sabato 18 febbraio 2012

IL PARTIGIANO TURI-TURÈ



Breve storia del carrettiere Salavtore Palazzolo che nel 1943 finì quasi per caso tra i partigiani comunisti jugoslavi di Tito 


di Enrico Musso




      La presente testimonianza è stata raccolta diversi anni fa dallo scrittore palermitano Enrico Musso, poco tempo prima che Salvatore Palazzolo morisse. Musso, residente per qualche tempo a Cinisi, era alla ricerca di storie di carrettieri allorché si imbatté in Turi Palazzolo (da me conosciuto in precedenza).    
     Entrai casualmente in contatto con Enrico Musso (di cui in seguito ne ho perso le tracce) e, conversando della ricerca da lui condotta, mi citò il caso di Turi Palazzolo di cui aveva fedelmente trascritto la straordinaria esperienza di vita. In occasione, poi, di un 25 Aprile di diversi anni fa (Palazzolo ormai morto), chiesi a Musso di mettermi a disposizione lo scritto per inserirlo (in parte) in un opuscoletto comprendente le imprese di ex partigiani terrasinesi.
   Oggi, a distanza di tanto tempo, ritrovo fortuitamente il magnifico testo che ho riletto con emozione ed immutato interesse. Come non proporne una pubblica lettura?!

giuru

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(… ) Mi accolse con un sorriso e una simpatia unica. Gli dissi chi ero e cosa desiderassi. Dall’aria che aveva in faccia si sarebbe detto che c’era delusione; gli chiesi cosa fosse a suscitargli la faccia grevia. Mi rispose che era stato contadino e carrettiere poi nel ’40 andò in guerra e tornò nel ’45, aveva fatto il partigiano titoista; congedato tornò e rifece il carrettiere sino a quando non andò in galera. Parecchi giornalisti in passato si interessarono alle sue vicende di guerra e lui stesso non si capacitava come gente di fuori conoscesse le sue storie. «Poiché lavoravo», mi disse «non disponevo di tempo da poter dedicare a queste brave persone. Ora viene lei ed ho smesso di lavorare per vecchiaia quindi sono a sua disposizione». Gli dissi che non ero un giornalista, che mi piaceva per mio diletto fare ricerche sui carretti e sui carrettieri siciliani, che nella fattispecie parlare con persone che se ne intendevano di friggere e di arrostire, cioè di notevole competenza. Era una forma per dire con gente pratica in quanto intuivo che mi avrebbero arricchito con il loro patrimonio, delle loro esperienze, dei loro ricordi. Quello tra noi non sarebbe stato un purparlè  per perdere tempo, un purparlè di scarso valore, bensì una testimonianza con i fiocchi per cui parlare più di guerra e meno di carretti a me andava benissimo poiché era la vita dell’uomo la cosa veramente importante. Avrei scritto avidamente una storia senza miti, senza consolazione una storia di una vita dura in una guerra feroce. Prendemmo appuntamento per il giorno seguente.


Nel pomeriggio vidi il comm.re Giuseppe Anania, mio amico, col quale avevo il privilegio di quotidiane frequentazioni. Gli dissi che per la stesura del mio nuovo libro, pigliavo spunto, come cose da raccontare, la vita di un certo Turiddu Palazzolo ex carrettiere, ex partigiano, persona che al primo contatto mi era parsa notevole. Anania rimase sorpreso e, quando confermai che Turiddu era stato in Jugoslavia mi disse con tono trionfoso che era Turiddu detto per inciuria Turi Turè. Lo nciurio da noi non è un’ingiuria, come potrebbe apparire, ma un soprannome di connotazione per esempio: Totò u paracquaru risale al suo bisnonno, che consava ombrelli, il nonno come il padre ed infine Totò, che poteva essere medico o ingegnere capo del comune, era Totò u paracquaro della ultima generazione, poi se si chiamasse Virga o altro era secondario.
Turi Turè era comunque una nciuria simpaticissima.
            Nientemeno Turi Turè aveva lavorato con la famiglia Anania dalla metà degli anni trenta sino al 1940 cioè sino allo scoppio della guerra scellerata che coinvolse il mondo.
            Era un ragazzo simpaticissimo, rispettoso, lavoratore mi diceva il mio amico, incline alla risata, che modellava la sua fisionomia e sapeva contagiare gli altri. Ci conoscevamo nell’intimo tanto che mio padre lo considerava tra la gente di casa. Gli piaceva prendersi in giro, quando cominciava a ridere era il segnale di comunicazione che ci dava per ridere con lui, un certo vivere ridereccio maturava tra noi, tra mio padre, io stesso e le mie sorelle; poi ci diceva il fatto, non sempre vero, ma comunque pittoresco e gustoso. Una volta si fece fare delle scarpe su misura, gli risultarono lunghe per sbaglio del calzolaio; non si arrabbiò, anzi, diceva: arrivano i piedi prima di me, preannunciando la mia presenza. Neppure la guerra spense il suo riso, ci venne a trovare in uniforme per salutarci. Ridendo ci disse: «Andiamo a sciropparci questa ringata di bombe». Cioè andiamo a subire questo filare di bombe. Filare, allineamento di alberi da curare, zappare, potare, abbeverare. Estendendo il concetto era una metafora per dire un lavoro come un altro realizzato forse sotto le bombe da fare senza aria catastrofica anzi, dava l’aria di capire che se si fa ridendo viene meglio. Dice sempre il comm. Anania: «Incredibilmente, quello che per noi era patema di pensieri, per lui era un divago; restava tuttavia un ragazzo di coscienza e pieno di responsabilità. Quando gli affidavamo un lavoro eravamo sicuri che lo faceva bene, poi magari si faceva quattro risate per compiacimento. Adesso andava in guerra ed il nostro augurio era che nessun filare di bombe lo colpisse, che non temesse per la vita, che tornasse. Era tuttavia consapevole che andava tra seri di ignorati pericoli».

