di Marco Consiglio
Il racconto che vi presentiamo fu scritto intorno agli Anni Cinquanta e pubblicato sul famoso periodico locale "Gazzara" diretto dall'allora giovane ed indimenticabile Salvatore Favazza.
Marco
Consiglio, che ne fu l'autore, era un insegnante elementare emigrato da
giovane nel bresciano, dove insegnò per tutta la vita e morì
ultraottantenne a Brescia. Il racconto (una sua trasfigurazione in
leggenda) venne in seguito pubblicata a cura dello stesso periodico
"Gazzara" e dalla Pro Loco di Terrasini.
Il maestro Marco Consiglio (della vasta famiglia dei "Cannuni") restò
sempre molto affezionato al suo paese d'origine dove spesso veniva a
trovare, soprattutto nel periodo estivo, i suoi parenti ed amici.
Il libro è accompagnato da deliziosi disegni in china, opera dell'allora giovanissimo Prof. Filippo Castro.
(giuru)
Prefazione
di Salvatore Favazza
Non è una
favola. Ancora tra il settecento e l'ottocento i pirati turchi con le loro
scorrerie seminavano la morte ed il terrore tra le genti di Sicilia, provate
nel medesimo tempo da frequenti carestie, e da malattie che portavano in breve tempo
alla morte.
Facile
bersaglio fu il Borgo di Favarotta per la sua posizione a ridosso di una costa
a picco e varia di grotte, comodo nascondiglio dei pirati i quali di sorpresa
si avventavano poi sugli inermi borghigiani, depredando e saccheggiando.
Ritennero
opportuno i vecchi pescatori attrezzare le torri di Capo Rama, Alba, e
Molinazzo a difesa, dotando quella di Capo Rama di una colubrina, affidandola
ad alcuni volontari.
La colubrina a
Torre di Rama dava un certo senso di sicurezza, però il pericolo era sempre
incombente anche perché i turchi in diversi modi riuscivano a penetrare nel
paese.
In uno delle diverse scorrerie si
è verificata la scomparsa di un bambino e di una giovinetta. Il bambino ormai
grande, per interessamento delle Autorità locali dopo tanto tempo riuscì a
tornare, e per i suoi anni trascorsi in Tunisia ed in Algeria fu
soprannominato: « Turi lu niuru ». La giovinetta appartenente alla famiglia
soprannominata « Manta » non fece mai ritorno. Vi fu chi sostenne che i pirati
non riuscirono a rapirla, per la destrezza con cui « Amantea» seppe svincolarsi,
e che rimase nascosta sino a quando non morì, durante l'epidemia del colera.
Questi fatti,
hanno ispirato il nostro Marco Consiglio, ancora nella sua giovane età, alla
stesura della « Leggenda di Amantea » che solo ora vede la luce per
interessamento della Pro Loco di Terrasini nel suo precipuo compito di
valorizzare tutto ciò che è nostro, e ci appartiene.
Nel tratteggiare Amantea l'Autore
leva un inno ai nostri avi borghigiani, al loro coraggio, al culto che avevano
per la loro terra e per la famiglia ed al rispetto del sacro. « Raisi Turi » il
più vecchio marinaio della pura razza di Favarotta, visto il pericolo
imminente, organizza la difesa, il giovane « Pizzimenti », armato di un remo
affronta le scimitarre dei pirati. Amantea con le unghia e con i denti difende
i più piccoli, Pietro Moceri con la colubrina affonda lo «schifazzo n nemico,
Fra' Giuseppe benedettino, tiene in mano il Crocefisso, mostrandolo pietoso ai
pirati, cercando di rabbonirli, ((Turi l'orbu » suonando la campana della
Chiesuola della Provvidenza avverte il pericolo, ecc. ecc.
Non dimentica l'Autore le alghe
della Praiola, l'Alba di Mirceni, le conchiglie dai colori dell'arcobaleno del
nostro mare, la maestosità della millenaria Torre di Capo Rama, la suggestiva
bellezza della Grotta Perciata, della Cala Rossa, della punta Catalana, del
Monte Palmeto, ecc. ecc.
Marco
Consiglio coglie lo sp tnto per parlare del nostro luogo natìo e dei suoi
uomini, e vi riesce mirabilmente, ecco perchè non è una favola; e non ha
importanza se Amantea sia stata rapita effettivamente dai Turchi, o sia morta
di coléra. E' il coraggio dei nostri avi, sono le loro gesta atti a glorificare
il nome di Favarotta che hanno importanza, impedendo aipredoni di ridurre in
cenere i loro averi, ed agli spergiuri di violare l'innocenza dei giovani e
delle giovani, sino al supremo sacrificio.
Dalla lettura
dobbiamo trarne un insegnamento.
Con lo stesso
spirito dei nostri Avi, con lo stesso loro coraggio dobbiamo noi organizzare
la difesa dei nostri luoghi, ed imitando l'ardire di «Raisi Turi » e lo
slancio del giovane « Pizzimenti », dobbiamo noi affrontare i moderni « pirati
», coloro i quali vogliono rubare e deturpare la nostra costa, distruggere ed
annientare i nostri panorami, sfruttare Per i loro lauti guadagni il nostro
clima, il nostro mare, i nostri tramonti.
Occorre in questa difesa essere
uniti, ed ascoltare la campana dell'umile « Turiddu l'orbu », il quale avverte
il pericolo, e chiama tutti a raccolta per unire le forze e ridurre alla
ragione i ((pirati)).
Alla ragione
sono stati ridotti i veri pirati che sino al secolo XIX infestavano le nostre
coste, ed 'è storia, con gli stessi, ravvedutisi del male arrecato, sono stati
successivamente stabilità dei rapporti di lavoro con i nostri pescatori, degli
scambi commerciali, prestazioni d'opera e quant'altro necessario per una unità
di vedute nel miglioramento delle condizioni economiche.
