sigaretta e, mentre una voluta di fumo le avvolgeva il volto, con voce arrochita
aggiunse: «Eravamo in cinque a saperlo, noi due inclusi».
Sentii
di vivere il passaggio più amaro della mia esistenza e per giorni mi sentii
trafitto come un San Sebastiano. Il pensiero che tra i miei migliori amici,
coloro con i quali avevo da sempre condiviso ansie, lotte e ideali, potesse
annidarsi un traditore, mi svuotava l'anima, come fossi scollato dal mondo. Mi
chiusi in me stesso e per giorni non volli sapere più nulla di nulla, e di
nessuno.
Unico
spiraglio, attraverso cui mi riusciva d'intravedere ancora una flebile luce di
speranza, l'ansia di raccontare ai miei studenti.
TERZO ED ULTIMO SABATO
Il non ritorno
Giacomo,
nel corso della notte, così come stabilito, si apprestò a partire alla volta di
Torino per svolgervi il compito assegnatogli dal Comando
di Pianoro
Tutto,
tranne qualche piccolo intoppo, era stato predisposto con cura. Pietro e Rita,
per un lungo tratto, lo avrebbero accompagnato, con un sidecar sottratto ai
tedeschi, fino all'incrocio con la statale da dove avrebbe proseguito con
altri. Nella prima serata Rita e Pietro l'avevano aiutato a preparare una
valigia procurata in paese, poiché lo zaino, una volta in città, avrebbe dato
subito all’occhio, ma vi era stato ben poco da mettervi dentro. Aiutarlo, in
realtà, era stato un pretesto per sentirsi ancora vicini. Tutt’e tre
avvertivano d’essere a una svolta importante nella loro vita di combattenti.
Mangiarono una specie di castagnaccio e alcune uova sode mentre a Giacomo
riservarono pure un pezzo di lepre arrosto.
“Sarà
diverso in città, tra quelle fabbriche, con nuove insidie”, rifletteva
Pietro, “chissà chi incontrerà”. Gli
spiaceva tanto doversene separare proprio allora che le cose volgevano al
meglio. Era un vero amico. “Gli amici
veri”, gli aveva spesso ripetuto suo padre "solo nel mare tempestoso, tra la vita e la morte, te li trovi accanto”.
E infatti, Giacomo era stato tra i pochi, oltre a Rita, che nel turbinio di
quella vita aveva saputo apprezzarlo, capirlo, infondergli fiducia.
Il
sidecar, guidato da Pietro, con Rita incollata alle spalle, andò tranquillo,
infilando sicuro le curve. Tuttavia né il fresco della notte, né Rita alle
spalle, riuscirono a scacciare i tristi presentimenti che gli si affollavano.
Giacomo, rannicchiato nel vano a fianco, a un certo punto disse: «Su, musoni,
non siamo a un funerale … Cantiamo!», e con voce baritonale, ma stonato come
una campana, diede il via al famoso “Vinceremo!”.
Terminato
il canto, Rita commentò di non avere dubbi sulla “vittoria”, ma si chiese pure
cosa sarebbe successo a loro, a tutti, dopo aver vinto.
Giacomo
corrugò la fronte e non poté fare a meno di condividere l’interrogativo.
«Anch'io in questi giorni me lo sono chiesto tante volte», rispose, «ma chi può
saperlo!».
«Io
invece lo so», intervenne Pietro, «tornerò a Torrechiara per cambiare un po' di
cose».
«Ne
sei sicuro?», chiese Giacomo, «cosa ti fa pensare che al tuo paese esistano
ancora … cose?».
«Cose forse no, ma teste sì!», ribatté il Pescatore.
Scoppiarono a ridere e ripresero a cantare come tre ragazzini spensierati.
«Cose forse no, ma teste sì!», ribatté il Pescatore.
Scoppiarono a ridere e ripresero a cantare come tre ragazzini spensierati.
Al
crocevia giunsero con qualche minuto d’anticipo, il tempo necessario di
abbracciarsi e di scambiarsi le ultime raccomandazioni.
Quasi
albeggiava quando, dalla curva in fondo, sbucarono i fari strabici di un
camioncino. Si arrestò appena di fianco e udirono una voce che chiedeva se fra
loro c‘era Giacomo Vergara.
«Sì,
sono qui, un momento solo e sono da voi». Poi, rivolgendosi a Pietro e Rita:
«Cari miei, non potete sapere», disse, stringendoli ancora in un unico
abbraccio, «quanto sia stato importante per me vivere con voi questi due
anni!».
«Ora
non esageriamo...! Con tutto quel che ha combinato questo furfante qui», disse
Rita ammiccando, «dobbiamo ringraziare il cielo se siamo ancora in piedi».
Pietro
finse di assestarle una manata sulla spalla e risero, ma, in realtà, avrebbero
voluto piangere! Mentre Giacomo montava svelto sul mezzo e già partiva, Pietro
ebbe ancora il tempo di domandargli: «Ci rivedremo, vero, quando tutto sarà
finito?».
«Certo,
ci rivedremo... a Torino, ne sono convinto», rispose, «ma tutto non finirà, il
difficile dovrà ancora venire. Viva la Libertà!», gridò, è scomparve dietro la
curva.
Pietro
e Rita, nel tragitto di ritorno, rimasero quasi sempre in silenzio. Lei, di dietro,
continuò a stringerlo forte e questo bastò ad entrambi. Il vento, ancora
freddo, le arrossava gli occhi e scompigliava i riccioli. Saldata alle sue
spalle si sentiva serena, pervasa da una sottile felicità come quando, bambina,
uscendo da scuola, trovava sua madre a braccia aperte. Fino a poco tempo prima,
il ricordo d'essersi sottratta all'assurdo destino dei suoi, l'aveva
tormentata, schiacciata fra il tradimento e la colpa e, addirittura, a volte
anche tentata, nel suo intimo, d'abbandonare la lotta e consegnarsi ai
carnefici. Era stato un pensiero inconfessabile, un lampo di sconforto che, di
tanto in tanto, l’attraversava. Ma ora, col suo uomo che stringeva a sé, che
sentiva buono, d'una bontà forte e sicura, quale diritto aveva di forzare il
destino? La guerra era al suo epilogo e presto anche per loro sarebbe iniziata
una nuova esistenza: non importa quale, purché si lasciassero alle spalle
quell’infame guerra.
Il
sidecar continuò ad arrampicarsi tra i silenziosi castagni e presto si
accorsero che già era l’alba. Fu allora che lui si volse appena per avvertirla
che, una volta a Pianoro, il tempo di una breve sosta, e avrebbero dovuto
rimettersi in marcia per trasferirsi in Val d’Ossola dove la situazione
permaneva difficile. «Siamo stati troppo tempo inattivi in questi giorni»,
commentò quasi urlando per superare il rombo del motore.
«Va
bene, ma se vuoi il mio consenso», disse lei ridendo, «devi prima darmi un
bacio».
«Ma
guarda la pazza … come faccio mentre guido? ci spezziamo il collo …!».
«Maramaldo
che non sei altro, te lo spezzo io il collo, con un morso da vampira», disse
divertita facendo il vocione, e gli assestò un leggero morso, proprio lì, alla
base del collo. Pietro ebbe una scossa di solletico e perse per un istante il
controllo del mezzo. «Mio Dio... tieniti forte!», urlò.
Nel
fazzoletto di erba soffice e pulita, c'era una sola pietra, una sola, aguzza,
celata fra l'erba. Chissà da quanto tempo stava lì ad aspettare.
Pietro
vagò senza meta nel prato. «Perché … perché … perché?!», ripeté più e più volte
senza ottenere risposta, «se proprio dovevi, perché proprio così … proprio ora,
dopo quello … dopo quello … dopo quello che hai … che abbiamo vissuto?!».
Le
tornò vicino, le sollevò la testa sanguinante, scostò i riccioli dagli occhi
ormai spenti e la strinse forte a sé. «Fra qualche tempo», le sussurrò, «chi si
ricorderà di te? Chi dirà il tuo nome? Solo io … solo io … solo io …!».
*
* *
Estate
e autunno erano già volati via quando, il 9 marzo del '45, nell'ora stabilita,
le sirene delle fabbriche assordarono l'aria. Nelle città industriali del
Centro-Nord si levò formidabile la volontà di farla finita. Operai ed operaie a
migliaia incrociarono le braccia: fu l'inizio dell'insurrezione. Tutto, a
prezzo di sangue e di indicibili sacrifici, si era svolto come previsto.
L'attività
resistenziale nelle città aveva definitivamente frantumato ogni residua
illusione degli occupanti e dei loro complici, mentre la mostruosa macchina di
sterminio nazista, che mai mente più perversa avesse scientificamente concepito
e realizzato, veniva mostrata alla coscienza incredula del mondo.
Un
mese e mezzo dopo, il 25 aprile, le formazioni partigiane, guidate dai massimi
esponenti del CLN, abbandonarono in massa montagne e valli, dilagando verso i
punti nevralgici delle città. Si concludeva così la fase più sconvolgente della
guerra, ma scoccava pure l'ora della ricostruzione, l'ardua impresa del
risanamento morale, civile ed umano, ancor prima che materiale, dell’Italia,
dell’Europa.