            Turi Turè di 82 anni contadino, carrettiere, soldato, partigiano. Mi fece una stupefacente narrazione della sua vita con una memoria con la quale personificava il passato inserendolo nel presente.
            Nel ’40 aveva vent’anni ed era militare di leva, fante del Regio Esercito Italiano dislocato in Fiume, con l’incarico di stalliere nella scuderia reggimentale. Continuava giuppersù il rapporto che aveva con gli animali iniziata dall’infanzia, dimestichezza dovuta al fatto che a casa sua c’erano sempre stati animali, cavallo, mulo o asino, aiutanti nei lavori agricoli o nei trasporti. L’esperienza di prima continuava a dare i suoi risultati sotto le armi.
            «Allo scoppio della guerra occupammo la Jugoslavia», mi disse «con l’esercito tedesco ci dividemmo il territorio. Noi fummo accolti con ovazioni e lancio di fiori mentre i nostri alleati furono subito guardati con sospetto. Tra noi italiani e la popolazione jugoslava si stabilì una certa simpatia, dopo tutto eravamo contadini tra contadini, accomunati dagli stessi problemi: il raccolto, le piogge, la cattiva annata e tutti i problemi legati all’agricoltura per cui l’ultima cosa che potevamo pensare era quella di cancellare la loro identità, anzi cercavamo di non dare la sensazione della fine della loro nazione».
            Così Turi Turè iniziò il suo racconto sulla guerra in Jugoslavia, mi raccontò come senza volerlo divenne un protagonista di rilievo, sempre mandato a raddrizzare situazioni disperate. Mi diede resoconti di battaglie con freddezza, con modestia e chiarezza.
Egli visse con pazienza una indimenticabile giovinezza che non lo adeguò alla metamorfosi che trovò rimpatriando ponendolo in un conflitto tragico tra la convergenza della tecnologia e quella contadina. Egli rimane una figura di un’altra età.
            Le notizie catastrofiche della guerra che perdevano, lentamente spegneva gli ultimi residui di spirito guerresco che gli ordini fascisti cercavano di mantenere. «Tutti i militari del mio reggimento rispettavano le usanze ed i costumi e loro ci offrivano la grappa di produzione casereccia ed il tabacco di loro coltivazione. Era gente simpatica, incline alla risata ed agli scherzi.
Il principio della fine iniziò con l’arrivo dei Carabinieri, la Guardia di Finanza e le camice nere dall’aspetto violento. La serenità scomparve in un niente. In un niente furono applicate le leggi italiane poco compatibili e poi le tasse; tasse sulla grappa e sul tabacco che rientrava nei Monopoli di Stato, inoltre le squadre fasciste irrompevano nelle abitazioni con il gusto scabroso delle perquisizioni. Sicuri del loro potere, depredavano, distruggevano e con l’atteggiamento di maschi arrabbiati ardivano oscenità alle donne. Questo comportamento ci indignava ma avevamo le mani legate, assistevamo impotenti alla distruzione metodica di quello che l’esercito italiano aveva protetto: cioè le buone usanze, le preziosissime buone usanze. Quegli italiani in camicia nera cercavano il divertimento piegando la dignità di una nazione. Le tasse di per sé suscitarono malumore, la vendetta serpeggiava, l’intervento dei fascisti provocò la rivolta. Nacque quasi simultaneamente in tutto il territorio una resistenza feroce. L’intransigenza fascista fu trattata al pari di quella tedesca. Noi dell’esercito ci sentivamo avviliti per il disonore che macchiava il nostro paese, ma l’ordine di frantumare la Jugoslavia era partito da Berlino e le nostre forze armate vennero poste alle dipendenze dell’alleato che apparteneva alla aristocrazia guerriera.
Furono mesi oscuri e preoccupanti, tuttavia notammo una cosa che magari avevamo paura a dire, cioè: le acque si agitavano attorno a noi, per ogni dove, tranne che per il mio reggimento.
Personalmente non avevo la vocazione all’assalto, mi sentivo contadino tra i contadini, solo che ero di un’altra nazione, credo che lo abbiano capito senza bisogno di spiegazioni, stavo nella scuderia con i miei animali un po’ più isolato prestando loro cuore ed attenzione che sembrava mi restituissero».

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«L’otto settembre ci fu il vivamaria. L’Italia dichiarò armistizio agli anglo americani e la stessa sera i tedeschi ci disarmarono e molto impacificamente ci chiusero in una frenza. Nello stesso periodo molti soldati italiani della Tridentina, della Venezia confluirono nell’”Organizzazione Partigiana Garibaldi” affiancandosi a Tito (Iosip Broz), già comandante dei ribelli clandestini. Altri volontari provenienti dall’Italia ingrossarono quelle fila. Si organizzava l’AVNOS cioè il “Consiglio Antifascista di Liberazione”, costituendosi la Federazione Democratica.