Alla ragione
con le nostre opere, e con i fatti concreti, uniti e ben saldi, dobbiamo
ridurre i moderni « pirati », e lavorare insieme per uno ordinato sviluppo, e
con uno scopo ben preciso: mantenere e custodire le nostre bellezze naturali,
apportare a Terrasini quelle giuste innovazioni tali da elevare il tenore di
vita dei suoi abitanti.
Tornando alla
pubblicazione resta fra l'altro da dire che, dopo i versi scritti su Terrasini
da Cristoforo Madonia Perez, ed il cenno storico sulla Parrocchia Maria SS. Delle Grazie
di Mons. Francesco Paolo Evola, solo Marco Consiglio ha esaltato la sua terra
con la presente, e non soltanto scrivendo su un suo determinato periodo
storico, ma inserendo anche alcune usanze prettamente locali che ancora oggi si
ripetono con la stessa semplicità con cui ci sono state tramandate.
Sono
solo alcune delle usanze, e tra le più importanti, ne mancano diverse che
speriamo raccogliere e pubblicare, dopo questo primo timido tentativo.
Degne
di elogio appaiono, infine, le illustrazioni del giovanissimo concittadino
pittore Filippo Castro, che completano l'edizione.
Nel
concludere questa nostra breve Presentazione, sottoponiamo al giudizio dei
lettori: « La leggenda di Amantea », nella certezza che sarà apprezzata,
incoraggiando così le altre iniziative.
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Introduzione (dello stesso Autore)
Allo scaro,
ossia nel porticciolo, (siamo nel 1912) era giacente -e da chissà quanti anni
(nessuno lo sapeva) un'àncora di discreta mole- due quintali oltre a due pezzi
di catene di ferro della lunghezza di circa m. 50 l'uno e con maglie ed anelli
di congiunzione abbastanza consistenti, disposte e distese per terra, e per
tutta la larghezza dello scaro.
In una
casetta costruita nel 1882 nelle vicinanze di « Calaporri » già
proprietà Consiglio, trovasi una scala di legno massiccio che conduce al piano
superiore. Questa scala era stata ricavata dal legno di quella nave
(chiamiamola così) alla quale apparteneva l'àncora e le catene di ferro.
Sgabelli, bugliuoli, si trovano pure nella casa agricola dei Gusmano, e altri
utensili nello scantinato della casa del farmacista Catalano. Altri elementi
dello stesso legno, sono sparsi qua e là in case diverse. Questo veliero era
naufragato nel golfo di Castellammare? o forse, alla deriva, venne a sfasciarsi
sulle scogliere di Favarotta? o più ancora danneggiato dagli uomini di torre
Rama perchè legno pirata si era ricoverato a Cala Rossa, sottovento, per compiere
razzie durante la notte?
A tali
interrogativi nessuno ha mai saputo rispondere!
E ancora: I natanti alla deriva, o comunque in avaria nel
golfo di Castellammare non finiscono mai a Terrasini, ma a San Cataldo,
Trappeto, oppure in testa alle « punte » oltre Molinazzo, verso punta Raisi. E
ciò perchè le correnti sottomarine del golfo spingono sempre i natanti verso le
località sopradette (così dicono pure i pescatori di Terrasini). Infatti, nei
numerosi fortunali verificatisi nel golfo, i pescatori hanno quasi sempre
trovato salvamento spinti alla deriva verso Castellammare o in testa alle punte
oltre Molinazzo, e una volta anche verso il lido di Isola delle Femmine. Quindi
è da escludere che il battello si trovasse alla deriva per avarie che in
questo caso, sarebbe andato a finire a Castellammare o nelle rive oltre punta
Raisi. E se fosse naufragato molto al largo della costa o nel golfo, dove il
fondale è molto rispettabile, come potevano essere recuperate l'àncora e le
catene?
Nel tempo in cui avvenne la distruzione o il naufragio del
veliero, si verificò un fatto strano, commovente!!! La scomparsa di un bambino,
il quale molti anni dopo tornò a Terrasini quando era già un uomo maturo. E fu
soprannominato « Turi lu nìuru » che deportato in Turchia fece ritorno molti
anni dopo a Terrasini in seguito a ricerche e interessamento dell'allora
arciprete Cusumano.
Scompare contemporaneamente una giovinetta appartenente a
una famiglia soprannominata « la manta «, e in via Archimede infatti abitava
la zia Pitricchia la Manta e la za Ursula la Manta. La scomparsa di questa giovinetta
sembra inverosimile, pare invece sia perita durante l'epidemia di colèra che
funestò Terrasini nell'anno 1837. Da non confondere con la epidemia detta «
spagnola » avvenuta alla fine della guerra 191518. A conferma del colèra sono
ancora visibili (forse ora non più) alcuni scavi funerari di emergenza fuori e
poco distanti dall'attuale cimitero, verso la parte di levante.
Un vecchio pescatore, raisi Pizzimenti, afferma che il
bastimento era « pirata ».
In tutte queste supposizioni e voci incontrollate e incontrollabili,
di storico e di vero rimangono l'àncora, le catene e la figura reale di Turi lu
niuru. Certo è che eravamo in un periodo storico caratterizzato da atti di
pirateria, dal commercio inumano detto a tratta delle bianche » . E fu per
tale motivo che vennero attrezzate a difesa le torri presidiate anche da
volontari e la più munita era quella di capo Rama fornita di colubrina o
spingarda e, Marco e Peppe Cannone furono così soprannominati perchè
capi-posto alla torre.
La storia a volte, è il prodotto di compromessi o magari la
risultante di personali convinzioni. Ed io che non ho potuto raccogliere
notizie più precise, nel modesto intento di nobilitare e glorificare i miei
concittadini, che, a mio conforto rifulgeranno nella gloria più divina molti
anni dopo nelle eroiche gesta di Vincenzo Madonia, Benedetto Saputo e altri
ancora, ho creato la leggenda di Amantéa «. Chi era Amantéa? È il vezzeggiativo,
meglio il trasformismo del soprannome « la Manta », come prima ho accennato e
ciò per ragioni ovvie.