Pietro,
abituato da sempre agli immensi spazi, avendo perso i contatti con i suoi
compagni a causa della confusione, si muoveva impacciato tra folla e i
palazzoni cupi di Torino. “Se almeno
rintracciassi Giacomo”, pensava, “se
potessi parlargli anche un solo momento … raccontargli di Rita, salutarlo per
l’ultima volta prima di partire per la Sicilia …!”. Con occhi ansiosi
guardava dappertutto nella speranza di scorgerlo fra il mare ondeggiante di
tutte quelle teste anonime, e finiva, invece, per distrarsi, catturato, magari,
da particolari insignificanti.
Ad
un tratto dal fondo dell’immenso viale, montò improvviso un gran brusio. La
folla s’aprì a fatica, premendo in ogni direzione e fra due ali penetrò
un’altra fiumana guidata dai maggiori capi dell’antifascismo e della
Resistenza. Tra quelli riconobbe subito l'imponente figura di Pompeo Colasanti
e si sentì per un po’ confortato. Appena dietro, a spezzare il corteo, notò
alcune auto imbandierate che trasportavano sui predellini, in precario
equilibrio, grappoli di partigiani e proprio tra questi gli parve di
riconoscere Giacomo. «Ma, sì», urlò, «è lui... Giacomo». Chiamò più forte,
«Giacomo... Giacomo... sono io, il Pescatore, sono qui». Ma non poteva udirlo.
Lottò, guadagnò a fatica qualche metro, urlò più forte che poté. Giacomo
finalmente sembrò percepire qualcosa. Volse lo sguardo teso in ogni direzione
e, infine, lo arrestò su una sagoma che saltava tra la folla come un capriolo:
lo riconobbe, gli s’illuminò il volto e prese a salutarlo, agitando più forte
che poté il berretto stretto in una mano. Ma Giacomo non poté accorgersi che
gli occhi di Pietro non avevano più la stessa luce.
«Sto
partendo, addio … Rita non c'è più!», urlò Pietro con voce strozzata. Non poteva
sentirlo per il gran brusio e la distanza, e poi le auto erano andate già
oltre. «Ti giuro, ci rivedremo! Te lo giuro!», fece appena in tempo a udire
Pietro. Stette ancora un po’ a seguirlo con gli occhi finché la marea non
l’inghiottì del tutto. Fu a quel punto che il Pescatore si sentì risucchiato
dal richiamo della famiglia, della sua terra. Sapeva d’aver fatto la sua parte
e nulla, proprio nulla, aveva da rimproverarsi. La famiglia aveva bisogno di
lui. “Se prima della guerra c’era fame”,
pensò, “cosa ci sarà adesso?”.
Superò
a fatica la calca, portandosi sotto il porticato di una fila di palazzi che
percorse a fatica finché svoltò al primo angolo e, come per incanto, si ritrovò
in una strada più tranquilla. Proseguì ancora e, mentre la folla continuava a diradarsi,
finì senza accorgersene in un quartiere quasi deserto, con palazzi grigi,
addolciti qua e là da bandiere sventolanti dai balconi. Il silenzio, rotto di
quando in quando dal rimbombare di voci incomprensibili, appariva irreale. Era
stanco e affamato, svuotato dentro. Si fermò a riflettere seduto sugli scalini
di un portone. Accese una sigaretta per smorzare la fame, ma fu inutile, anzi
peggio: si sentì nauseato e la spense dopo un paio di boccate; socchiuse gli
occhi e cominciò a ripassare l’occorrente per il viaggio come se avesse dovuto
portarsi appresso chissà che. “Ho tutto a
posto, mi pare: gli scarponi di riserva, che sono la cosa più importante; il lasciapassare
del CLN; la rivoltella con un po’ di munizioni e le sigarette. Non mi resta,
adesso, che chiedere quale strada pigliare”. Ma ebbe un sussulto. “Porca miseria, non ci avevo pensato: quanta
strada... duemila chilometri, non si scherza!”.
Proprio
in quel momento la palazzina dirimpetto fu circondata da uomini armati che,
senza parlarsi, si scambiarono segnali d’intesa. Altri ancora, nel volgere di
pochi attimi, ne sopraggiunsero: due, come falchi, scesero al volo dalle
biciclette lasciandole rovinare lungo la cunetta; alcuni si disposero agli
angoli delle strade contigue con le armi spianate; due o tre si appostarono
dietro gli alberi, mentre i primi arrivati si prepararono a sfondare il portone.
Il più anziano di loro, quello che sembrava guidarli, dimostrava non più di vent’anni.
“Ci siamo!”, pensò Pietro e cercò di arretrare
nell'ingresso poco profondo; scostò la casacca dal cinto, scoprendo la rivoltella
e si dispose ad osservare. Ma uno di quelli, che fin dall'inizio lo aveva
notato, gli si avvicinò col mitra spianato. «Ehi, tu, metti le mani ben in
vista … chi sei … che ci fai qui? dove hai preso quella …?», e, con la punta
del mitra, indicò la pistola che il Pescatore teneva al cinto, «fatti identificare», concluse con
tono autoritario.
Un
timido accenno di peluria sul viso e alcuni foruncoli, rivelarono la giovane
età del giovane, confermata dai modi goffi di chi cresce troppo in fretta. Al
collo teneva annodato un fazzoletto rosso-verde con una stella a cinque punte e
una scritta ricamata in giallo: "76ª SAP
Luigi Volterra".
«Ehi,
calma … calma!», esclamò Pietro infastidito, «una cosa per volta, ragazzo …».
«Porca
vacca, non chiamarmi ragazzo», ribatté quello irrigidendosi col mitra puntato.
Pietro fu attraversato dal pensiero che quella strana situazione in cui s’era
trovato, proprio quando la sua esperienza sembrava volgere al termine, facesse
parte del percorso imperscrutabile della sua esistenza giunta all’ultima tappa.
L’arma puntata da quell’imberbe, per un attimo, gli parve somigliasse al sasso
aguzzo che aveva dato appuntamento a Rita. “E
difficile vivere”, pensò, “e
altrettanto facile morire per una minchiata come questa!”.
«Insomma,
che caspita hai? Vuoi rispondere o devo sparare?»
La
voce del giovane brigatista lo riscosse. «Non è detto che sia giunta la mia
ora!», mormorò con gli occhi persi nel vuoto.
«Vuoi
sapere che ora è?», domandò il ragazzo sarcastico. «Questa è l'ora in cui si
pagano tutti i debiti e credo … », ma Pietro lo interruppe.
«Se
sapessi, ragazzo ... non avresti voglia di scherzare, né di
perdere tempo!».
«No,
io non scherzo affatto, né perdo tempo … Per l'ultima volta», urlò, «ti ordino
di farti identificare e di consegnarmi la pistola».
«Sono
anch'io un partigiano, vengo dalla montagna e, guarda caso, faccio parte della
tua stessa famiglia … la IIª Garibaldi»,
rivelò Pietro, deciso a chiudere in fretta.
Il
giovane rise tra l’incredulo e il beffardo. «Dimostramelo, su, presto, e non
fare mosse false ché ti fulmino».
Lentamente
Pietro tirò fuori il documento d’identità timbrato e firmato dal comandante
Cardinali e glielo porse. Il giovane brigatista lesse: “CLN ALTA ITALIA
VALSESIA. Si attesta che il partigiano Alati
Pietro, nome di battaglia “Pescatore”, di anni 25, nato a Torrechiara
(Sicilia), proposto da questo Supremo Comando per la Medaglia … al Valor
… della Resistenza...”.
Il
giovane sgranò gli occhi. «Tu saresti il leggendario Pescatore? l'imprendibile? proprio quello che ha preso per il culo
un intero battaglione tedesco?».
Le
notizie, a quanto pareva, lo avevano preceduto. «Be', non esageriamo», rispose
Pietro abbassando le braccia, «erano, sì e no, ridotti in quattro gatti», e prese
il documento dalle mani del ragazzo rimasto a bocca aperta.
«Colpo
di mille fascisti putrefatti», fece quello, sputando per terra come un vecchio
tabaccoso, «chi l'avrebbe mai detto? Scusa... se l'avessi saputo!».
«E
già, quanti guai si sarebbero potuti evitare se le cose si fossero sapute in
anticipo! Ma ora piantala qui», rispose noncurante Pietro. «Senti, che
succede?», gli chiese, indicando con lo sguardo il portone di fronte.
«Una
soffiata e siamo corsi: nella cantina si nascondono alcuni maiali e dobbiamo
scannarli», rispose con disarmante naturalezza.
Si
udì un fischio e il giovane corse a ripararsi dietro una colonnina della presa
d’acqua mentre altri sfondavano la porta.
Pietro
si ritrasse con la rivoltella in pugno. Dopo un paio di minuti, a braccia
alzate, uscì un uomo sulla quarantina con l’espressione avvilita, ben vestito,
alto e un po’ stempiato, seguito da un giovanotto con gli occhi spauriti e da una
bella donna a piedi scalzi. Li spinsero senza riguardi contro il muro della
palazzina. L’uomo, il volto sanguinante, ad un tratto s’inginocchiò, implorò
pietà; pianse, si disperò, si chinò a baciare i piedi dei giovani sappisti,
promettendo gioielli e oro, tanto oro in cambio della vita sua e degli altri.