A ventitré anni si è impresosi per cui mi venne l’idea speranzosa di evadere, oltre tutto morivo di fame. Cominciai a studiare i percorsi delle guardie, i tempi nei quali effettuavano il giro elaborandone a mente i dettagli per cui, al momento opportuno me la scapolai appiattendomi al suolo e passando sotto i reticolati come in un normale percorso di guerra. Fuori mi ritrovai davanti alla catasta delle nostre armi ammucchiate, ne presi alcune e me le straminai tra i vestiti, lungo il corpo. Giunsi presso una lavanderia il cui personale femminile mi conosceva (era il mio punto di riferimento), per cui depositai le armi e continuai a fare la navetta onde avere un buon rifornimento di armi. Istintivamente sapevo che essere armati in quel particolare momento era una cosa importante. Tra noi nacque l’immedesimazione che “certi” italiani ed il popolo jugoslavo dovevano aiutarsi; ero tra quei certuni, lo ero per l’istinto contadino che dai connotati sa oppure non sa approfondire la conoscenza.
«Non potevo sapere se i miei connazionali fossero tra i partigiani, circolavano solo voci ed a me servivano fatti da poter dire l’ho visto io, il sentito dire era una situazione aleatoria ed insufficiente. Dalla lavanderia passai in un cascinale dove alcune donne sgranavano furmintuni e loro stesse quella notte mi misero in contatto con i partigiani che bivaccavano oltre il Sava non distante dal cascinale. Accolto come uno di loro, sospinti dalla intuizione contadina, mi condussero a Lubiana. Intanto il decreto di Badoglio mi faceva entrare nelle fila della resistenza con tutte le carte in regola senza indagine né sospetti.
            «Non ero pratico di armi, soldato sì ma salmerista, sapevo curare l’influenza ad un mulo ma non sapevo cosa fosse un fucile mitragliatore, nessuno me lo aveva mai insegnato per cui quando il capo mi ordinò di smontare e pulire le armi italiane provenienti dall’Africa non feci buona figura, non lo sapevo fare. Non mi credette e ci fu uno scontro tale che lasciava prevedere la fucilazione. Gli dissi il perché, dovetti essere convincente di fronte all’avvisaglia di morte. Il mio modo di dire e il mio modo di fare dovettero convincerlo. Lo assicurai che avrei imparato: non solo imparai ma imparai tanto bene e tanto presto che nessun’arma fu un segreto anzi sostituivo i pezzi difettosi sostituendoli con altri recuperati da armi perfettamente idonee al fuoco. Mi ero fatta un’armeria con i fiocchi. Poco dopo dovemmo portarci in una località per rastrellare vettovaglie, rubavamo ai poveri ma eravamo più poveri di loro, era un lavoro sporco ma indispensabile. Fui messo a guardia della gente del posto che giustamente protestava e non si capiva bene cosa volessero fare, se ribellarsi o fuggire, era una situazione complicata ed avevo l’ordine di sparare alla minima reazione. Ad un tratto vidi la carta malapigliata e sparai a pavento, cioè in aria, ricondussi quella gente all’ubbidienza senza essere feroce. Rientrato all’accampamento mi isaru n’allària in trionfo. Riconobbero in me un partigiano di gran cuore che aveva salvato gente di cuore, la loro stessa gente la cui reazione era stimolata dalle contingenze.
«Uno come me non poteva essere fascista, nemmeno in minimissima parte; ero una persona che messa all’opera aveva la mano callosa o delicata. Diventai nell’ambiente partigiano un pezzo grosso, quotidianamente ricevevo dimostrazioni di notevole apprezzamento.Combattevamo i tedeschi sempre feroci, erano combattenti tenaci ed io, come i miei compagni, lo eravamo ancora di più poiché consapevoli di combattere per una causa giusta, quella causa che fascisti e nazisti non concepivano: combattevamo per la libertà. Loro erano schiavi di regimi che ne ignoravano il concetto assillandoli con il culto della potenza. Noi partigiani italiani in Jugoslavia avevamo l’obbiettivo di riscattare il nostro paese con una sacrosanta lotta per la libertà ed impedirne la rovina».
           
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Turiddu continuava il suo racconto e mentre mi parlava mi tornavano alla mente alcuni versi trovati nel libro: “Il carretto racconta”: C’è la valanza di Diu ‘nnipotenti / chi pisa li piccati di la genti / vinnitta grida lu sangu nnuccenti / l’onuri e la virtù va sempre avanti.
