Mannalori e manna a Terrasini e Cinisi
di Giovanni Ruffino
AVVERTENZA: si tratta del testo (anni fa rielaborato e ridotto dallo stesso Autore) di una relazione presentata al Primo Congresso Internazionale di studi antropologici, del gennaio 1978. Ve la riproponiamo integralmente nella forma in cui l’abbiamo recuperata).
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I territori a
occidente di Palermo (da Capaci a Terrasini) furono nel passato assai rinomati
per la produzione della manna, cioè di quella sostanza zuccherina leggermente
purgativa che si ottiene incidendo il tronco del frassino.
La
coltivazione del frassino, la produzione e il commercio della manna
costituirono, fino dai primi decenni di questo secolo (NdR: cioè del secolo scorso), una delle attività prevalenti del
contadino terrasinese e tra le fonti principali di reddito. Oggi, questa
singolare e per molti versi straordinaria attività è del tutto scomparsa nella
nostra zona mentre sopravvive in un ristretto territorio delle Madonie, a
Pollina e a Castelbuono. Qui esistono gli ultimi depositari di una tecnica che,
pur fondandosi su pochissimi gesti e utilizzando un numero assai ridotto di
strumenti, sorprende per la straordinaria precisione e razionalità degli interventi
e dei ritmi di lavoro.
Per la verità
sono gli ornelli (fraxinus ornus), non
i frassini (fraxinus excelsior) i
tradizionali produttori di manna. Si tratta, è vero, di due varietà della
medesima famiglia, ma non sempre è possibile all’occhio inesperto distinguerle.
Mentre nelle Madonie vengono coltivati soprattutto i frassini, a Terrasini e
nelle zone limitrofe venivano utilizzati gli ornelli, chiamati in dialetto fràscini
(se vogliamo un po’ impropriamente).
ALCUNE NOTIZIE
SULL’IMPIANTO DI UN FRASSINETO
L’impianto e
la coltivazione di un frassineto, cioè di na chiana i fràscini, sono di per sé assai
semplici (il frassino è, in definitiva, una pianta spontanea); presentano però
caratteri di estrema razionalità laddove si tende al miglioramento del
prodotto.
Dovendosi
impiantare un frassineto si procedeva nel modo seguente:
a) si
cominciava, per lo più in estate, col predisporre il terreno ove effettuare il
trapianto delle pianticelle. Dopo avere estirpato le erbacce e reciso i
macchieti, la sterpaglia veniva lasciata disseccare sul medesimo terreno, finché,
all’inizio d’autunno, la si bruciava, lasciando il campo ben ripulito (abbruscatu) e al tempo
stesso fertilizzato dal sottile strato di cenere lasciato a bella posta. Quindi
si dissodava (si ciaccava) e
dopo qualche tempo si riarava (si rifunnieva),
dopo di che il terreno veniva lasciato riposare fino al tempo della
piantagione;
b) nel
contempo, nei mesi di ottobre-novembre, si raccoglieva la semente (simienza), cercando di
selezionare quella della migliore qualità;
c) una volta
raccolti, i semi si facevano asciugare e quindi si conservavano in luoghi
asciutti, dentro appositi sacchi e al riparo dai topi e dagli insetti;
d) tra
febbraio e marzo si predisponeva il semenzaio (a casiedda) dopo aver profondamente dissodato il
terreno ed averlo abbondantemente concimato;
e) la
semente si spargeva piuttosto rada, indi si copriva di terra leggera, e si
innaffiava (s’abbivirava);
f) le pianticelle (varvuotti, varivuotti) nate in primavera si lasciavano. crescere fino a gennaio, e in questo periodo si estirpavano le erbacce e si irrigava periodicamente sino al sopravvenire delle piogge autunnali;
f) le pianticelle (varvuotti, varivuotti) nate in primavera si lasciavano. crescere fino a gennaio, e in questo periodo si estirpavano le erbacce e si irrigava periodicamente sino al sopravvenire delle piogge autunnali;
g) intorno
al mese di gennaio si svellevano (si
scippàvanu) le pianticelle più robuste per trapiantarle nel
terreno già predisposto, mentre le più gracili si lasciavano ancora un anno nel
semenzaio;
h) trasportate con molta cautela sul terreno, le pianticelle venivano trapiantate (si chiantàvanu, si nfussunavanu) a una distanza di circa tre metri l’una dall’altra;
h) trasportate con molta cautela sul terreno, le pianticelle venivano trapiantate (si chiantàvanu, si nfussunavanu) a una distanza di circa tre metri l’una dall’altra;
i) a partire
dal secondo-terzo anno, le piante cattive venivano migliorate(s’ammuzzinàvanu) con
innesti (nziti) provenienti da piante di buona qualità (massari);
1) a partire
dal quinto-sesto anno si poteva cominciare ad incidere, dopo aver praticato
incisioni di prova.