Cap.
I
Il sole, immergendosi lento e maestoso di fuoco nel mare,
era appena tramontato infiammando l'orizzonte soffuso di luce celeste che,
diradandosi nell'immensità del cielo, faceva vieppiù sentire il mistero delle
cose create. Non alito di vento alla Cala, dove la sera scendeva quieta e
sublime.
Pietro Mocèri, guardiano alla torre di Rama, era inquieto,
scrutava l'orizzonte, facendo con la mano scudo agli occhi contro gli ultimi
raggi del sole morente. Ma... strano! dove andava, di dove veniva quello «
schifazzo » che, doppiato il capo era entrato nel golfo? che arrancava incerto
a mezza vela? Mocèri senza perdere d'occhio la rotta del veliero, raccolse una
bracciata d'èrica e restucce, accese un fuocherello tra due pietre per
preparare la sua parca cena di cicòrie messe a bollire nella pentola di terra
cotta affumicata. Strano! dove va quel veliero? perché cambia continuaumente
rotta? Pensieroso, accigliato, mangiò in fretta la sua misera cena e salì sulla
torre.
A Castellammare si accendevano le prime luci della sera;
Favarotta, con le sue misere casupole si preparava al riposo, i tocchi monotoni
dell'Ave annunziavano la fine del giorno. Le mamme riconducevano a casa i più
piccini che erano riluttanti a lasciare
i giuochi preferiti della strada. Fra Giuseppe, benedettino, faceva ritorno
alla sua bàita chè era stanco; tutto il giorno tra i pescatori a confortare le
loro miserie.., e che avessero fede nella Provvidenza che non abbandona mai le
creature del Signore.
Raisi Turi, il più vecchio marinaio del borgo, carico
d'anni e di salsedine, raccontava con malinconica reminiscenza le sue avventure
marinare. Alle volte, diceva, il mare è buono, generoso, ci riempie le reti di
pesci e di speranze, ci culla dolcemente nel barcherozzo e riflette nell'onda
il chiarore misterioso della luna. Altre volte sembra che il golfo ci voglia
inghiottire, senza misericordia, senza pietà con le sue onde terribili,
rabbiose contro le scogliere! E una notte, per miracolo della Madonna, aveva
potuto sfuggire ai turchi che infestavano il golfo. Quella stirpe maledetta dei
pirati! che, sbarcando a terra a tradimento e di notte, depredavano nelle case,
uccidevano i vecchi, s'impossessavano dei fanciulli e delle giovinette per condurle
in catene al mercato d'oriente, venderli al « califfo » che destinava ai lavori
pesanti della màcina i giovani ridotti nella schiavitù e usava infamia alle
giovinette.
Mocèri con i gomiti poggiati sulla colubrina, con le gote
fra le mani non si rassegnava all'idea che lo schifazzo fosse in pacifica
navigazione. No, non ci vedeva chiaro! Infatti, due uomini col fazzoletto
annodato alla nuca, avevano calato in mare un « caicco » e con vogate vigorose
puntavano su Favarotta. Madonna della Provvidenza! Sono o no il capo-posto
della torre? Com'è vero che mi chiamo Pietro Mocèri, quello schifazzo lo mando
ai pesci. Accese il fanale di segnalazione e chiese conto al veliero
della sua rotta. Il veliero tace e il lume di prua è spento. Mocèri ripete
ancora i segnali. Nessuna risposta. Il caicco si ferma, sembra incerto
nell'andare, e ritorna lentamente quasi che i segnali di torre Rama l'avessero
dissuaso a proseguire! Mocèri stringe i pugni pieno di rabbia, accende il
focone, fa partire una salva dalla colubrina.
Cap. II
Lo squarcio di fuoco illumina per un
istante la Cala e il tonante boàto si perde minaccioso nell'eco lontano
dell'orizzonte. Torre Molinazzo accusa il segno d'allarme e col fanale di
segnalazione chiede notizie alla Rama; torre d'Alba e Paternella si dispongono alla difesa. I
pastori accendono fuochi curiosi tra Palmeto e portella di Mircène.
Gaetano, Gola cannone, Cicco Minneci
e Cilluffo che, al calar della sera usavan conversare nell'aia della casetta di
Peppe Spavento all'Agliandrone, odono la bòtta della torre, sussultano di meraviglia, si guardano attòniti.
L,a za Maria che stava accomodando il giaciglio d'èrica corre come forsennata,
chiamando in aiuto tutti i santi del cielo, batte le mani inebetita dalla paura,
ma non regge a un improvviso brontolìo interno dello stomaco.., e corre sotto
un fico d'india dietro la casa. Peppe Spavento dà fiato alla « brogna » e
chiama a raccolta gli uomini delle case Cusumano.
Alla torre, alla torre, con le armi, tutti alla torre, vogliono venire i turchi! Pietro Mocèri, con i pugni chiusi, t.rcnì ìtìtc d'ira, guarda con disprezzo il veliero, osserva la colubrina ancori fumante e si accinge a sparare un'altra salva. Lo schifazzo abbassa le vele, accende a prua il fanale di segnalazione, fa capire che trovasi in avaria, e cerca rifugio alla Cala per non andare alla deriva.
È quasi buio. Il cielo comincia a trapuntarsi di stelle. Il
mare è calmo, le onde lievi carezzano dolcemente le scogliere della « Catalana
» con mormorio misterioso che fa èco nel nostro cuore che sembra diventi
piccolo al cospetto della natura, e sentiamo più profonda la possanza del
nostro Signore Iddio. Quanto è meravigliosa la Cala anche di notte! Come è
buona la tua gente che campa di cicòrie, dorme nel giaciglio d'èrica e restucce
con la Fede nell'anima e con la speranza che si rinnova ogni giorno, al sorgere
del sole! Gli uomini armati di vecchi archibugi, zapponi e tridenti corrono
alla torre. Cespugli d'èrica e puntali di rocce rendono faticoso il cammino.