            Continuava il suo racconto. «Sopra di noi ogni giorno passava un aereo postale ed io puntualmente lo salutavo con raffiche della mia 20 mm. Non so se lo colpivo, so che se la faceva franca; lui disturbava noi ed io disturbavo lui, era una storiella magari senza importanza, magari il pilota era un ex bravo ragazzo trasformatosi in combattente sotto la croce uncinata; questo era bastevole per me per volerlo sconocchiare a colpi di mitraglia. Dopo un giorno o due, piombarono sul nostro campo alcuni Stukas, uno di loro sganciò all’indirizzo della mia postazione una bomba quanto un tabbuto, era il contenitore per spezzoni incendiari. Sapevamo la micidiosità di quell’arma, ché lo avevano detto al comando, bastava quella per fottere la popolazione contenuta in una superficie pari ad un quinto di ettaro di terreno, la superficie del nostro campo. Pensai all’istante che scappare era inutile tanto valeva continuare a sparare, sparavo ed inghiottivo amaro inferocendomi per la mia inefficacia. L’ordigno cadde vicinissimo, si interrò, non esplose. Era incredibile che la precisione tedesca, nella fattispecie, desse risultati deludenti. I miei compagni che si erano buttati pancia a terra cominciarono ad emergere disorientati ed increduli di essere vivi, avevano espressioni strane tra il terrore ed il pianto; si sentivano oltraggiati per il trattamento bomba. Il trattamento bomba ci offendeva enormemente in quanto prevedeva una morte immediata, improvvisa senza combattimento, senza potergli dire: Figghiu di buttana ora t’ammazzu, a chi glielo dici, a uno che sbuca dal cielo, sgancia e se ne va cielo cielo prima che uno pensi una qualsiasi reazione, senza neppure dire sette contro uno, dove l’uno inesorabilmente crepa onorandosi di morire con l’arma in pugno. Dice il proverbio: Uno contro sette male stette, a parte che qualcuno dei sette sarebbe rimasto a terra. Raccoglievo le mie emozioni tornando a riflettere tra la morte in combattimento e la morte da bomba sganciata da uno che viene dal nulla e se ne va senza guardarti negli occhi, senza sapere né leggere né scrivere ti sgancia una bomba con la comoda intenzione dell’assuntumamento generale. Era una nuova strategia che manifestava la paura del nemico peraltro pericolosissima, dalla quale dovevamo proteggerci. L’attacco aereo, realizzato da eroi senza pericolo, ragionandoci era quanto richiesto per una guerra moderna, però significava che eravamo temuti.
«Ordinai che l’ordigno fosse coperto di paglia e che gli si desse fuoco per farlo brillare, non successe nulla, allora richiesi l’intervento degli artificieri che vennero l’indomani mattina. Notai che mi guardavano con ammirazione, chiamandomi compagno comandante. Era sostanza, non apparenza. La cosa non mi fece né caldo né freddo poiché ero né più né meno che uno di loro con i quali dividevo i triboli, la fame, il freddo e tutti i disagi che una guerra di montagna con i continui spostamenti potesse comportare. La puntualità e l’efficienza degli artificieri destò la mia ammirazione. Nel fu esercito italiano avrebbe richiesto tempi lunghissimi».


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«Una mattina, dalla radura del bosco, nei pressi del nostro campo, sbucarono pattuglie tedesche. Non avevano l’aria di essere mansi, probabilmente era una spedizione punitiva per l’inesplosione della bomba: era logico che prendessi l’iniziativa prima che l’azione volgesse a loro vantaggio. Dalla mia postazione aprii il fuoco con la mia fedelissima 20 mm. Risposero con colpi poco precisi ma tutt’altro che innocui. Notai che il loro vigore iniziale andava riducendosi, il successo tattico era dalla nostra parte. Visto che il nemico, smembrandosi, cercava di guadagnare il coperto del bosco, ordinai, per il giusto sfruttamento del successo, un’azione di rastrellamento ed annientarli con colpi di bombe a mano e raffiche di mitra. Gli uomini della mia unità, per istinto di morte, erano scappati ai quattro venti, ed al vento avevo ordinato l’attacco. In pratica avevo fatto tutto da solo. Era giusto continuare l’azione, sarebbe stata di effetto tonificante tanto per noi quanto per la popolazione tormentata e costretta a vivere nella paura. Chiaramente i miei sfasciallitti, non ancora abituati alla battaglia, si lasciarono cogliere e dominare dal terrore e se la videro dall’astraco. Io non ho una gran cultura ma ho un curriculum senza debolezze, sentivo dentro di me la necessità di rimproverarli; non sapevo cosa dire né volevo abusare di potere, allora come un fratello maggiore dissi che la paura è uno stato d’animo che porta danno, che io ho sempre un gran terrore che vinco con criterio di chi sa di avere un compito delicato. Dopo venne il comandante della brigata che, senza tante storie, li voleva far fucilare. Ebbi veramente paura che lo facesse. Eravamo in zona d’operazione ed applicava il Codice militare di guerra. Ebbi con lui una lunghissima e agitata discussione ed alla fine se la cavarono con un solenne e pubblico rimprovero.
«Il mio atteggiamento tanto nei riguardi della truppa partigiana, quanto con i comandi fece accrescere il mio prestigio. Seppi in seguito che in molte zone tenute dai partigiani etnici titoisti circolava il mio nome come esempio.
«Ci trasferimmo a Sarajevo. Il nostro compito era di espugnare la città in mano alla Wehrmacht e rifornirci di vettovagliamento da prelevare dai magazzini del nemico. La città era circondata da reticolati e da campi minati nonché da nidi di mitragliatrici opportunamente disposti. Fuori città c’era un parco di carri armati e autoblindo, residuato dell’esercito italiano, materiale a noi utilissimo che il comando ci assegnava. Non ci furono tentennamenti né mutamenti di pensiero tra noi, l’assalto era cosa da farsi appena realizzato il piano tattico. Sapevamo a priori che sarebbe stato sanguinoso. Non eravamo in molti, ma la nostra determinazione seminò il panico tra le file nemiche che, ciononostante, ci vuotavano addosso caricatori su caricatori e moltissimi colpi di mortaio seminavano morte tra noi; il disastro colpiva i nostri eroici uomini. I cecchini sceglievano diligentemente i loro obiettivi, sparando alle mine per cui, ogni nostra ondata, pagava un contributo di sangue. Potevamo scegliere se morire al di fuori della città sulle mine o attraversare gli sbarramenti e morire dentro la città con ferocia gaiezza. Coloro che non erano falciati dal fuoco restavano sospesi infilzati come spiedini sui reticolati. Combattevamo come pazzi per crearci corridoi, finalmente entrammo in città. Mentre godevamo di una certa aria di giubilo mi accorsi che ero stanchissimo e nel contempo eccitato. Fu in quel momento fatale che mi distrassi: venni catturato con sedici compagni».