L’ARTE DI INCIDERE (ntaccari)
E’ questo, in
effetti, il momento centrale di tutto il ciclo della manna, il momento in cui il
contadino diventa chirurgo.
Incidere la
corteccia dell’ornello o del frassino non è cosa facile, richiede scurezza di
gesto e l’esatta cognizione della profondità dell’incisione: un errore può
arrecare grave danno alla pianta.
Ma vediamo di seguire passo passo l’insieme delle operazioni.
Ma vediamo di seguire passo passo l’insieme delle operazioni.
Occorre,
anzitutto, che l’albero sia “maturo”; ciò si può vedere dal colore
delle fronde che tendono al giallo e appaiono asciutte e increspare: il
frassinicoltore, si soleva dire, munci a pàmpina, stringe nel pugno,
cioè, alcune fronde per verificarne il grado di maturazione. La prima fase
delle incisioni (generalmente sul principio dell’estate) esigeva particolare cautela,
ed era opportuno che l’agricoltore (o ntaccaturi) ne eseguisse alcune di prova.
Supponiamo ora che sia da
incidere (ntaccari) un frassineto ancora vergine, cioè del tutto esente
da incisioni. L’agricoltore si munisce di un apposito attrezzo, o cutieddu mannaluoru, e comincia ad
intaccare il tronco, praticando una prima incisione (ntacca, ntaccazza)
a pochi centimetri da terra.
Nel tronco si
distinguono quattro facce (quattru
facciati), ma solo due di esse sono destinate ad essere
coperte di incisioni. Vi è infatti una parte anteriore, chiamata pieno, una
posteriore, chiamata cuozzue vi sono due facce laterali, chiamate menzi
cuòzzura le sole a dovere
essere incise con incisioni oblique. Nel corso di una stagione si cerca di incidere
per intero una faccia del tronco, praticando un’incisione al giorno alla distanza
di circa 2 cm.
l’una dall’altra (con più incisioni contemporanee l’albero si mmriaca) e procedendo dal basso verso
l’alto (ri sutt’acchianari).
Nel primo anno
(a prima
annata) si incide la faccia (o menzu cuozzu) che guarda a
oriente (nfacci suli). Le
incisioni sono perfettamente oblique e tendono tutte quante verso quella faccia
del tronco (o piettu) solitamente
inclinata (abboccata). Praticata
la prima incisione nella parte bassa del tronco, ne scaturisce qualche lacrima
simile a rugiada, che, a contatto con l’aria, prende consistenza e rimane
attaccata sotto il taglio; la medesima cosa avviene quando si pratica la
seconda incisione poco più su, e poi la terza e così via, mentre le lacrime che
ne scaturiscono, colando giù, si saldano a quelle inferiori sino a formare un
lungo cannello di manna (a cannuolu). Il secondo anno si incide la faccia opposta (a menzu cuozzu o lato i l’ùmmira), mentre il terzo anno si
ritorna alla parte già incisa nel corso della prima stagione e che già, dopo un
anno di riposo, ha riacquistato linfa (s’arrisangau);
questa volta si praticano le incisioni tra le due precedenti (trasiennu a ncravaccari), curando
di spostarle leggermente in avanti verso la faccia anteriore (nta lu piettu ravanti). Si
procede così ad anni alterni, incidendo un anno a menzu cuozzu nfacci suli e
l’anno seguente o menzu cuozzu o
latu i l’ùmmira, facendo bene attenzione che ogni nuova serie di
incisioni venga a trovarsi sempre più spostata in direzione della faccia
anteriore (...nta u piettu ri ccà ravanti si l’av’a gghiri
manciannu aràciu aràciu picchì Io per’i fràscinu lu sangu l’avi ccà, e io un ci
pozzo iri tutto r’un cuorpu cca ravanti...).