«Lurido
verme», gridò uno, «credi di poter cancellare tutto col sangue succhiato al
popolo?».
«Al
muro, al muro!», gridarono altri.
A
quel punto la donna, in preda al terrore, si staccò veloce, guadagnando diversi
metri. Pietro ebbe un sussulto: si sorprese a temere per lei.
«Lasciatela
perdere quella troia», ordinò il capo, e si volse fulmineo verso i due,
falciandoli con una sventagliata.
Abbracciati,
padre e figlio, stramazzarono al suolo mentre la donna, udita la raffica,
s’arrestò impietrita; quindi si volse e tornò sui suoi passi lentamente. Quando
fu a meno di un metro da quei corpi ancora sussultanti, vi si gettò addosso,
urlando di dolore.
«Porca
troia, t’avevamo graziata ...», gridò il più anziano. «L’hai voluta tu», e le
sparò alla nuca un colpo secco come si fa con le vacche al macello.
Pietro
s’incupì, socchiuse gli occhi e riaffiorò la Belva della Valle. Non credeva che
la guerriglia in città fosse così. Non poteva immaginare che tra i respiri dei
palazzi, agli incroci delle vie, sotto le finestre alitanti di vita, si potesse
ammazzare in quel modo. Allora gli tornarono in mente le parole di Giacomo
quella notte al crocevia: “Ma non tutto
finirà, il difficile dovrà ancora venire”.
*
* *
Il
viaggio per Torrechiara durò esattamente trentadue giorni e fu come sfogliare
le miserie materiali e umane della penisola, ma anche l’anima coi suoi slanci. Percorse
duemila chilometri a piedi, su carri straripanti di ogni cosa, a dorso di
asini, su treni incredibilmente lenti e stipati di tutto, attraversando ponti
lesionati e affrontando salite estenuanti. Per nutrirsi chiedeva, rubava o raccoglieva
semplicemente.
“…
Un paio di scarponi di riserva!? …”.
Gli veniva da ridere a pensarci, constatando che dopo dieci giorni il primo
cominciava a disfarsi. In compenso, però, aveva quel documento che apriva varchi,
che spianava ogni strada. Ma presto si sarebbe anche accorto, procedendo verso
Sud, quanto fosse guardato dai più con fastidio, da altri con sospetto. Alla
fine sarebbe divenuto ingombrante come un macigno.
Quando
il venticinquesimo giorno giunse finalmente a Villa San Giovanni, era ormai
buio. Intravide l'estrema punta nord orientale dell'Isola segnalata dalla tenue
luce del faro, e gli parve impossibile che fosse ancora intatto. Sentì d'essere
già a casa e la voglia di proseguire, malgrado lo sfinimento, si fece più
forte. Ma non era finita: avrebbe dovuto attendere ancora tre giorni interi per
traghettare. Era troppo per lui il tempo d’attesa e così ebbe l'idea di recarsi
nel vicino porto peschereccio dove, probabilmente, avrebbe trovato qualche
barca in procinto di salpare per la Sicilia.
«Dove
siete diretti?», domandò a un vecchio pescatore che con altri armeggiava
intorno a una barca.
«Dove
devi andare?», rispose quello di rimando senza alzare lo sguardo.
«In
Sicilia. Anch’io, prima di questa dannata guerra, facevo il … pescatore come
voi e posso darvi una mano ... se volete» (pescatore:
come ora gli risuonava diverso quel nome!).
«Sei
fortunato, il vento si sta alzando, noi torniamo a Messina. Come ti chiami?».
«Pietro,
e vengo da...».
«Non
c’interessa da dove vieni», lo interruppe, «quel che conta è dove vai».
Il
vecchio durante l'intera traversata non aprì bocca. Quando approdarono a una
caletta vicino Messina, Pietro li aiutò a tirare in secco la barca. Il vecchio per
la prima volta aprì bocca per salutarlo e chiedergli dove fosse diretto.
«A
Torrechiara, vicino Palermo».
«Buona
fortuna!», agginse.
L'ultimo
tratto, lasciata alle spalle Palermo, lo coprì su un carretto fino a Nìcari,
una quindicina di chilometri da Torrechiara. Poi, sempre a piedi, proseguì
tagliando per i monti. Era il tre di giugno e già il sole spaccava la pietra.
La ginestra e il verde intenso dei fichidindia esaltavano il grigio roccioso.
Quando
superò l’ultima altura, d’improvviso, laggiù, stretto fra mare e monti, affiorò
Torrechiara con le sue case, le strade rettilinee e la piazza, come se lo stesse aspettando a braccia aperte. Inspirò
profondamente il profumo che saliva dal mare, dal porto, da Torre Bianca, possente guardiana di un golfo di superbo splendore. E fu allora che la torre tufacea, immutabile nella sua immobilità, richiamò alla sua mente una battuta spiritosa di Giacomo. Erano sul sidecar quel giorno e il suo umorismo lo aveva fatto ridere di cuore per l'ultima volta, poco prima che Rita morisse. Giacomo aveva giocato con le parole, e lui aveva risposto che non intendeva dire 'cose', ma teste da cambiare!
Il sole era già al tramonto e c’era ancora un po’ di strada! Calcolò che sarebbe entrato col buio e, poiché si era nel plenilunio, il periodo in cui non si va a pesca, era certo di trovare tutti a casa, e questo pensiero gli mise in corpo un’indicibile frenesia.
Sfinito,
imboccò il Corso, lo stesso da cui, due anni prima, erano entrati gli
Americani. D’un tratto, da una traversa, udì un secco altolà. Spuntò una lanterna: erano due carabinieri con le loro
robuste biciclette. «Fatti identificare: documenti».
«Sono
sfinito, torno adesso dopo quattro anni di Piemonte, da Torino, dove ho
combattuto, ma ecco qui il documento».
L’appuntato,
un gigante dalle mani enormi, che incuteva rispetto in paese, prese e lesse a
bassa voce, soffermandosi su alcune parole: Alati ... Valsesia ... partigiano ...
«Un disertore, dunque».
«Un
disertore? Un patriota, vuole dire!», precisò Pietro indignato.
L’appuntato,
nuovo del luogo, chiese al collega più anziano se lo conoscesse. «È il
figlio di Zu Mercurio, il vecchio pescatore morto il mese scorso», gli sussurrò
all’orecchio.
Pietro
riuscì a cogliere le ultime parole. «Mio padre ...? Il mese scorso ...?!».
«Mi
dispiace, era un brav’uomo», aggiunse contrito il carabiniere.
«Comunque»,
disse il gigante, «domani, con comodo, quando ti sarai ripreso, vieni a
trovarci in caserma per registrare ogni cosa». Gli toccarono una spalla in
segno di condoglianze e proseguirono nel giro notturno.
«Maledetta
guerra», ingoiò amaro Pietro, «non potergli neanche chiudere gli occhi;
maledetta guerra, quanta miseria ci ha procurato!».
Si
sentiva troppo giù per andare a casa. Preferì dirigersi al porto dove le
barche, come aveva previsto, erano tutte lì, tirate a secco nello Scalo. Rintracciò
la sua sardara dipinta di verde con una banda bianca lungo le fiancate e il
nome scritto in bianco: Speranza. Era
rimasta tale e quale. Si adagiò supino sulla vela ripiegata sul fondo. Il cielo
era terso. Pensò a suo padre, a Rita, a Giacomo, ai compagni caduti e a tutti
coloro che aveva voluto bene.
Il
leggero sciabordio delle onde lo condusse pian piano in un sonno profondo.
Sognò Rita, sorridente e bellissima che lo prendeva per mano e gli diceva di
non piangere, di non abbattersi poiché, nonostante tutto, quello era ancora un
mondo meraviglioso.
«Ehi,
tu, arruspìgghiati, chi fai stinnicchiatu cca?», domandò all’alba un giovanotto
riccioluto e ben piantato, toccandogli un braccio con una canna.
Pietro
sussultò. Doveva essere infinitamente stanco per non averlo sentito avvicinare.
Scattò in un lampo e il volto stupito di Giuseppe lo investì in pieno. «Come sei cresciuto ... come sei cambiato!
Non ti riconosco più!», disse Pietro felice di trovarsi davanti agli occhi,
come per incanto, il più giovane dei suoi fratelli. Giuseppe non capì subito
cosa volesse dire quell'uomo e chi fosse. Anzi, lì per lì, pensò a un trucco, a
un raggiro.
«Ma
come, non mi riconosci? Sono Pietro, tuo fratello!».
Nella
mente di Giuseppe c'era impressa un'altra immagine: fresca, piena, pulita. Ora
quel volto era tanto diverso dal lontano giorno in cui l'aveva accompagnato
alla stazione. Con un guizzo il giovane gli fu addosso come un polipo e lo
abbrancò così forte che a stento Pietro riuscì a respirare.
«Così
m'ammazzerai e sarebbe il colmo: quel che per odio non han potuto i fascisti,
tu lo farai per amore!».