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«Iniziò un breve periodo oscuro, una specie di prigionia all’insegna della fame, ci nutrimmo con quattro o cinque patate crude al giorno e gli interrogatori erano quasi sempre cruenti: sapevamo quanto fossero crudeli ma erano uomini della Wehrmacht meno implacabili delle SS. Quando venni interrogato capii che era una cosa fatta pro forma. Allora dissi che ero un pecoraio che senza sapere né leggere né scrivere fui catturato dai partigiani e costretto a seguirli, che mi avevano confiscato il gregge ed ero due volte disgraziato prima con i ribelli e ora con loro che mi trattavano come un nemico. Era tutta scena, ma dentro di me buttavo paventi per la rabbia di una cattura improvvisa provocata da qualche minuto di distrazione, per una grandissima fame ed una grandissima paura. Sommando tutti questi sentimenti scaturiva una sorta di pensiero ostile per quel nemico che restava indifferente alle mie vibrate proteste che sembrava lieto di umiliarci. Vero che eravamo irregolari per cui ci consideravano “banditen” ma eravamo comunque esseri umani.
«Nel contempo le zone di operazioni si erano spostate in altre aree della città, sentivamo il rumore della battaglia, ma non potevamo sapere che, avendo bonificato vaste superfici, i rinforzi arrivavano regolarmente e che i combattimenti volgevano a nostro vantaggio.
«Con alcuni compagni la mattina dopo fui legato per i polsi con un cavo telefonico e senza tante cerimonie fummo condotti in uno spiazzo per l’esecuzione. Ci fucilarono! Venni trascinato a terra dal compagno che mi precedeva, che cadde come “un morto di cent’anni”. Ma ero incredibilmente illeso. Sebbene fossi stato coperto di sangue non avevo alcun graffio; dovevo sembrare crivellato al punto che al controllo risultai morto e, tale fui dichiarato. Il plotone d’esecuzione ci lasciò per terra e se ne andò, poco dopo giunse una squadra di fascisti jugoslavi. Questi erano gentaglia che al solo vederli suscitavano indignazione: vennero per scavarci la fossa; fecero castelli d’armi ed alla base deposero gli zainetti con bombe a mano e caricatori, piazzarono quest’armamento accanto a noi “cadaveri”, loro scavavano una decina di metri oltre. Sentivo il loro sghignazzare osceno e fu in quel momento che con molta cautela aprii un occhio, poi l’altro quindi girai la testa molto, molto lentamente per vedere la “situazione”. Erano individui spaventosi, con barbacce nere ed incolte. La ferocia del loro carattere è da ricercare in una connaturata stupidità che li rendeva individui estremamente pericolosi, capacissimi di colpirsi tra loro alle spalle senza un autentico perché. Date ad un cretino un’arma, una qualche sensazione di potere e si trasforma immediatamente in una miscela esplosiva utilissima come manovalanza bellica. Era una marmaglia capacissima di imboscarsi, che solo per comodità aveva ceduto il passo ai tedeschi. A quel punto cominciai a traccheggiare lentissimamente per slegarmi i polsi e con movimenti appena percettibili feci assumere al mio corpo una posizione pronta per lo scatto. La gran fame patita aveva alleggerito il mio corpo rendendolo più agile, inoltre gli avvenimenti degli ultimi mesi avevano sensibilizzato positivamente il mio sistema nervoso per cui mi sentivo scattante e pronto a qualsivoglia azione. Quello era il momento per applicare queste facoltà. Mi restava di analizzare le distanze tra me e gli scavatori, tra me e le bombe ed infine la distanza, peraltro scoperta, tra dove ero ed il bosco. Poi il futuro lo ponevo in braccio a Giove. Il più velocemente possibile risuscitai, presi quante più bombe a mano possibile e le scagliai a quegli scavatori cogliendoli di sorpresa. Fuggii come una lepre, non seppi quanto ne avessi ucciso o no. Non ebbi la minima ansia da rimorso, importante era che avevo salvato la vita, il resto era irrilevante. Appena allo scoperto, a qualche centinaia di metri dal bosco, mi fecero segno con qualche colpo di mortaio mentre una camionetta con due uomini a bordo cercava di raggiungermi. Guadagnai il bosco che ero in una zappa d’acqua di sudore; caddi letteralmente tra le riserve partigiane, erano i rincalzi giusto sulla linea di partenza. Questi attaccarono la camionetta incendiandola ed uccidendo i due occupanti. Stranamente quando mi presentai si misero sull’attenti. Non sapevo che ero avanzato di grado mentre loro lo sapevano. Mi presero con loro e ci rimasi per circa un anno. In quell’arco di tempo si moltiplicavano le dimostrazioni di stima.