Hanno fretta, incespicano, cadono, si rialzano. Peppe Spavento che è vecchio, è
l'ultimo della schiera, arranca armato di roncola e incita con fiero cipiglio quanti
lo precedono « Avanti, avanti! i turchi non devono scendere alla Cala; li
faremo a pezzi! Sono neri? brutti? Somigliano ai diavoli armati di scimitarre?
Non abbiamo paura. A pezzi li faremo, e se li mangeranno i corvi, che sono neri
come loro. Il cuore della Cala non terne le infamie dei pirati. Presto, presto,
Pietro Mocèri è solo, e noi siamo in tanti, più di dieci siamo, e non abbiamo
paura. Qhi! Ohi!... Pietro Mocèri! dove siete? Accendete la lanterna, siamo
noi, più di dieci siamo. Abbiamo udito la bòtta e siamo corsi. Dove sono quei
tizzoni di inferno? Ecco là lo schifazzo! nero come la pece, sembra un
corvaccio, non si distingue bene, arranca a rimorchio del caicco. Dice che ha
guasti a bordo e cerca riparo sottovento. Bene avetefatto a venire, chè vuole
essere una notte di sorprese e di inganni.
Non hanno mai risposto ai miei segnali, credevano che alla
torre ci fosse un pupo di paglia. Hanno visto però che Pietro Mocèri non dorme
e ha coraggio! Dopo, hanno risposto.., che sono in avaria. Dobbiamo credere?
Potrebbe darsi, rispose Cilluffo, che siano marinai di Mazzara
o trapanesi che portano sale e quartare; non potremmo meglio assicurarci delle
loro persone e delle intenzioni che hanno? Non vorremmo ammazzare dei cristiani
per sbaglio.
Ma, sangue di Giuda, rispose Mocèri; che cristiani sono se
non rispondono ai segnali della torre? Siamo qua per aiutare, se occorre, anche
i naufraghi, e in questo caso vi dico che sono buono di gettarmi in mare a
nuoto per aiutare chi è in pericolo, che Pietro Mocèri, il cuore, ce l'ha di
cristiano. Ma quei mazzaresi o trapanesi che voi dite che siano... che marinai
sono?
Non chiedono aiuto, arrancano nel golfo sospettosi, a mezzi
vela, a lumi spenti, non rispondono ai segnali.., credono che Pietro Mocèri sia
nato nel nido della « cucca »?
Vi voglio raccontare un fatto che successe, ora sono venti
anni a San Cataldo, ai tempi della carestia, che una cucchiaiata di « farruni »
era tutto quello che si poteva avere ogni giorno, e la fame ci aveva fatto la
faccia di colore giallo. Sentite, sentite voi, e poi mi direte se ho ragione.
Uno schifazzo, nero come un corvaccio, cala l'àncora a
qualche miglio dalla praia di San Cataldo; mettono in mare un caicco con due
uomini.
Arrivano alla praia, si presentano al mulino di mastro Iàpicu lu russu che, poveretto, era
preso dalla malaria e dalla pellagra per amore di due tarì di guadagno per
campare con la sua famiglia. Che fanno questi due uomini del caicco? Domandano
piatusi (uno di questi parlava siciliano) per amore di carità e nel nome lodato
di S. Giuseppe, un pugnello di farina e qualche pane, chè sullo schifazzo si
moriva di fame.
Mastro
Iàpico, uomo dabbene, caritatevole e favarottaro di nascita, prende un paio di
chili di farina e li dà ai due poveri sconosciuti che non finiscono più di
ringraziare, benedire e complimentare la bontà di mastro làpico. E se ne tornarono
allo schifazzo.
Sul calare della notte, sapete che
succede? I due del caicco ritornano con un barcherozzo più grande e con più numerosa
compagnia! C'erano di quelle facce, come dicono, che mette-vario paura a u
satanasso».
Abbattono
il portone del mulino, fanno cenno a mastro Iàpico di stare zitto, pena la vita
e saccheggiano ogni cosa. Sacchi di farina e frumento, quanto altro vedono, e
portano tutto nel barcherozzo. Si allontanano dopo avere bastonato, in segno di
ringraziamento, il povero mastro Iàpico, che rimase in un canto più morto che
vivo!
Ma ce
n'era uno, avete detto, che parlava siciliano! Sissignore, così è. Dovete sapere
che questi pirati appena arrivano sulle nostre coste, acchiappano il primo
uomo che viene in taglio e lo obbligano, dopo ammaestramenti e minacce a fare,
come si dice, il pilota, l'interprete, per non 1 scandalizzare... la preda.
E quando
il pilota non serve più lo portano con loro nei paesi del turco, oppure lo
buttano in mare, ai pesci.
Ora io dico: dobbiamo credere come
tanti «allucconi» a questi che voi immaginate possano essere mazzaresi o trapanesi?
«Io li ficu mi li mangio fatti».
Pensiamo a
quello che si deve fare che già, come vedete, lo schifazzo, quello che ha fatto
sapere di trovarsi in avaria, sembra arrancare verso Favarotta. Presto, presto,
voi Minneci, Ciccu Caruso e Tanu Cusumano, andate ad appostarvi a Calaporri. E
voi Peppe Spavento che siete un po' attempato rimanete con gli altri alla torre
e stiamo a vedere come si mettono le cose.
Non sono
ancora vecchio, ribattè Peppe Spavento, e questa vita me la voglio giuocare
col turco e non morirò contento fino a quando, cori questa ròncola non taglierò
la testa a qualcuno di questi maledetti.
Cap. III
Mocèri
risalì sulla torre, diede uno sguardo alla colubrina, l'abbracciò commosso.
Hai fatto
sentire la tua voce, e gli uomini della Cala sono accorsi. Sono poveri gli
uomini della Cala, ma coraggiosi. La loro miseria è da sempre, mangiano le
cicorie e il pane duro... quando lo hanno! Sopra il giaciglio d'érica e di
restucce tengono la santuzza della Madonna e il Crocefisso e, prima di
chiudere gli occhi al sonno, dopo le fatiche della giornata, pregano: «
Signore, dacci oggi il nostro pane quotidiano... ».