Molti,
lungo il breve percorso verso casa, stentarono a riconoscerlo, tanto era provato
in volto. La loro casetta, costruita con pietra arenaria, dura e resistente più
del cemento, che solo nella pirriera di Torrechiara si estraeva, era stata
tirata su da nonno Pitrinu oltre ottant’anni prima. Sorgeva ... (in realtà
sorge ancora, ragazzi, vi abito io), sorgeva, dicevo, a fianco della chiesetta
della Provvidenza, posta sul costone che dominava il porto naturale e la famosa
caletta della Ciucca. La cucina, il nonno, l'aveva voluta più grande del
normale poiché, amava dire, che era il cuore della casa dove si decideva il
futuro della famiglia. Il vecchio, d'indole tenace, era andato a pesca fino a
novant'anni. Pietro, allora bambino, lo ricordava appena: il viso
incredibilmente rugoso, cotto dal sole, e il sigaro perennemente incollato tra
le labbra. Camminando malfermo, raggiungeva la barca e vi montava dopo aver
poggiato sul bordo la natica destra; poi, aiutandosi con le mani, sollevava le
gambe una per volta e, compiendo un mezzo giro, si sistemava come un re sul
sedile di poppa. E non faceva nient'altro all'infuori di dirigere -o almeno
così credeva- le operazioni di pesca con gesti e monosillabi. Mercurio, suo
figlio, infastidito d'averlo sempre in barca, ogni volta gli ripeteva di
smetterla, di starsene a casa a riposare dopo un’intera vita a mare.
«Un
giorno di questi», gli ricordava, «t’acchianamu rintra cuomu na sarda salata».
Lui, sputacchiando l'amaro del sigaro, rispondeva che nella varca era nato e lì
voleva nchiùiri l’occhi pi sempri.
Ma
un giorno disse: «Bbuonu accussì …». Si coricò, vestito com'era, nell'alcova di
destra e il mattino seguente lo trovarono stecchito con un amo da cernia
stretto fra le mani. Nessuno fu in grado di capire con certezza se si fosse
stancato del mare o delle continue lamentele del figlio. Ma più d’uno, nella
marina, ci avrebbe scommesso la barca che non s'era stancato del mare.
Pietro
quel giorno seppe che suo fratello Salvatore –nonché mio padre- aveva smesso di
tuffarsi dal costone più alto per farsi ammirare da Mariella, cioè da quella
ragazza che più tardi sarebbe divenuta mia madre. Si erano sposati anzitempo,
in piena guerra, e ora vivevano tutti insieme nella stessa casa. I miei nonni
s'erano volentieri trasferiti nell'alcova di destra col letto povero in ferro,
cedendo ai giovani sposi, così com'era nell'usanza, quella di sinistra col
talamo in ottone ramato; a Giuseppe e Pietro, invece, restava sempre quella
posta al primo piano che si apriva sul terrazzino col pergolato, con un'uva
dolcissima con acini oblunghi chiamati in paese minne di vacca. Le nozze, su
decisione unanime deliberata in cucina, erano state anticipate poiché il padre
di Mariella, Lorenzo, era morto improvvisamente lasciando in balìa di se stessi
moglie e otto figli. Sei mesi prima un colpo fulminante lo aveva sorpreso nel
pieno di una battuta di pesca a lampara. La pesca del pesce azzurro era tanto
faticosa e rischiosa soprattutto per l'acetilene che si usava per alimentare le
lampare, ma anche suggestiva per i ricchi villeggianti di Palermo che la
seguivano di notte dalla costa, incantati da tutte quelle lampe tremolanti
simili a lucciole sospinte dal vento.
La
luce intensa della lampa fendeva l'acqua, attirando nella trappola mortale i
branchi azzurrini ingannati, fino al secco segnale col quale le reti si chiudevano
inesorabili, imprigionando il brulicante scintillìo.
Quella
notte il padre di Mariella, proprio mentre scrutava il fondo marino illuminato,
era rimasto inerte come un remo, sporto dalla barca a testa in giù fino al
cinto, dentro lo specchio, il cilindro di latta chiuso sul fondo dal vetro.
L'avevano tirato fuori a fatica e trasportato subito a casa tra la disperazione
della famiglia. Rosa, la moglie, non avrebbe potuto farcela da sola a tirare
avanti con tutti quei figli, pur cercando di arrotondare per poche lire nello
stabilimento del salato. Il giorno prima che le morisse il marito, s'era ferita
accidentalmente ad una mano con un attrezzo da lavoro. La compagna accanto le
aveva raccomandato di fare gli scongiuri, ché quello poteva essere un brutto
segno. Lei, accompagnando le parole con un sorriso scettico, aveva risposto che
in cinquant'anni le era capitato tante di quelle volte, che già avrebbe dovuto
essere morta e sepolta da chissà quanto, come le sarde sotto sale. S'era lavata
la ferita con un po' d'acqua dolce e l'aveva fasciata con un fazzoletto,
continuando a sovrapporre sardine e sale. Fin dall'età di dieci anni dava il
sangue in quel modo e, dopo tanto tempo, le mani le si erano bruciate, ritorte,
piagate. Lo faceva per tre lire, ma ora anche lei aveva ricevuto, con la morte
del marito, la sua … buonuscita!
*
* *
«Vorrei
farmi un bel bagno con vero sapone ... se ce n’è», disse Pietro bramoso di rituffarsi
nel calore della vita familiare. Tutti gli stavano intorno a esaminarlo come
qualcosa di prezioso, ansiosi di sentirsi chiedere qualcosa, o curiosi di
ascoltare i suoi racconti. Ma l'imprevista assenza del padre gli impedì di
assaporare appieno l'affetto e le premure che lo circondavano. Mariella e
Salvatore posero sul fuoco un pentolone d'acqua riempito alla fontana del
Vadduni, e quando fu calda al punto giusto, la madre rispuntò con qualcosa di
raro tra le mani: «Tieni, afferra … ecco quello che volevi», annunciò raggiante,
rivolta a Pietro, «… e ringrazia l'Americani si ti puoi ‘nsapunari». Poi, con
un lieve movimento del capo e le palpebre pudicamente abbassate, ordinò a tutti
di lasciare la grande cucina.
Quand’ebbe
terminato, Pietro bevve un fondo di latte appena munto con inzuppato un po’ di pane
raffermo e salì sul terrazzino a radersi all'ombra della pergola che tanto
amava. Da tempo non si vedeva riflesso allo specchio e così capì perché molti
avevano stentato a riconoscerlo. Giuseppe e Salvatore, mentre lui si radeva,
gli tennero compagnia, raccontandosi di tutto e di tutti. Pietro spiegò loro
perché, come e quando aveva preso la via della montagna; narrò le sue imprese,
descrisse l’incursione nella tenda del colonnello Steiner e la vita difficile
tra le valli piemontesi. Ricordò le persone straordinarie conosciute e amate, e
soprattutto, raccontò del drammatico incidente con Rita, usando per lei, che
non aveva fatto in tempo ad amare fino in fondo, commoventi parole. I fratelli
lo ascoltavano imbambolati, rivolgendogli le più ingenue e imprevedibili
domande.
«Allora
sei un brigante …!», affermò a un certo punto Salvatore, sgranando gli occhi.
«Ci
risiamo», esclamò Pietro, e aprì sotto i loro occhi il documento del CLN.
«Leggete
qui, miseria infame! Ma chi vi ha messo in testa certe minchiate? Ho combattuto
e sofferto come un cane, io, per l'onore d'Italia, per la tua, la nostra
dignità ... altro che brigante!».
Pietro
s’interruppe corrucciato, e rivolto a Salvatore gli disse:
«Ricorda
sempre quello che ora ti dico: se tu e Mariella un giorno avrete una creatura,
maschio o femmina che sia, dovrete impegnarvi pure gli occhi per farli
studiare, perché ho capito pure questo … che l'ignoranza è peggio d’un
terremoto!».
«Sì,
va be’, te lo prometto … te lo prometto …!», mormorò Salvatore, senza dare peso
alle parole di Pietro.
«Non
così: devi prometterlo con tutti i sentimenti, ora, qui e subito», insistette con
decisione, e negli occhi del fratello passò rapido un tremolìo smarrito.
Salvatore, allora, portò lentamente gl’indici incrociati alle labbra e li baciò
tre volte. «Se proprio ci tieni tanto», disse con tono solenne tra un bacio e
l'altro delle dita, «te lo giuro, m’impegnerò pure gli occhi!».
Seguì
un momento di silenzio durante il quale continuarono a parlarsi con gli
sguardi, come quando cade la bonaccia che rende il mare olio, e si è costretti
a remare, mentre si odono soltanto i respiri pesanti e il cigolio dei remi
sfregati tra sponde e scalmi. Poi, come quando si alza il primo soffio, che
gonfia e rigonfia esitante la vela, Salvatore, mio padre, riprese a parlare: «…
E l'Americani ...? cos'hanno fatto … niente secondo te?».
«Loro
hanno rimesso tutto a posto», s’intromise Giuseppe. E ne rievocarono l’ingresso
trionfale, raccontarono del mangiare, delle medicine, del ddt contro mosche, pulci, pidocchi e cimici e, alla fine, ci
infilarono pure il nome di ... don Carru Granata.
«Che
c'entra Carru Granata?», fece Pietro, arrestando il rasoio sulla guancia,
«Cesare Mori non lo aveva confinato a Ustica?».