«I bravi titoisti, vedendo la mia passione per gli animali mi proposero per un corso di veterinario, allora mi ritrovai con due incarichi: comandante tattico e comandante di un ambulatorio veterinario con un paio di assistenti.
«La guerra finì, molti italiani rimpatriarono, io rimasi. Non ci voleva molto per capire, per indovinare la ventura, avevo visto giusto. Fui convocato presso una cellula di partito dove mi illustrarono per filo e per segno, con notevole semplicità, il verso e il controverso. Il verso contemplava tutti i meriti da me acquisiti, erano i “diritti di guerra”. Mi corrispondeva una casa con podere, lavoro, dignità e la fierezza che un ex combattente deve avere, mi si davano inoltre la facoltà di farmi raggiungere dalla famiglia. Tutto ciò mi venne spiegato in una maniera talmente semplice che mi sembrava di vedermelo davanti già realizzato quel programma. Il controverso recitava che: ero liberissimo di rimpatriare ma che nella fattispecie perdevo tutti i diritti sopra accennati. Dopo duemila anni ritornava la “parabola dei talenti”.  Zero e va zero un cantaro e venticinque. Fui tanto cretino che preferii rimpatriare. L’unica cosa che potrei dire a mia discolpa era che mancavo da quattro anni. A casa fui accolto come un figliol prodigo ed ebbi lì per lì la sensazione di aver preso la via giusta. Poco dopo, tranne la mia famiglia, ebbi la chiarissima realtà di trovarmi in un ambiente ostile. Non trovai nessuno che riconoscesse la mia campagna partigiana. Nemmeno il partito mi prese in considerazione per cui scoraggiatissimo compresi che avevo perso l’asino e le carrube. Il mio paese diventava ogni giorno la nazione delle carte bollate, dell’articolo n.… comma.… paragrafo…. ed una valanga di chiacchiere che né facevano cogliere e nemmeno raccoglievano. Vidi cose da farsi la croce con la mano manca. E poi ero un infame poiché comunista quindi un senza Dio per cui automaticamente privato, volente o nolente, di tutti gli annessi e connessi per definirmi un galantuomo. Però era un galantuomo quel farabutto che mi vendette la mula tanto malata che mi morì subito dopo di angina pectoris. Mi ero fidato al punto di comprare la gatta nel sacco. Era un’altra brava persona timorata di Dio, di quelle che ogni domenica vanno in chiesa, quell’uomo che mi rifilò un mulo col marchio del regio esercito italiano, era un animale vecchissimo che in breve mi morì. Era un insospettabile galantuomo quell’altro “signore” che mi vendette un’asina asmatica. Se avessi detto che alla Jugoslavia la truffa era considerata un gran reato sono certissimo che mi avrebbero risposto: Allora perché cazzo sei tornato?  Mi sarebbe venuto di rispondere: Venni perché era da quattro anni che mancavo da casa ed in questi quattro anni non ero certamente attirato dalla morte per cui, per fatalità ero vivo e cercavo la pace nel mio paese, tra la mia gente. Chi cazzo si poteva immaginare di ricevere questa punizione per benservito? L’Italia era un paese solo di grandi chiacchiere e di un immenso disordine.
«Ereditai dalla buonanima di mia madre mezza casuzza. Non ebbi il minimo sentore di benessere, anzi contrastai con ulteriori seccature. L’appartamento era abitato da un galantuomo che non pagava pigione, io dovetti pagare un avvocato per sfrattarlo. Ogni cosa per me era come un cravunchio sulla vallera, verosimilmente che ad ogni danno si aggiungeva la beffa. Mi sentivo rincretinito a causa di questi insuccessi, non avevo lavoro, privato del diritto di un reinserimento. Vivevo in uno strabilio col maligno presentimento che un qualche cosa di avverso potesse accadermi da un momento all’altro. Quando ero in guerra e vivevo continuamente situazioni di morte immediata, parola d’onore che stavo meglio. Questo pensiero apparentemente assurdo mi ritornava con frequente amarezza.
            Un giorno mio padre mi disse: “Chi pisci pigghi?”. Per uno strano gioco del destino la Jugoslavia mi aveva accolto e l’Italia mi respingeva. Perso per perso andai in montagna, in una nostra proprietà peraltro infruttuosa per scavare iacumeddi, che mischiate ad altri legni, tutti tagliati a misura ricavavo la materia prima per realizzare carboniere. A cravuniera deve essere una cupola, quindi cava la cui struttura autoportante è giusto costituita dai legni intrecciati tra loro dopo rivestita di terra accupunandola, ma non troppo, da sembrare un grosso mammellone alimentato dall’alto attraverso un foro alla cui base si concentra il fornello. Accesa richiedeva una combustione costante ed uniforme. La carbonizzazione del legno avveniva tra i cinque e i sette giorni, richiedeva attenzione giorno e notte poiché la combustione provocava piccole frane interne per indebolimento della struttura con occlusione degli sfiatatoi. Ero troppo giovane e distratto per la piega amara che assumeva la mia vita nuvoliata di nero da sembrarmi attirata nel negativo per cui mi sfuggiva un concetto compreso dopo anni. Lo strano significato occulto che racchiudeva quella creatura modesta e silenziosa che è la carboniera cioè i quattro elementi della natura: terra, fuoco, aria, acqua. L’acqua è contenuta nel vapore denso che uscendo dagli sfiatatoi talvolta emetteva un leggero e gentile sibilo. Una volta fatto il carbone lo vendevo, col ricavato compravo pane e pasta. Era un lavoro ingeneroso che mi faceva perdere il sonno, richiedeva molto e davo il minimo appena sufficiente per una sopravvivenza modestissima. Dopo gli anni in cui ero stato vicino alla morte, continuavo una vita da tribolo in uno scuru cchiù scuru della morte stessa. Quello che per i comunisti era lealtà, per la politica del mio paese era inganno ed indifferenza. Perché cazzo sono venuto? In guerra fui un combattente che aveva la coscienza del proprio comportamento tanto nel piano morale quanto in quello tattico, non personificandomi nell’oggetto di ammirazione o per riconoscimenti. Rimpatriato mantenni la stessa linea di condotta, ma incredibilmente si creavano situazioni opposte: gli italiani trattavano me italiano come un nemico.