E’ necessario -come
si diceva- che le incisioni si sviluppino obliquamente; incisioni non bene
allineate in senso obliquo non consentirebbero la formazione del “cannolo” e
la manna, colando, verrebbe a rapprendersi per tutta la parte incisa del tronco
(s’a ittassi càvusi càvusi).
Inoltre, prima di incidere tra due precedenti incisioni, si toglie
la scorza sollevata e ispessita attorno al taglio ormai cicatrizzato (si leva u sikku); ciò consente un più agevole
fluire della manna ed un miglior raccolto (...u per’i fràscinu av’a ièssiri liscio com’u piettu ri na signurina pi
ccuogghis’a manna...). Può accadere talvolta che il sopravvenire
delle piogge costringa l’agricoltore a sospendere in anticipo le operazioni di
incisione e di raccolta. La serie delle incisioni rimane così interrotta: la
porzione di tronco libera da intacchi (l’annata
lassata) verrà sfruttata l’anno successivo, sempre che il
tempo lo consenta. Quando la pianta è giunta all’ultimo anno di produzione ed è
ormai tanto fittamente incisa da non consentire più la normale incisione (nun puorta cchiù rregula di ntaccu), l’agricoltore
pratica tutta una serie disordinata di tagli laddove scorge una piccola
porzione di corteccia non ancora incisa: fiddulìa
u per’i fràscinu per trarne le ultime stille di linfa.
LA RACCOLTA
La manna
comincia a raccogliersi (si fa a
prima rascata) dopo otto, giorni (all’ottu iuorna) dalla prima incisione; si
prosegue poi, nel corso della stagione (luglio-settembre), con intervalli di
circa una settimana.
La quantità
complessiva di manna raccolta in un giorno è na cuota i manna, e non ha
tutta eguale valore. La parte più pregiata è etichettata come «manna in cannoli
o, in dialetto, cannuolu o,
talvolta, cosca d’a manna. Occorre
che il “cannolo” sia staccato dal tronco con grande delicatezza, curando che
non si spezzi. Normalmente si preferisce staccarlo incidendolo prima lungo i due lati, poi flettendo il tronco in
avanti con la mano destra, con la sinistra pronta a raccogliere il prezioso
“cannolo” nel momento in cui vien meno l’aderenza sulla corteccia.
Di qualità
inferiore è la cosiddetta “manna in rottami”, cioè quella che in
dialetto viene chiamata rruttami o sminuzzo. É costituita da frammenti
più o meno grossi attaccati alla corteccia, dalla quale si staccano (si ràscanu) con un
arnese simile a quello usato per incidere, ma più piccolo (cutidduzzu mannaluoru). Man
mano che i frammenti vanno staccandosi dalla corteccia, si lasciano cadere
dentro un apposito recipiente in legno, di forma ovale e munito di coperchio,
detto scatula. Per la
raccolta dei frammenti ci si può anche servire di un contenitore di sughero o
di corteccia, di forma concava, detto scruozza.
La qualità più
scadente di manna è quella “in sorte”, che in dialetto può essere chiamata miluoccu, o anche manna ammilata, manna ammiluccata, manna currenti. É
la parte di manna che, non riuscendo ad addensarsi del tutto sulla corteccia
specie quando la pianta è ricca di linfa (è ncurrenza), cola pian piano sino alla base del
tronco e si raccoglie dentro un cladòdio di ficodindia ben concavo (pala, palidda, pala cupputa) sistemato
lì appositamente; in ciò, la manna che scorre, è agevolata da una foglia (pinniedda) che, inserita in
un’incisione posta alla base del tronco, la devia dentro il cladòdio, evitando
così che si perda frammista alla terra e alle frasche.
Una volta
raccolta, la manna viene selezionata e posta ad asciugare al sole su un ampio
ripiano di legno (stinnituri,
tavulani) di forma rettangolare e talvolta munito di sponde (spaddieri).