«Sì, esatto ... però ingiustizia ci fu», rispose il fratello, «e l’Americani poi
l’hanno messo a sindaco e tutti lo rispettano quanto e più di prima».
«Perché fai quella faccia? che c'è di strano?», intervenne a quel punto
Salvatore, cogliendo al volo lo sconcerto di Pietro. «E già, per voi è tutto
normale a quanto vedo e sento».
«Però Padre Roberto non ci va tanto d'accordo», precisò Giuseppe.
«Chi è questo don Roberto? da dove spunta?».
«Padre Roberto Lino è il nuovo parroco arrivato subito dopo la tua partenza»,
spiegò.
“Non ci va
tanto d'accordo … interessante!”, ripeté Pietro tra sé, e si chiuse
nelle sue riflessioni, non aprendo più bocca se non per raccomandare a Giuseppe
di smetterla d’armeggiare con la rivoltella, di riporla nel cassetto del comodino e di non
parlare mai a nessuno al mondo della sua esistenza.
Proprio in quel momento bussarono giù in basso e Giuseppe si affacciò dal
terrazzino per vedere chi fosse.
«Si parla del diavolo e spuntano le corna», esclamò.
L’aveva detta proprio bella, tanto che Salvatore gli sferrò un pugno in testa.
«Mi scusi Padre Lino», arrossì Giuseppe, «ma l’ho detto
così, senza pensarci!».
«Per penitenza un mea culpa e tre
atti di dolore», decretò divertito Don Roberto puntandogli l’indice contro.
«Spero solo che non stavate sparlando di me», aggiunse, varcando l’ingresso a
pianterreno.
«Per carità!», esclamò Giuseppe ancor più mortificato.
«Ero in giro e proprio poco fa», riprese il prete da basso, «ho incontrato vostra
madre e m’ha detto del ritorno di tuo fratello; se non disturbo approfitto per
salutarlo e conoscerlo».
«Il piacere sarà tutto nostro! Faccia come se fosse a casa sua», intervenne
Pietro in cima alla scaletta. «Scendiamo noi? o preferisce salire lei? Se sale
ci sediamo sotto la pergola!».
Don Roberto non se lo fece ripetere e, con quattro salti, li raggiunse. Pietro
notò subito con quanta affabilità s’intratteneva a parlare, come fosse nato e
vissuto lì da sempre. La sincerità del suo volto gl’ispirò subito fiducia
nonostante, tranne rare eccezioni, avesse imparato a diffidare dei preti.
Padre Lino si informò su tutto. Infine Pietro, tra una parola e l'altra, gli
mostrò orgoglioso il famoso documento. Don Roberto lesse, lo ripiegò e in
silenzio glielo restituì.
«Qualcosa non va?», gli chiese Pietro.
«No … no … va tutto bene, solo che... Vedi Pietro, tu manchi da alcuni anni e
qui, tante cose, sono rimaste tali e quali; sei vissuto in una
realtà, in situazioni completamente diverse dalla nostra per cui non tutti,
qui, comprenderebbero il significato di questo documento ...».
«…
E lei, don Roberto, l’ha compreso …?».
Il
prete lo fissò per qualche istante. «… Io lo comprendo … puoi starne certo!».
«L'avevo intuito da tante sfumature che non tutti riescono a capirne la portata»,
disse Pietro, «ma non ne capisco l’esatta ragione; è come se mi si
addebitassero delle colpe; è come se il mondo, qui, si fosse capovolto. Cos’è
che veramente non va?».
E don Roberto, piuttosto imbarazzato, cercò di spiegare che mentre lui,
giustamente, si trovava tra i monti del Nord a battersi per la libertà di tutti,
invece a Torrechiara c’era una certa propaganda che penetrava liscia liscia
nella testa dei cristiani, che faceva apparire i partigiani come dei banditi
sanguinari, traditori, nemici della patria, dei ... senzadio. «Comunque sia,
stai tranquillo», concluse con tono accomodante, «col tempo impareranno a
conoscerti per quello che sei e che vali».
Pietro si sentì disorientato. Sapeva che quel prete, in fondo, non aveva torto.
Poi, ricordandosi della notizia che un momento prima gli aveva riferito
Giuseppe, per sondare meglio le idee di don Roberto, cambiò discorso.
«Senta Padre, mi parli un po’ della situazione qui in paese. Ho sentito, ad
esempio, di questo Granata ... sindaco», e gli posò una mano rassicurante sulla
spalla.
«Quest’aspetto», rispose ironico, «è il più bel regalo assieme alle giugamme.
Certo, gli Americani hanno dei meriti, ma non tutto quel che luccica è oro. Il
fenomeno Granata - chiamiamolo così, per intenderci - fa parte di un piano di
normalizzazione molto pratico, concreto, che bisogna studiare e capire ancora
meglio. Questa guerra ha cambiato, trasformato ogni cosa e anche … loro …
chiamiamoli così … non sono più quelli di una volta ...».
Salvatore e Giuseppe seguivano incupiti i discorsi difficili di don Roberto ed apparivano
anche increduli nel constatare come Pietro fosse a suo agio in quel dialogo
così complicato.
«Che significa quel loro, che la
maffia, secondo lei, è migliorata?», lo provocò Pietro, rimarcando la parola maffia fino a quel momento sottaciuta.
«Oh
… sia mai! Ho voluto solo dire che si è trasformata, ma la trasformazione non
implica necessariamente il miglioramento, specie in quel ... campo», rispose il
prete.
«Ho
capito … ho capito: il malaffare e la prepotenza sono sempre malaffare e prepotenza».
Don Roberto sorrise, si guardò in giro circospetto e abbassò il tono della
voce, iniziando un lungo discorso, come se ne sentisse il bisogno dopo ani di
solitudine. «È necessario capire che cosa realmente siano diventati, chi siano
effettivamente i nuovi capi: magari gente fino a ieri insospettabile. Questo
Granata, ad esempio, non credo rappresenti molto; direi che, piuttosto, sia una
specie di paravento, un fantoccio. A tal proposito», disse aprendo una
parentesi, «non fidarti di nessuno, non mettere troppo in giro le tue idee
senza prima aver capito chi ti sta intorno, ché può capitare che ti ritrovi
accanto amici che, magari, credi fraterni e poi scopri che sono... be’, mi
capisci! Questo non è un fenomeno qualsiasi: è una bestia viscida, sfuggente,
non si vede, ma c'è. Non è il fascismo: noi qui, loro lì, ma qualcosa di molto
più complesso e insidioso, da accettare quasi come un fatto naturale perché
cresce con noi, è dentro di noi, traspare in ogni tensione della nostra vita, nei
gesti, negli sguardi, nelle parole non dette».
«Non
credo, però, che tutti abbiamo il sangue infettato. Lei, ad esempio, non mi
sembra … e questo è già molto!», precisò Pietro.
«Non fraintendermi: è una questione complessa, un miscuglio di educazione, di
formazione, di presa di coscienza, di fame e di paura!», precisò don Roberto e,
volendo fornire un riscontro concreto alle sue considerazioni, ricordò della
fine miserevole, senza colpo ferire, riservata al potente Cesare Mori. «La
strada, dunque, è lunga e tortuosa: bisognerà iniziare dal capire quali saranno
i nuovi interessi, i nuovi equilibri, i nuovi riferimenti», concluse Padre
Lino.
«Certo, questo è chiaro», convenne Pietro, «ci sarà la fondazione del nuovo
Stato democratico, il governo, la politica, i partiti, la ricostruzione».
«Appunto, la ricostruzione!», ripeté Don Roberto e guardò l’orologio del
campanile in fondo. Si era fatto tardi.
Un passaggio del discorso del prete aveva particolarmente colpito Pietro:
"Granata un paravento, un fantoccio".
Pietro
era rimasto così profondamente impressionato dal contenuto e dal modo di
argomentare di don Roberto, tanto da chiedersi da dove fosse uscito quel prete
del tutto fuori posto.
Ma
il bello stava forse in un particolare che a Pietro non era sfuggito: era stato
il prete a sondare lui e non il contrario.
Pietro dai carabinieri non si recò quel giorno né in quelli successivi. In
realtà preferì “dimenticarsene”, essendosi in quei giorni più volte chiesto,
senza riuscire a darsi una risposta, quale Stato costoro rappresentassero in quel
momento. Si sentiva in un mondo svuotato. Il mare di contraddizioni da lui un
tempo confusamente percepite, ora sapeva leggerle come un libro aperto: la
lotta partigiana gli era stata maestra, gli aveva insegnato ad affrontare gli
eventi della vita e ad analizzarne i fatti. Altre angosce, inoltre, gli si
affacciavano: il pane, il lavoro, la precarietà di quella vita senza futuro che
avviliva e asserviva. È vero che prima della guerra c’era poco di che stare
allegri, ma ora la situazione si era fatta veramente pesante, complessa.
Salvatore gli aveva messo in corpo tanta inquietudine con quei discorsi sul
dilagare della prepotenza! Lo aveva informato, tra l'altro, sulle difficoltà
incontrate nella pesca, con le reti che, a furia di rammagli, si erano sempre
più rimpicciolite e indebolite. Ma ciò che l'aveva particolarmente allarmato
era stato il racconto dell’atto di prepotenza subito, una settimana prima, da
Vitu u Mutu.