            Seguivo la politica da fammiriri e vidi rispuntare i fascisti sotto un’altra pelle da fammichianciri. Ero stato dignitosissimo carrettiere, alla Jugoslavia un sottufficiale partigiano ed ora ero un morto di fame qualunque fabbricante di carbone. Vendetti la mia porzione di casa a bonebboné e col ricavato di lire trentamila decisi a bonebboné  di andare al nord. Chiesi alla biglietteria un treno che mi portasse il più lontano possibile. Dissi: “Fin dove arriva questo treno?”, talmente ero disfizziato, lo sconforto mi fece fuggire. Capolinea Venezia. Mi rifocillai e poi via verso Fiume! Attraversai l’Isonzo presso Gorizia, non sentivo vergogna di dire che volevo scapolarmela in Jugoslavia. Tramite operai pratici di espatri riuscii ad attraversare il confine in una zona sorvegliata dagli inglesi. Ero allo scoperto quando vidi una jeep che correva verso di me, non ero nella condizione di nascondere il sole con le mani, vivendo in un momento veramente stizzoso; dopo mi accorsi che inseguivano delle galline, allora perso per perso, con la geniosità siciliana mi associai al loro spirito sportivo che sapeva di brodo di pollo incitandoli a prendere tutti i polli che volevano, essi mi ringraziarono e dopo una discreta cattura di galline se ne andarono vociando allegramente. Io proseguii il mio viaggio. Chiedevo con fare cauteloso dove potessi trovare una cellula di partito, mi indicarono una bottiglieria frequentata da compagni. Usciva dal locale un anzianotto che chianu chianu travuliava di andare a terra tanto ubriaco era. Gli chiesi dove fosse la cellula di partito più vicina, mi rispose: “A casa mia”. Prima di entrare naschiai cautelosamente. Entrai e mi presentai; mi fecero una festa da sentirmi strambiato di occhi, d’orecchi da non sembrarmi vero. Dissi che a Zagabria avevo la ragazza che dovevo sposare. Non c’era bisogno di spiegazioni né di carta bollata. In autocarro mi condussero a Lubiana dove fui alloggiato in un ex convento adibito a centro di smistamento profughi. Esibii i documenti di ex maresciallo partigiano, furono cordialissimi e mi considerarono come un ospite di riguardo del centro dove avevo la facoltà di entrare e di uscire a mio piacimento. In quella struttura era alloggiata gente di tante nazionalità, francesi, tedeschi, polacchi ecc. e sebbene parlassimo lingue diverse non c’era aria di torre di babele anzi sembrava spirasse un clima di cordialità. Nel mio settore d’alloggio incontrai una signora tedesca madre di tre bambini educatissimi, si intuiva che erano persone molto per bene. Quasi con vergogna la signora mi chiese se potessi e se volessi comprare un qualcosina di appetitoso in una salumeria vicino al centro; chiaramente non voleva privare i bambini di qualche leccornia poiché vivevano senza consolazioni quindi mi misi a disposizione, erano momenti non di incertezza ma di disagio, il disagio nasce dall’assetto del dopoguerra. Come non premurarmi a farle la cortesia. Quando tornai erano contentissimi, al momento di porle la rimanenza delle monete e le stavo contabilizzando quanto speso, essa voleva che me le tenessi a titolo di regalìa che era lontanissima dalla mia mente; non mi avrebbe mai sfiorato il cervello un pensiero così basso, anzi, se fossi stato nella possibilità, sarei stato felice di aiutarli gratisamoredei, né quello che facessi fosse stato da Libro Cuore; era una forma come un’altra per smorzare le nostre inquietudini».

Una mattina trovò i loro nomi tra i partenti per il giorno seguente, ebbe una forte emozione poiché con quel treno terminava la sua avventura. Tornavano a casa.
«Quando andai per salutarli li trovai seduti tra un gran numero di valigie e valigette, mi fu spontaneo offrirmi per accompagnarli alla stazione; era giusto che dessi una mano. L’espressione della frau si rilassò. Li aiutai a sistemare i bagagli sul treno e quando il convoglio si mosse ci stringemmo la mano. In quella sincera e solidale stretta di mano ebbe l’infelice idea di rifilarmi una granfata di soldi. Rimasi sorpreso e amareggiato, prima che realizzassi era troppo tardi. Le stranezze di alcuni aspetti della vita: quello che era giusto per lei era ingiustissimo per me.