E il
Signore lo dà, un po' duro sì, ma bagnato nelle cicorie cotte diventa buono,
santo e benedetto. Poi si addormentano nella beata speranza che un giorno, in
Paradiso, avranno più abbondante ricompensa! Vedi come è buona la gente della
Gala? E questi demòni scacciati dal cielo che vogliono venire a disturbare la
loro felice miseria quale diritto hanno di depredare, rubare le donne e i
fanciulli e venderli al mercato di oriente?
Tu,
colubrina, farai la vendetta! Ed io, Pietro Moceri..., chi sono io?
Non lo
sai? Quando ero giovane avevo le pecore a Palmito e di là vedevo maestosa la
torre. Sempre la guardavo e desideravo vederla da più vicino. Suonavo il
flauto di canna, e quando una pecorella si smarriva, correvo a cercarla, come
vuole ancora fra Giuseppe benedettino, altrimenti, la pecorella si perde e
finisce in bocca al lupo! E lo sai chi è il lupo? è la gente cattiva.
E quando
il colèra portò sotto la terra Maruzza e i miei figli, piansi molto, tanto
piansi perché rimasi solo. Ora sono alla torre, con te colubrina, e difenderemo
le pecorelle dal lupo.
Da quanti
anni è la torre? Forse da più di mille! chi lo sa? E son venuti da lontano e
dall'oriente e dall'occidente tanti stranieri in questi luoghi! cartaginesi, musulmani,
romani, francesi, spagnoli e altri ancora che non ti so dire quanti! E noi
sempre sotto, e loro a comandare, e noi sempre poveri e loro sempre ricchi e
prepotenti.
Ma un
giorno finirà questa cuccagna, te lo dice Pietro Mocèri.
Era già
notte; lo schifazzo rimorchiato da un caicco aveva di poco doppiato capo Rama e
arrancava verso la « Catalana ». Più oltre, nella piccola baia di Cala Rossa,
sotto il nido dei corvi, buttò l'àncora, si fermò, Santa Vergine del Carmelo!
ma che succede? Si apre una botola in coperta, ne escono tanti uomini brutti
come l'orco, dai capelli lunghi, dalle facce nere, armati di lance,
scirnitarre, matasse di cordami sulle spalle, coltellacci!
Formano un
drappello spaventoso. Calano in mare una scialuppa grande e vi prendono posto,
in silenzio, senza fare rumore. Sembrano diavoli fuggiti dall'inferno.
Ahi,
Favarotta, quale pericolo ti sovrasta! dormi paesello bello, saranno bruciate
le tue case? disperse le tue robe? Vi sveglierete, fanciulli innocenti,
sgomenti tra le fiamme chiamando la mamma per portarvi in salvo? Madonna della
Provvidenza, fà che la gente si svegli, che possa fuggire, fà, Madonna Santa,
che trovi riparo nel Tuo manto di Madre.
I pirati
alla Cala Rossa si dispongono in due drappelli; uno segue a piedi il sentiero
che conduce alla Praiola e l'altro, che ha occupato la scialuppa, costeggia a
forza di remi puntando, dopo la Punta Perciata verso i faraglioni e Mortaro
grande. Silenziosi, guardinghi, traditori, si avvicinano alla mèta... e torre
d'Alba non li avvista!
Svegliatevi,
giovani pescatori del borgo, fate fronte al tiranno, sorgi anche tu ràisi Turi
e comanda la riscossa ché tardi è l'ora e il tradimento è vicino. I due
drappelli pirati si congiungono alla Praiola, si dispongono minacciosi
all'offesa. al chiarore di certe torce di bitume. Ahi, razza iniqua, figli di
Giuda siete, figli di male femmine siete, maledetti!
Cap. IV
Amantèa!
Piangi
Amantèa che ne hai ben donde! gli occhi azzurri che ti ha dato in prestito la
Madonna, domani, inariditi dal dolore, non avranno più lagrime!
A piedi
scalzi, tra l'alghe della Praiola, con le chiome scomposte dal maestrale,
mettevi il barcarozzo in secca, chè raisi Turi non udiva il vento che
fischiava.
Bella come
l'alba di Mircène, come la rosa che sboccia al mattino di primavera, hai negli
occhi il mare. Attendevi in su la sera le paranze con ansia d'amore, con grida
di gioia, e tutti ti ammirano, e ti amano, chè di Favarotta sei l'angelo bello.
Il giovane Pizzimenti ti porta le conchiglie.., e sospira; e pure tu sospiri
d'amoroso affanno volgendo pudìca altrove lo sguardo e di vermiglio s'accendono
le gote. Oh, vergine sublime di Praiola perché sei così bella? Per non essere
nostra? E di chi sarai allora? Oh, quanta tristezza nel cuore pone il tuo
sguardo ignaro!
Vergini di
Favarotta, a voi il pianto non conforterà la pena! e porterete la corona
funerea alla Rama che vendetta fè contro il corsaro con la sua voce di rabbia e
di sgomento.
Piangi Amantea che ne hai ben donde!
Gli occhi azzurri che ti ha dato in prestito la Madonna, domani, inariditi dal
dolore non avranno più lacrime. A piedi scalzi tra l'alghe della
Mettete la vestina bianca,
fanciullette del borgo, tenete i piedini scalzi ne l'alghe di Praiola; là è
ancora il barcherozzo che Mantèa spingeva in secca quando c'era il vento che fischiava.
E il barcherozzo è pieno di
conchiglie! ora sono vostre. Baciatele; pure Amantèa le baciava nel sogno suo
d'amore.
In ogni conchiglia c'è Mantèa, il
suo cuore, la sua bellezza; ci sono gli occhi belli che le aveva prestati la
Madonna!