Era accaduto che alcuni personaggi si aggiravano da qualche tempo nel porto con
fare tracotante. Un giorno Vito era stato avvicinato da uno di questi esemplari
che, con minacce, pretendeva la metà del pescato. Vito lo aveva mandato al
diavolo e la notte stessa la sua barca era andata in fumo. La miseria, dunque,
in tutti i sensi, si tagliava a fette. La lezione era servita: tutti, prima o
poi, si sarebbero docilmente piegati.
Pietro approfittò dei pochi giorni di plenilunio che ancora restavano per
ritrovare qualche vecchio amico tra quelli rimasti vivi o tornati prima di lui.
Era anche un modo come un altro per tastare il polso della situazione. La prima
importante visita la riservò, naturalmente, al vecchio Nino Sacco, nella sua
casa circondata da un piccolo appezzamento coltivato a limoni. Questa proprietà
non era altro che un piccolo podere cedutogli, non si sa a che titolo, dalla
baronessa Peralta, la cui villa, infatti, si trovava ad un tiro di balestra. Sacco,
d'origine contadina, vi viveva da qualche tempo in apparente solitudine.
Pietro,
appena giunto nei pressi del podere, lo scorse seduto su una poltroncina in
vimini all’ombra del grande carrubo vicino alla casa. In quel momento era in
compagnia di un militare americano, un carabiniere (giusto uno dei due della
notte del rientro) e un civile elegantemente vestito. Si dette una manata sulla
fronte e così, per evitare di dare spiegazioni al carabiniere di non essersi
presentato in caserma, pensò di accovacciarsi dietro un muretto a secco,
aspettando che se ne andassero.
“Ma cosa ci fanno quelli lì, con Nino?
Cos'hanno da dirsi?”, rifletteva Pietro nell'attesa.
Sacco fu felice di rivederlo. «Sapevo del tuo arrivo già fin dal primo momento»,
gli disse abbracciandolo come un figlio, «qui le voci corrono prima che i fatti
avvengano», aggiunse sorridendo per la battuta. Ascoltò con interesse il
racconto della sua esperienza, ma Pietro, per prudenza, non chiese nulla sulle
strane presenze che lo avevano preceduto.
«Vedi»,
disse Sacco ad un tratto, «io sono ormai vecchio e non so quanto camperò
ancora. Oggi ci siamo, domani che ne sappiamo ...?! Tuo padre, ad esempio,
l'avevo visto, avevamo parlato al mattino e poi la sera ... plaf! Però io,
almeno, la soddisfazione di vedere il fascio pinnuliari me la sono tolta». Fece
una breve pausa, si grattò il sopracciglio destro e proseguì: «Non sono
sposato, lo sai, non ho mai avuto figli e tu, qui, sei l'unico parente che mi
resta. Tutto questo che vedi, un giorno potrebbe essere tuo … Anzi, è già tuo»,
e, come soleva fare quand'era particolarmente teso o emozionato, ripassò
dall’alto in basso i pollici sotto le bretelle. Pietro, visibilmente
imbarazzato, gli rispose di lasciar perdere quei discorsi e cambiò subito
argomento. Era invece ansioso di sentire da lui, che idea aveva di quel
Granata.
Sacco sembrò irrigidirsi. «Guai a fermarsi alla superficie delle cose», spiegò
dopo un istante di incertezza, e si addentrò in un ragionamento strano,
contorto, che Pietro non s'aspettava e che mal digerì. «Vedi, ci sono stati e
ci sono gli Americani i quali, appena entrati, sono andati subito alla
sostanza. Non c'era ordine poiché mancava l'autorità che l'assicurasse. Niente
di niente. E loro, gli amici americani -che credi!-, già prima di partire e di
arrivare sapevano come e con chi ristabilirlo. Secondo te, che cosa dovevano
fare?», chiese a quel punto alzando un po’ la voce come a voler convincere se
stesso, «che cosa fare ... in questo gran bordello? Mettersi con la bilancia a
pesare le persone di cui non sapevano niente? Con Granata, invece, attraverso
il loro -diciamo così- servizio informativo, sono andati a colpo sicuro. Meglio
… che ... che ... che ...!».
«Che, che cosa?», lo provocò Pietro.
«… che una minchia di niente!», concluse l'altro, riassestandosi nervosamente sulla poltroncina. Cercò di prender fiato, ma l'enfisema, che da tempo l'affliggeva, non gli permetteva -soprattutto se si innervosiva- di dilungarsi troppo nel parlare e così Pietro colse il momento e s’infilò.
«Che, che cosa?», lo provocò Pietro.
«… che una minchia di niente!», concluse l'altro, riassestandosi nervosamente sulla poltroncina. Cercò di prender fiato, ma l'enfisema, che da tempo l'affliggeva, non gli permetteva -soprattutto se si innervosiva- di dilungarsi troppo nel parlare e così Pietro colse il momento e s’infilò.
«Vedo
che sai essere più realista della stessa realtà», commentò sarcastico, «parli
di ordine: bell'ordine con quei gran pezzi di mafiusi che ci hanno succhiato
sempre il sangue: a noi pescatori le barche e il pescato; ai contadini il
raccolto e le terre. Di quale ordine parli? di quello della povera gente o del
loro?», concluse indignato.
«Certo, io ... È evidente che l'ordine, quello voluto dagli Americani, assicura
agli ... amici certi vantaggi in cambio … una
manu lava l’autra e tutt’e due lavano la faccia … e, in questo senso, Carru
Granata offre le migliori garanzie! Ma è pure vero che i benefici, alla lunga,
sono per tutti. Il mondo è questo e sempre così sarà...!».
«Zzu Nino, il mondo noi e solo noi lo facciamo con queste mani e con queste teste, ma qui, ora, in questo cazzo di terra, non ci accorgiamo ... non vi accorgete che è il mondo che sta cambiando noi. Ma quali benefici, zzu Ninu! Così chi butta sudore e sangue la prende sempre
in quel posto! Ma che minchia stai riciennu, non ti riconosco più!», sbottò
Pietro.
Sacco, uomo non certo sprovveduto, dotato di una certa intelligenza, nella sua
vita ne aveva vissute tante di esperienze! Pur essendo semianalfabeta, sapeva
masticare certe frasi e giri di parole, grazie anche -come si sa- a una larvata
partecipazione alle lotte operaie dei primi Anni Venti a Milano e, sempre in
quella città, alla sporadica frequentazione di determinati circoli politici.
Era così riuscito a impadronirsi di certi fraseggi che adattava con maestria a
situazioni di volta in volta diverse: così riusciva a incantare anche i più
smaliziati. La reazione di Pietro al suo discorso, gli aveva fatto capire che
quel giovane ne aveva fatta di strada. “Forse
anche troppa!”, aveva pensato mentre l’ascoltava. Ma Pietro, da parte sua, senza
farsi incantare, si era già costruita un’idea abbastanza chiara sul “nuovo”
Nino.
Neanche
il vecchio operaio antifascista, dunque, sfuggiva a quel male pernicioso richiamato
da Don Roberto. Diceva, parlava, spiegava, ma il suo ragionare restava
aggrovigliato nell’ambiguità.
Pietro ebbe un’illuminazione: in realtà Nino non era cambiato per nulla. Era
lui, semmai, ch’era stato tratto in inganno dalla propria primitiva cecità.
Infatti lo ricordava sotto una luce molto diversa. A quel tempo, prima della
lotta partigiana, lo guardava con altri occhi, così come, allo stesso modo,
guardava solo in superficie la realtà sociale che lo circondava.
Sacco cadde in preda al solito tic delle bretelle e, tra un sali e scendi dei
pollici, rivolse a Pietro un quesito che suonò come conferma alle sue
impressioni. «Senti, c'era e c'è poco da
scegliere», disse, «o Granata, o i fascisti. Tu che avresti scelto?», concluse
con tono di sfida.
«Ma che dici, Nino …! che t’è successo? dovrei scegliere …?! scegliere cosa?
Non solo i signori decidono le guerre e ci mandano a prendercelo lì, ma … pure,
dopo … dovremmo scegliere tra un male e un altro. Sai che ti dico», aveva proseguito
accorato, «io la mia scelta l’ho già fatta e col vostro ordine ci vado al cesso».
Nino
Sacco accennò qualcosa, ma s’interruppe, proprio nel momento in cui, Gnaziu, un
campiere della baronessa, col fucile a tracolla, si avvicinò al carrubo. «Riverisco voscenza», fece l’uomo
togliendosi il berretto, «la barunissa cci vuole parrari di prescia e vuole
sapere quannu può venirlo a trovarlo».
Pietro lasciò Sacco sotto il carrubo
e quella fu l’ultima volta che lo vide e gli parlò.
Un
leggero vento di maestro si era alzato e in fondo, lungo l’orizzonte, stavano
addensandosi immense nuvole nere, segno di un imminente temporale.
Percorrendo
la trazzera che portava in paese, lo sguardo gli cadde a sinistra, al di là del
basso muretto a secco dove si stendeva un mare di spighe selvatiche agitato dal
vento. Nel suo bel mezzo, sballottato come rosso veliero, Pietro notò un unico
e solo papavero che svettava tenace. A tratti si inarcava per poi raddrizzarsi
avvinghiato alla spighe, ma non si spezzava … resisteva agli strappi del vento.