Per consentire un perfetto
asciugamento, la manna viene di tanto in tanto mossa (si vuota, s’arrimina, si tramisca) affinché ogni sua
parte riceva la necessaria quantità di sole.
Una volta bene
asciutti, i “cannoli” si ripongono in capaci casse (casci) molto spesso provviste di vari scomparti.
La raccolta ha
termine con il sopravvenire delle prime piogge o, in ogni caso, quando le
foglie ingialliscono (aggiarnìanu)
e l’umore, brutto per colore e consistenza (bruragghia) scaturisce ormai a fatica.
CONSIDERAZIONI FINALI
Due
circostanze colpiscono particolarmente in questo splendido ciclo della manna:
le notti quasi insonni del “mannaloro” se le nuvole minacciano pioggia e il particolare rapporto tra l’uomo e la pianta che si traduce in un linguaggio carico di connotazioni affettive.
le notti quasi insonni del “mannaloro” se le nuvole minacciano pioggia e il particolare rapporto tra l’uomo e la pianta che si traduce in un linguaggio carico di connotazioni affettive.
É
l’intera famiglia che, nel corso dei mesi estivi e sin sulle soglie d’autunno,
è coinvolta nelle operazioni di raccolta. Anche i più piccoli partecipano; a
tale riguardo sopravvive ancor oggi una singolare espressione con cui ci si
rivolge ai ragazzetti con il moccio al naso: e cchi hai, i fràscini a mmanna?!
Tutta quanta la famiglia, dunque, sorveglia lo stato del tempo: ciascuno sa
bene che l’umidità troppo elevata, un’improvvisa burrasca soprattutto, possono
portar via in pochi minuti tutto il prodotto. Tutti quanti diventano così
attenti osservatori del cielo e se giudicano esser prossima la pioggia si
precipitano a raccogliere la preziosa manna a qualsiasi ora del giorno o della
notte.
Ben
si comprende dunque l’atteggiamento particolarissimo verso una pianta che dona
il suo prodotto soltanto se la ‘si sanga,
cioè se la si svena; con la parola sanga è infatti designata la
linfa che scorre negli strati corticali dell’albero: manna è soltanto nel momento in cui sgorga e si addensa.
Un
indovinello raccolto dal Pitrè si fonda proprio su tale atteggiamento:
Si
lu sagnu, mamma mia, lu sò sangu m’arricria.
E
un secondo indovinello ripropone con connessione ancor più emblematica
l’immagine dell’uomo ferito e del suo torturatore:
Iu
vitti ‘n omu frutu malamenti, Nta lu sò corpu multi chiaghi
avia; Lu patruni pri darci cchiù turmenti, Chiaghi supra li chiaghi cci facia.
Non
è un caso, perciò, se una terminologia propria del corpo umano designa le parti
del tronco destinate ad essere incise: u piettu, u cuozzu, a menzu cuozzu. E così, incidere un
frassino o un ornello, diventa un’operazione chirurgica da eseguire con i più
delicati riguardi: effettuare non più di una incisione al giorno, altrimenti
l’albero si mmriaca (si ubriaca) e stuona (tramortisce); alternare le serie annuali delle incisioni per
consentirgli di arrisangari, di riacquistar linfa; procedere verso il
“petto” con millimetrica progressione d’intacco anno dopo anno, picchì u
per’i fràscinu u sangu l’avi tuttu ccà.
Desidero
concludere, riferendo puntualmente le parole di un anziano frassinicoltore il
quale ricordava come, dopo la raccolta, all’ornello si dovesse detergere con
acqua la scorza ancor fresca di ferite e impregnata di residui manniferi: all’èbbica,
duoppu ca s’arricugghìa, lu per’i fràscinu arristava nchiappatiedda: allura si
cci lavava a facci pi llivàricci tutti ddi crusti, dda nfiammazioni, e cci
arrifrisca i carni.
A
Terrasini e Cinisi i fràscini sono ormai abbandonati da oltre mezzo
secolo. Castelbuono e Pollina rimangono, forse ancora per molto poco tempo,
l’unico luogo in Italia ove nei mesi estivi è consentito ancora di ammirare i frassineti biancheggianti di
manna.