Alzate le manine all'orizzonte,
volgete lo sguardo al Cielo e vedrete la Madonna che piange nel suo manto
azzurro pieno di stelle.
Cap. V
I pirati,
con passi guardinghi, pronti a ghermire, assediano Favarotta. E' notte, il
chiarore pallido della luna si riflette tra i poveri casolari. Due uomini, in
esplorazione, si inoltrano per le stradette misere e bussano delicatamente alle
porte: «Aprite, siamo noi, amici siamo, gente di mare come voi. Abbiamo portato
sale e tante altre cose, siamo qui, allo scaro senza pane e olio; non avreste
un pane? Un po' d'olio? qualche zolfanello? Abbiamo del denaro, vi
ricompenseremo». Udendo accenti noti e sì pietosi, la buona gente della cala
apre gli usci e porge qualche pezzo di pane duro.
«Non richiudete sì presto le porte;
amici siamo, gente di mare come voi, non udite che parliamo come voi?».
Questi che
sembravano due masnadieri non erano pirati, ma vittime innocenti che, ai
pirati, dovevano ubbidienza, caduti come erano in ischiavitù e obbligati a
ingannare le vittime designate dalla infame progenie dei ladroni di mare.
Accattare
il pane, rabbonire con pietose parole, era un mezzo premeditato perchè i pirati
potessero sorprendere a tradimento le loro vittime, nelle case, di notte, prima
ancora che avessero il tempo di fuggire o prepararsi a una qualsiasi difesa. I due uomini che all'accento
sembra fossero mazzaresi non vogliono essere infami; determinano di liberarsi
dalla schiavitù e si dispongono in aiuto dei poveri oppressi; li avvisano —
con accenti coloriti che i pirati circondano già il borgo —.
Lo
sgomento pervade i poveri pescatori e in un baleno la triste nuova si sparge in
tutte le casette; si richiudono le porte in fretta. I pirati intanto entrano
minacciosi nel borgo e, vista fallita l'azione di sorpresa, mandano voci
rabbiose e si dànno a rompere porte, scassinare, incendiare, imprecare con
ruggiti inumani da ' fare raggelare il sangue. Alte si levano le voci
supplichevoli dei meschini asserragliati nei loro tuguri. Alcune casette
cominciano a bruciare e non hanno pietà alcuna i pirati, disposti a uccidere,
massacrare, se non consegnano loro i bambini e le giovinette!
Ràisi
Turi, dalla strada, chiama i giovani uomini alla difesa, e tutti accorrono
armati di remi, paletti di ferro e quanto altro capitasse utile a combattere.
Il vecchio ràisi, che tanti pericoli aveva affrontato nella sua vita, con gesti
risoluti delle sue braccia scarne, con voce tremante di rabbia, mari‑
naio di pura razza di Favarotta,
incita al combattimento, incoraggia mentre il suo grande cuore palpita d'amore
per la sua gente.
Pizzimenti
il giovane e tanti altri generosi sono tra i primi ad affrontare il nemico. La
lotta si accende furiosa, spietata, e i marinai di Favarotta non devono
lasciare che i pirati portino lontano i bambini, le donne!
Non fugge
Amantèa; discinta, scalza, piena di furore, con i capelli scomposti, fa scudo
col suo corpo ai fanciulli atterriti, pronta a unghiare chi volesse recarle
offesa. Scorge il giovane Pizzimenti nella mischia e s'infiamma di coraggio e
più d'amore. La campanella del santuario della Provvidenza suona nervosa, chè «Turiddu
l'orbo» è corso a chiamare aiuto e dà strappi vigorosi alla cordicella. Per i
pirati le cose volgono al peggio; fallita la sorpresa, hanno un momento di
incertezza, di viltà, e il giovane Pizzimenti con furore e disprezzo li colpisce
con un tronco di remo e ne manda parecchi al diavolo col cranio a pezzi.
Il
terrore, il fuoco, le grida di dolore delle donne e dei bambini, l'acre odore
delle case che bruciano, riempiono il borgo di sgomento. Fra Giuseppe
benedettino, ode lo scampanìo della Provvidenza; si sveglia, sporge fuori dal
finestrino della sua bàita il capo bianco e raso, intuisce il pericolo e corre
balzelloni al borgo: alza gli occhi supplichevoli al Cielo, tiene in mano il
Crocefisso e-Lo mostra pietoso, ai pirati. Ma questi non deflettono dal loro
infame proposito di impadronirsi delle donne e dei bambini.
Ah, razza
di vipere, non li avrete i nostri bambini! Sempre più infuria la mischia; i due
uomini di Mazzara si ribellano ai loro tristi padroni e dànno man forte ai
pescatori del borgo. Ràisi Turi con sempre crescente furore rianima i suoi uomini
con fronte al periocolo e minaccioso nel gesto. Povero vecchio! Marinaio di
razza pura, vittorioso di tante tempeste nel golfo, non regge allo scempio del
suo borgo; raccoglie i suoi sforzi in un supremo anelito di vita e... cade
a terra supino! Gli si era schiantato il cuore! Fra
Giuseppe ne raccoglie l'ultimo respiro e lo benedice. Pace a Te, ràisi Turi,
nella gloria del Signore troverai ricompensa, nella tua tomba lambita dal mare,
sempre e sempre udrai il pianto della tua gente e il mormorio de l'onde
placate del golfo misterioso.
Mercurieddu,
il bambinello orfano, con la carnicina breve e i piedini scalzi ne la terra
che scotta, con gli occhi lagrimosi, esterrefatto, chiama anche lui: «Mamma,
mamma!».
Non
comprende quale pericolo lo sovrasta! Un pirata lo ghermisce, ma Amantèa, come
leonessa.; si avventa contro il pirata, gli conficca al collo le sue unghia
forti, lo morde alle mani, al viso, perchè lasci il bambino. Ma ecco altri pirati
in un baléno circondano Amantèa, l'afferrano per la cintola e la portano a
viva forza a riva, sul caicco nero. Apriti cielo,
Amantèa è perduta.