Pietro scavalcò d’istinto il muretto, raccolse il papavero, ne carezzò dal
basso verso l’alto il lungo gambo, sino a socchiuderne delicatamente nel pugno
i petali, quindi lo infilò in un taschino della casacca, proprio in quello all’altezza
del cuore.
I
discorsi di Nino l’avevano mutriatu. “ … La barunissa Peralta … boh …!
La baronessa che chiede di essere
ricevuta da Sacco, anzi da … voscenza. E poi la casa col terreno … com’era
riuscito ad averla? Questa è proprio bella”, continuava a riflettere, “proprio bella. Ma allora, Nino, un
insospettabile? E quell’americano col carabiniere? E quell’altro che sembrava
un signore?”.
Si sentiva un frammento di uomo, un ramo senza fusto. E
mentre s'inturciuniava in questi pensieri, decise di affrettare il passo per rincasare
presto a riflettere su quella sorprendente giornata.
A
poche centinaia di metri, appena superata la curva, scorse casa sua con la
chiesetta a fianco sul costone. Incrociò un carretto e si fece da parte,
lanciando un’occhiata alle colline. La nuova resistenza sarebbe stata ardua e
fece l’elenco mentale di quei quattro o cinque amici fidati che forse avrebbero
potuto condividere la sua nuova lotta. E ad un tratto gli passò nella mente,
come in un lampo, don Roberto. “Che
strano personaggio …!”, e cominciò a ruminare, sì, a ruminare, i discorsi che
gli aveva fatto quel giorno sotto il pergolato di casa sua.
L’aria intanto s’era addolcita, ma il maestrale spirava più forte: gli piaceva
resistergli con tutto il corpo mentre avanzava deciso.
Sul
terrazzino impergolato, comparve d'improvviso sua madre a ritirare in fretta il
bucato. Lo vide avanzare fiero come un eroe: le pareva un sogno che fosse
tornato sano e salvo dalla bufera del Nord, pur se la luce degli occhi non era
più quella d’un tempo. Ma sua madre vide pure oltre. Vide, al di là di suo
figlio, un sinistro luccichio fra le mani di un uomo acquattato e intuì tutto, come
solo una madre può. Si protese disperata, sventolando un fazzoletto, ma lui non
capì. E come avrebbe potuto!? Rispose al saluto, agitando la
mano, e mentre agitava la mano udì alle spalle un sibilo lontano. Non era il
fischiare del vento, ma il suono asciutto e traditore che lui ben conosceva. Con la mano difese, dalla furia del vento, la testa
del papavero sporgente dal taschino, mentre il sibilo si fece sempre più
vicino. Il magico fiuto del pericolo, che non l'aveva mai tradito, quella volta
non fece in tempo a mettergli le ali; a evitargli che la morte gli alitasse al
collo e l’arpionasse inesorabile come succede ai tonni.
*
* *
Interruppi per un istante la narrazione, aprii la carpetta e ne trassi un
ritaglio di giornale. «Questa volta», annunciai, «si tratta di un articoletto.
Come potete vedere, porta la data del 30 giugno 1945, pubblicato sulla Trinacria, un quotidiano di allora».
Contrariamente alle mie previsioni “catastrofiche”, gli studenti mi si
accostarono lentamente e, in un grande silenzio, lessi loro il titolo:
VILE RIGURGITO FASCISTA A TORRECHIARA.
EROE DELLA RESISTENZA ASSASSINATO IN UN AGGUATO.
IN CORSO LE INDAGINI DEI TUTORI DELL’ORDINE.
La
madre non resse al dolore. Il vento le aveva rubato il fazzoletto senza potersi
asciugare le lacrime. Rimase inerte per un anno intero, rattrappita come un
ulivo ritorto, gli occhi fissi in un punto lontano, e solo un lieve oscillare
di della mano.
EPILOGO
Qualcuno fece un cenno. Era Luciano detto Parfum
-ricordate?-
«Puoi andare», mormorai distratto.
«No, professore, non devo andare a gabinetto, vorrei solo dire una cosa su questa
storia ...».
«Vuoi dire qualcosa? Proprio tu?», feci sorpreso. Ma quel proprio tu mi fece sentire un verme. Tentai subito di rattoppare
con un saremo felici di ascoltarti,
ma la toppa fu peggio del buco.
«Lasci
perdere, professore … tanto so bene come la pensa su di me! Ma non è questo il
punto. Sa, ho riflettuto a lungo in questi giorni e mi è sembrato di scorgere
un filo di immutabile, disperata solitudine che unisce il destino di certi
uomini d’ogni tempo e luogo. La condizione, cioè, di chi, a un certo punto
della propria vita, scopre di esser fuori posto, un corpo estraneo nella
propria terra. In definitiva, non fu proprio questa la sostanziale condizione
umana riservata a quanti, combattenti per la Libertà, tornarono in Sicilia
dalla bufera del Nord? Me lo ha confermato mio nonno che fu ed è antifascista.
Nel migliore dei casi e per lungo tempo –mi ha detto-, qui da noi furono
additati come individui di cui diffidare».
Lo avevo ascoltato stupefatto. Ma lo stupore era solo all’inizio.
«Professore, in riferimento all’assassinio di suo zio Pietro e all’articolo
letto», intervenne Francesca, «vorrei dire che, secondo me, la verità, come
spesso accade in questi casi, è camuffata abilmente».
«Spiègati meglio, cosa vuoi dire?», la sollecitò Ruggero.
«Voglio dire che... la mafia è più abile di quanto si possa credere. Tutti in
paese sanno o intuiscono, ma ognuno -tranne rare eccezioni- preferisce schierarsi
con l'altra verità, quella più conveniente ... E il giornale che fa? pubblica
la “verità” che tutti vogliono sentirsi dire. E se ci riflettiamo ancora
meglio, è a causa di questa malattia sociale», concluse, «che si sono consumate
le più grandi schifezze, dallo sterminio degli ebrei, alle stragi dal
dopoguerra ad oggi …!».
«… dal giuramento di fedeltà al regime fascista dei pubblici dipendenti», la
interruppe Lia, «alle leggi razziali del '38».
«Come in un tacito gioco delle parti!», aggiunse Emilio.
«Sì, come in un tacito e - aggiungerei - corale, ipocrita gioco delle parti», rimarcò
Roberto.
Alle due in punto mi avviai alla stazione. Faceva un freddo cane anche a causa
del vento. Acquistai il solito quotidiano nella solita edicola e, mentre mi
avvicinavo al treno, sbirciai il titolo di prima pagina: “Prodi lascia.
Soddisfatti Rifondazione e Polo. Verso le elezioni anticipate”.
L'altoparlante annunciò il diretto per Trapani in partenza dal binario tre, con
fermata alle stazioni di Nicari, Torrechiara, Alcamo. La stazione, a quell'ora,
cominciava a sfollarsi e i vagoni, fermi lungo i binari, attendevano il fischio
del capostazione. Mi rinchiusi infreddolito in uno scompartimento, convinto di
aver seminato bene, d'aver lasciato segni duraturi tra i miei papaveri. In
quella settimana non m’ero più sentito con gli altri, accampando scuse su
scuse, anche le più inverosimili. La verità è che avevo avvertito il bisogno di
starmene solo.
In quei giorni, poi, mi era pure cresciuto dentro un confuso risentimento nei
confronti d'Irene. “E già”, pensavo,
“quando le situazioni si tendono oltre
ogni limite, si finisce inevitabilmente col far schizzare tutte le
contraddizioni”. Nello stesso tempo tuttavia non potevo credere, neanche
ipotizzare, che persone come Mario, Ignazio o - figuriamoci! – Franco, avessero
potuto commettere un atto di doppiezza così abietto. Li conoscevo troppo bene -o,
almeno, così pensavo- per crederli capaci di tanto. Eppure i fatti stavano lì,
incontrovertibili.
Alle tre, quando arrivai, ad aspettarmi davanti casa vi trovai Franco. Era
molto depresso. «Perché ci eviti …? cosa t’abbiamo fatto? che t’è successo …?»,
sussurrò.
L'osservai attentamente: era proprio giù, sembrava un cagnolino bastonato. In fondo gli volevo
ancora bene e lo invitai ad entrare. La casa era fredda, spalancai la persiana
per far prendere luce e avviai la stufa a gas. «Senti, ho un buco nello stomaco
e devo urgentemente tapparlo», gli dissi per rompere il ghiaccio, «mentre parliamo
mi preparo qualcosa... Immagino che tu avrai già pranzato».
«Grazie, ho già digerito».
Presi dal frigo una fettina di carne, misi sul gas il pentolino per gli
spaghetti e apparecchiai in due secondi. Tornai alla fettina, la rigirai nell’olio
d’oliva, la spolverai di sale e la passai sul pan grattato. Infine, con le dita
ancora impiastricciate, notai che Franco mi seguiva impaziente.: «Franco», gli
dissi a voce bassa, «guardiamoci negli occhi come sempre abbiamo fatto. Ci
conosciamo da una vita e ne abbiamo passate tante, ma tante assieme. Non posso
crederlo … non è possibile che uno tra voi abbia potuto far tanto».
Franco allungò lo sguardo attraverso la persiana a vetri. Il maroso scavalcava
il molo, facendo ondeggiare le barche come gusci di noci, mentre i pescatori
correvano indaffarati a destra e a manca a rinforzare gli ormeggi.
«Per loro», disse, «si prepara una notte d'inferno». Poi, non staccando gli
occhi dal porto, soggiunse. «Ci siamo dentro tutti, fino al collo. Ciascuno di
noi, che credi, dubita dell’altro!».
«Vuoi dire che tu, Mario, Ignazio, pensate di me ...?!».
«E perché? Tu che cos’hai di speciale rispetto a noi? Riflettiamo, piuttosto,
sgombriamo la mente dagli preconcetti come sempre abbiamo fatto nei momenti
critici».
«Momento critico lo chiami? Questo è un
momento di merda, altro che critico!», ribattei furente.
«Va bbe’ … va bbe’, è un momento di merda come tu dici, ma ciò non toglie che
dobbiamo ragionare. Per prima cosa escludiamo in modo tassativo che uno di noi
abbia potuto, diciamo così, parlare!»,
mi disse, tormentando un angolo della tovaglia, «altrimenti, porca troia,
veramente è tutto una fogna!».
«Girala come vuoi, Franco, il fatto è lì, palmare».
«E no Placido, tu lo sai bene, me lo hai pure insegnato: non tutto ciò che
appare vero è tale nella realtà. Proviamo a fare altre ipotesi. Io vi ho riflettuto
a lungo in questi giorni d’inferno, e sono giunto a qualche possibile risposta».
«Sì, capisco dove vuoi arrivare: non esisterebbe mai una sola verità, anche se
si tratta della più inconfutabile, come quelle che si sarebbero moltiplicate
nel caso in cui le foto fossero state mostrate alla luce del sole», risposi
sferzante.
«E io invece insisto, porco troia: è una pura ipotesi quella che sto per fare,
ma nessuno può impedirmi di credere -e
questo vale anche per te nei confronti di tutti noi- che possa essersi trattato
di una volgare messinscena orchestrata da te e Mario, o da Mario e Ignazio, o
da Ignazio e te ... o da te e Irene e così via con tutti i possibili
abbinamenti».
Lo guardai come a dire: “che stai
farneticando?”.
«No … no», mi anticipò ansioso, «non guardarmi così, non fraintendermi,
ascolta. Sono sempre nell’ambito di quella ipotesi. Si è orchestrata la
messinscena per ottenere questi risultati: primo, sottrazione dei negativi;
secondo: neutralizzazione di Irene. Se io ora ti confessassi, con aria
distrutta, con i capelli arruffati e la barba incolta che le cose sono
effettivamente andate così, tu mi crederesti senza ombra di dubbio. Ma le cose
non sono affatto andate così, e tu lo sai bene, porca troia!».
Borbottai qualcosa, spensi il fuoco sotto il pentolino che già ribolliva, riposi
in frigo la fettina panata e, per quel giorno, mi rassegnai a mangiare soltanto
un po' di pane con olive nere e caciocavallo.
«Be' …. ammetto che è … un'ipotesi, ma ciò non toglie che sarebbe stata in ogni
caso una porcheria».
«Certo, ma, devi pur convenire, meno porcheria dei sospetti veri, reali che
ciascuno di noi nutre nei confronti dell’altro, poiché, mentre la mia ipotesi è
solo surreale, ma possibile, il sospetto avvelena», ribatté.
«Questa è bella, adesso ti metti a fare il filosofo?», commentai sferzante.
Franco proseguì non curante. «La seconda
o terza ipotesi che sia, invece, è più complessa e delicata e riguarda … Irene.
In realtà si fonda su una sensazione che mi è baluginata e che, all’inizio, ho
ricacciato subito come un ghiribizzo della fantasia ...».
«Vai al sodo», lo sollecitai inquieto.
«Calma, calma, non è facile da spiegare. Comunque, ci provo: secondo me...
Irene, in assoluta solitudine», cominciò oppresso dall’imbarazzo, «potrebbe
essersi inventato tutto. Voglio dire che, in realtà, nessuno si sarebbe
introdotto nella sua villa, eccetera, eccetera».
Lo squadrai allibito. «Senti, sei fuori strada, caro mio, non intendo più
seguirti in queste cazzate ... Se ora, qui, fossimo in dieci, in quindici o in
venti, ciascuno avrebbe almeno una dozzina di idiozie da sciorinare!».
«Ascolta, porca troia, perché nasconderlo? Irene ha o non ha una personalità complessa?».
«Ma che c'entra tutto questo con le foto? Finiscila».
«Tu rispondi alla mia domanda», insistette.
A denti stretti ammisi solo in parte: «Non complessa»,
precisai, «esageri. Direi, piuttosto, spigolosa, a volte, magari, eccentrica».
«Be’, mettila come vuoi, ma io credo possibile», aggiunse, «che la sua
decisione, così teatralmente proclamata quel pomeriggio a casa sua, unita a
quell’ostinato e incomprensibile rifiuto di recedere, in realtà nasconda un
antico trauma, risalente, ne sono convinto, alla vicenda delle prepotenze subite
dalla nonna. Da qui il tentativo inconscio di mettersi alla prova, di misurarsi
con se stessa, in una specie di rivincita con tutto e tutti. Ma il fatto è che,
nei giorni successivi, in lei sarebbe presto prevalsa la paura, il terrore di
non riuscire a sostenere la prova nella pubblica piazza. A quel punto, se fosse
razionalmente tornata sulla propria decisione, ammettendo di avere esagerato,
non si sarebbe forse ritrovata sconfitta dinanzi a se stessa? Da qui il ricorso
alla messinscena: giustificare ai nostri occhi, ma in realtà a se stessa,
l'impossibilità del comizio con un impedimento oggettivo pur se artefatto».
«Senti, Franco, ti rendi conto che, secondo questa tua fantasia, Irene sarebbe
del tutto pazza? Altro che personalità complessa ...! Un caso da ricovero
urgente; anzi, visto che ci sei, potresti prenderla tu in cura dal momento che
sei così bravo a fare diagnosi».
«Ammetti almeno che anche questa è una possibile ipotesi».
«Ma benedetto Iddio, che devo ammettere: tutte le stravaganze, a questo punto
possono esser buone ... E va bene. Anzi: va male! Ma su quali elementi
oggettivi», soggiunsi esasperato, «basi questa specie di ipotesi ... o, meglio,
questa farneticazione?».
«Non escludo che sia farneticante, ma, allora, come spiegare il suo netto
rifiuto d’informare dell’accaduto i carabinieri? E poi ...»
«… E poi cos'altro?», lo incalzai incuriosito.
«Secondo te», riprese, «è normale irrompere in una casa, alle tre di notte,
armati, con calze di nylon in testa e guanti di lattice, senza per prima cosa
sabotare la linea telefonica? E invece, come ben sai, l’abbiamo trovata
perfettamente funzionante. E poi … e poi non è stata forse lei a sottolineare
quella mattina in tua presenza che eravamo solo noi cinque a sapere dei
negativi? Il suo racconto sapeva troppo di film! Hai notato? Le davano del lei
come dei damerini: esca i negativi, ce li
dia, e via di questo passo. Ma scherziamo? Non è credibile tanto riguardo».
«Ma è pur vero che, di contra, le risposte a questi tuoi indizi potrebbero
essere diverse e tutte coerenti: la verità qual è a questo punto?».
«La verità, l’unica verità vera, certa, concreta», rispose, «è che i negativi
sono scomparsi. Tutto il resto è … impalpabile …!».
Lo fissai. Lui ammutolì. Addentai il pane e un tocco di caciocavallo, ma non
riuscii a deglutire. Guardai fuori dalla finestra opposta al mare: la forte
pioggia del mattino aveva ripulito le colline.
«Sai Franco, giusto questa mattina, una mia alunna, un mio papavero, mi ha
ricordato che ciascuno di noi, un intero popolo, può, se vuole, costruirsi la
verità più conveniente … Se ci pensi è proprio vero, è proprio così e noi, qui,
oggi come ieri, ne siamo una dimostrazione».
«Un tuo papavero?! che significa? cosa vuoi dire?».
Risposi di lasciar perdere poiché sarebbe stato troppo lungo da spiegare.
Franco
tamburellò con le dita sullo spigolo del tavolo, aspettando il momento giusto
per andare. Poco dopo, non prima d’aver gettato un ultimo sguardo
lungo il molo, si avviò verso la porta senza fiatare. Un tremito lo colse, si
rinserrò nel cappotto, ma a nulla gli servì.
Attraverso i vetri velati di salsedine, lo intravidi svoltare in fondo alla
via, mentre il crepuscolo già sceso, sbiadiva d’intorno ogni cosa.
fine
_________________________________________________________________________________
COPERTINA di Salvatore
Calìa; Progetto grafico: PS ADVERT - Impresa di comunicazione –Trapani;
Fotolito: Graphis, Trapani; Impaginazione: Giovanni San Brunone; Consulenza tipografica:
Gaspare Fici; Stampa copertina: Lito Tipografia Abate - Paceco (TP).ISBN 88-87432-31-7 2000 © coppola editore – Trapani
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per il tuo intervento.