Cap. VI
Pietro Mocèri veglia sulla torre;
presago di sventura, fa buona guardia. Volge lo sguardo alla luna, scruta
l'orizzonte... che? Molinazzo trasmette segnali di pericolo? Si stropiccia gli
occhi, aguzza lo sguardo; un sinistro bagliore verso Favarotta? Ah, sangue di Giuda!
Si batte le mani sulla fronte. Figli di male femmine siete, eravate in avaria,
eh? Si morde le mani, trema di rabbia. Ehi, Peppe Spavento, svegliatevi, salite
subito sulla torre, che vuole essere l'ultimo giorno della mia vita. Impugna
le maniglie della colubrina, fa partire una salva in direzione della « Praiola
» ed altre ancora oltre Cala Rossa.
La
colubrina è infuocata, il calore fa sudare Pietro Mo-ceri che senza camicia a
torso nudo, forte e bello, dominatore di Rama, si erge vindice degli oppressi
mentre la torre sussulta e il boato degli spari si perde minaccioso nel mare.
Gaetano e
Cola Cannone, Cicco Minneci e Cilluffo, già appostati a Calaporri, intuiscono
il pericolo convinti che i pirati siano sbarcati a Gala Rossa. Al chiarore
della luna, con passi lesti, si portano sul « nido dei corvi».
Lo
schifazzo nero è ancora là, ormeggiato sotto il nido dei corvi; le sentinelle
fanno a bordo misteriosi segnali luminosi e attendono i compagni della
infame spedizione per salpare col bottino. Minneci e Cilluffo fanno rotolare
dall'alto grossi pietroni che si abbattono sullo schifazzo e le schioppettate
degli altri uomini della Cala sono micidiali. Per sottrarsi al pericolo, i
masnadieri tirano l'àncora a bordo, levano gli ormeggi e si spostano più al
largo oltre la sporgenza della Catalana.
Pietro
Mocèri tra il balenio degli spari distingue lo schifazzo pirata e, con
micidiali, assestati colpi di colubrina, gli apre uno squarcio al fianco e lo
affonda! Bravo! viva Pietro Mocèri!
Sangue di
Giuda! Ti ho mandato ai pesci, finalmente! Razza di vipere siete. E il
coraggioso guardiano della Torre, stanco, tremante, nero di fumo, piange di
gioia.
Favarotta
è in fiamme, la pece che riveste i barcherozzi esala un odore acre e fumo che
punge gli occhi e mozza il respiro. I pirati, sconfitti, volgono in fuga, e per
il sentiero che costeggia la Praiola, corrono verso Cala Rossa, alla loro base,
dove lo schifazzo attende, seguiti da Pizzimenti e altri animosi
che li tallonano minacciosi.
I due del
caicco tengono strettamente Amantèa, si staccano dalla riva dello scaro,
doppiano la «Punta» e si dirigono, anche loro a Cala Rossa.
Amantèa, prigioniera, manda voci di
terrore, vuole lanciarsi in mare ma non riesce a svincolarsi dalle manacce
nere e viscide di uno dei masnadieri che la tiene quasi inchiodata sul fondo
dei caicco mentre l'altro, con ghigno satànico, dà forza ai remi.
I pirati,
arrivati a Cala Rossa, incalzati da presso da Pizzimenti, tra il chiarore
delle stelle e al lume di una torcia di bitume si accorgono con terrore e
perplessità che lo schifazzo è stato affondato!
Nella loro estrema disperazione si
organizzano, senza coraggio e speranza, alla difesa, ma vengono tosto
sopraffatti dagli uomini accorsi da Calaporri e da Pizzimenti.
Giustizia
è fatta; a colpi di pietra vengono uccisi i pirati che restano insepolti alla
mercè dei corvi. I due del caicco si fermano vicino allo scoglio grande e,
visto impossibile ogni approdo senza il rischio di essere uccisi, puntano al
largo tra lo sgomento di Amantèa che manda grida strazianti invocando aiuto!
Pizzimenti, l'eroico marinaio vincitore di Favarotta ode la voce amata; si
butta in mare, a nuoto, con vigorose bracciate raggiunge il caìcco e si
aggrappa allo scarmo. Ahimè! un vigoroso, infame colpo di ferro acuminato
vibratogli da uno dei pirati gli squarcia il petto e il sangue esce a fiotti
dal cuore trafitto.
Vermiglio
diventa il mare. Il suo corpo inanimato galleggia sulle onde che lo spingono
verso lo scoglio grande. Amantèa perde i sensi e si accascia, derelitta e
sventurata, in fondo al caicco. Gloria a te eroico, nobile marinaio di
Fava-rotta, che per il tuo amore sacrificasti la vita in un supremo palpito
d'affetto. I1 tuo nobile cuore cessò di battere nell'att imo ultimo, supremo,
della vittoria che doveva coronare con gioia infinita il bel sogno tanto
accarezzato nel misterioso golfo quando la luna con i suoi raggi d'argento ti
faceva felice nell'attesa di rivedere Mantèa che t'aspettava pudìca e raggiante per ricevere le conchiglie
che tanto le piacevano a significazione infinita del suo ricambiato amore.
Ah, si! di
quell'amore che rende divine tutte le cose e fa santo e benedetto ogni
tormento. E dallo scoglio grande di Cala Rossa che sarà la tua tomba, marinaio
infelice udrai nel mar che mormora i sospiri di Amantèa dal suo luogo di pena,
in terra straniera e brutale, tra mercanti di schiave, profanatori del divino
tempio dell'innocenza.
Cap. VII
L'alba
spuntava cinèrea, greve. Mircène velata di foschia caliginosa nasconde il bel
rosso del suo mattino. Il mare è plumbeo, quieto. Le onde brevi, svogliate,
malinconiche, lambiscono le scogliere con mormorio di stanchezza e languore.
Mortaro grande e faraglioni di Praiola sembrano monumenti funerei che
rattristano vieppiù lo scenario immenso del mare. La povera gente turbata
dall'infausto scompiglio e terrore della notte trascorsa, singhiozza
sommessamente, prega e si avvia sopra la «Punta» dello scaro. Tutti si
inginocchiano compunti, con le mani incrociate sul petto, e pure i fanciulli,
aggrappati alle vesti delle mamme sentono il dolore della tragedia che sta per
compiersi.
Un punto
nero nel golfo si allontana sempre più allo orizzonte. Fra Giuseppe,
benedettino, compreso da tanta sventura, affranto da tanto dolore, incede a
passi lenti, stentati.
L'umile,
santo vecchio, è tra i suoi poveri pescatori, con i suoi derelitti che tanto
ama, che tanto ha sempre amato!
Porta nella mano sinistra il
Crocifisso rivolto all'orizzonte e, giunto all'estremo limite della Punta, con
gli occhi velati d'infinita tristezza, così prega: « Madonna, madre di Gesù, che fra le donne sei stata la
più dolorante, proteggi Amantèa, coprila col Tuo manto di Madre celeste, fai
che la poverina, nel suo supremo sacrificio, abbia il Tuo conforto, non le
venga meno la speranza del Tuo regno glorioso» .
E
nell'istante che il pio frate benedice con gesto solenne l'orizzonte lontano,
Amantèa scompare verso «Santo Vito Lo Capo». Turiddu l'orbo, compreso da tanto
strazio, si aggira inconsolabile tra la folla piangente. Con gli occhi suoi
spenti, vaga col pensiero lontano, verso tristi luoghi, nello orizzonte senza
fine, quasi a cercare una meta, una fine al suo rimpianto. E si contorce in uno
spasimo interno, il povero cieco! Mischinedda! mischinedda! Dove la porteranno
Amantèa? Che le faranno? E trema, e stringe le mani convulse, tanta è la pena
che trabocca dal suo cuore! Domani riprenderà la sua canna e per le vie della
Pietà, in nome di S. Giuseppe, accatterà il pane che dividerà con la sua mamma
vecchia e con i bambini affamati. Povero Turiddu! grande nella tua sventura
perchè vedesti mai questi luoghi natali, incantevoli di Favarotta, hai pur
tanto pianto per la gente della Cala!
E la sera,
i fanciulli verranno a te per udire le fiabe e la storia miracolosa del
Signore. E dirai pure: «C'era una volta una fanciulla bella come l'alba di
Mircène, come la rosa di maggio; aveva negli occhi il mare e voleva tanto bene
ai fanciulli. Un giorno, triste giorno, i pirati la rapirono e la portarono
lontano.., lontano! Si chiamava Amantèa!» E allora un groppo alla gola ti
impedirà di continuare...!
... E poi
lascerai la canna che unica possedevi e te ne andrai per il sentiero della
Speranza e fino al regno : della Beatitudine. Ràisi Turi, nell'aureola di luce
divina verrà a te incontro, ti prenderà per mano come solèa quando il tuo
passo incespicava tra l'èrica e le pietre della Cala.
Ma gli
occhi tuoi non saranno più spenti, fari luminosi saranno, riflessi di perle
divine, e vedrai lagente del borgo, il golfo e questa terra che amasti sarà da
te benedetta per avere fragranza di pane divino. E nella grande strada luminosa
del Paradiso soffusa di mille luci, cosparsa dì conchiglie di Cala Rossa,
gelsomini e petali di rose, vedrai Amantèa bianco vestita, con la zàgara nelle
trecce, accanto a Pizzimenti raggiante di gioia. Fra Giuseppe, benedettino, con
la chioma d'argento con i paramenti sacri delle grandi solennità li benedice
nella unione celeste, così, come vuole il nostro Signore che dà sempre il,
premio agli oppressi, ai sofferenti che hanno sperato nella Sua immensa bontà e
giustizia.
Cap. VIII
Nel mare di Molinazzo o lì da presso
c'è una città sommersa. Si chiama Iccara. Da molti secoli è sommersa! Quando
sprofondò, non tutte le sue case rimasero distrutte che anzi una piccola
magione, rimasta incolume, venne di poi abitata da una sirèna: metà pesce e
metà donna. Le pareti di questa piccola magione sono rivestite di conchiglie
che mandano una luce soffusa di tanti colori che riflettono quelli dell'Iride.
Ogni tanto, la sirèna, quando è malinconica e le notti sono stellate, esce dal
suo rifugio dorato e nuota guizzando nel mare.
Una notte,
nel golfo, i pescatori udirono una voce di richiamo: Ohòo, ohòo! Il mare mosso
diventò « bonaccia)) e le reti si riempirono tosto di pesci! Oh, meraviglia!
Tra l'onde placide, soffuse di luce argentata videro il busto di una fanciulla!
Bella come l'alba di Mircène era, come la rosa di maggio, e nuotando guizzava
attorno ai barcherozzi. Chi era mai? I pescatori meravigliati per tanta
benefica, fulgida apparizione, tornano allo scaro descrivendo stupefatti la
bella visione avuta.
Oh, ohoo!
E la voce di richiamo si ode poi alla Punta, a Mortaro grande e ai faraglioni
di Praiola. Eccola a Cala Rossa; siede sullo scoglio grande e i suoi
capelli brillano di rugiada marina. Piange la sirèna sconsolata e pietosa, che
in quel mare... Pizzimenti suo trafitto giacque». Poi ancora nuota verso la
Rama - «Ohòo, ohòo!» - Nessuno risponde. Pietro Mocèri, l'ultimo cannoniere
della torre è polvere e gli uomini della Cala sono muti sotto la terra che li
ricopre. Tutto è desolato! Solo l'èrica è il verde fra tanto squallore. E tu,
rovini al suol, torre di Rama?
«Ora t'addormi
gloriosa torre,
Non odi il pianto di
Sirena bella,
D'Amantèa il sospir
... che placa l'onde»
FINE