«Partii anch’io, mi recai a Marasca tra Spalato e Selenico sull’adriatico dove mi presentai alla sezione ex partigiani, anche qui fui accolto con una cordialità straordinaria. Si meravigliarono della padronanza che avevo della loro lingua, evidentemente ciò spianava i nostri rapporti. Mi proposero se volessi lavorare da civile, era quello che volevo, mi chiesero quale fosse la mia specializzazione; avevo fatto il contadino il carrettiere, ero esperto in veterinaria, ultimamente carbonaio e sebbene fossero stati lavori apprezzatissimi, senza superbia, spinto da una esigenza di novità dissi scioccamente che ero autista. Mi accorsi di avere detto uno sproposito, tuttavia per una serie di circostanze la mia teatranteria ebbe esito felice: andai a lavorare presso una segheria dove rimasi per sette mesi togliendomi ogni preoccupazione. Era un ambiente simpatico, scherzavamo ma lavoravamo sodo. Riemerse il mio temperamento sciampagnone che mi faceva benvolere da tutti. Dopo ebbi un piccolo incidente ad una mano, in ospedale mi suturarono con punti. Durante la mia degenza scrissi a casa: scrissi cose che per i miei dovevano essere inimmaginabili, cose da mille e una notte. Scrissi che guadagnavo tanto in un giorno da potere comprare chili e chili di pane ed altrettanto di carne, che vivevo nel benessere, vestito bene e soprattutto ero un uomo veramente libero. All’estero avevo trovato quello che la mia patria mi negava e inoltre quello che mi dava non toglieva. Erano considerazioni amare ma inevitabili. Ricevetti la risposta, ed in quella lettera mi si proponeva di emigrare per l’America. Venni colto da una incautelosa insurrezione di novità, stupidamente accettai la proposta, l’idea di andare negli USA divenne subito una visione di sogno ad occhi aperti, tanto era il desiderio di andarci.
            «Parlai con il mio datore di lavoro dicendogli che per motivi di famiglia dovevo assolutamente tornare in Sicilia. Non desideravo fare una mala figura né mi sentivo in colpa, tuttavia quel galantuomo trasecolò come se avesse letto nel mio cervello e quasi sospettò che fossi una spia, ciononostante mi rilasciò i documenti, il benservito e rimpatriai convinto con l’ingenuità di iniziare una vita migliore.
            «Non potevo minimamente immaginare che quel sogno di desideri non solo doveva restare un sogno ma era l’inizio della mia fine. Sequenze di avvenimenti determinarono il mio destino costringendomi ad una vita non certamente invidiabile.
            «Nell’attesa che il Consolato Americano di Palermo mi concedesse il visto per l’espatrio acquistai una mula. Riemergevano tanto il fascino dell’animale tanto quello della vita sulle strade, ridivenni trasportatore di limoni, fieno, sabbia e quant'altro; quotidianamente andavo a Palermo, partenze di notte, scaricavo e ritornavo immediatamente, attaccavo le redini al barrone, disponevo un po’ di paglia in un sacco e m’addormentavo sulla cassa del carretto. La mula conosceva la strada, faceva il percorso con la sua andatura serena e si fermava davanti alla stalla. Si chiamava Ciccina quest’animale che aveva una sua bellezza, soprattutto una certa sensibilità. La colmavo di attenzioni che sembrava gradisse; aveva sei anni, era giovane e resistente. Ancora non c’erano molti automezzi, il carretto rimaneva l’unico mezzo di trasporto, la sua epoca sarebbe durata qualche anno ancora poiché travolto dai Diesel, dalla tecnica, dalla velocità o da certi furgoncini Piaggio che con larve di trasferimento in antitesi alla nuova moda vantavano l’applicazione di frammenti di casse di fuso e se ne uscivano con scritte tipo: “Solo Dio è grande” oppure “Suona che ti farò strada”.
            «Un giorno fui avvicinato da due persone mai viste prima, mi proposero con certo garbo il trasporto di barili di sarde sotto sale per Palermo. Alle tre del mattino cominciai a caricare. Ad un tratto, non saprei dire perché o come, avvertii così, summo summo, che potesse essere un “guàrdati perché è merce rubata”. Temendo un inevitabile coinvolgimento nel furto scaricai immediatamente. I due non pipitiarono, né fecero musione, mi chiesero soltanto di tacere sul fatto. Su questo non c’erano  né ci sarebbero stati problemi.
«Certamente qualche tragediatore infame mi fece una spiata con l’aggiunta della falsa testimonianza, sostenendo un quattro per cinque di cose inesistenti. Venni arrestato con l’accusa di correità in furto. All’interrogatorio erano quattro i carabinieri preposti e furono quei quattro galantuomini a fottermi di botte. Schiaffi, pugni e calci indirizzati alle parti basse che, giuro, non ne volevo più. Infierirono selvaggiamente accusandomi inoltre di reati che non avrei potuto commettere poiché all’estero. Questi comportamenti fecero ritornare alla mia mente l’operato dei Reali Carabinieri in Jugoslavia nel ’42. Il processo fu una barzelletta, fu una scena popolata da persone ridicole, mi considerarono complice. I magistrati non vollero ascoltare nessuna chiacchiera a discolpa per cui fui condannato ad anni quattro. L’avvocato citava in continuazione un certo Fedro e una certa storia: “Lupus et agnus”; si esprimeva in lingua colta che mi rifiutavo di capire tanto ero seccatissimo al punto che di istinto me ne sarei uscito  alla bandito Giuliano. Era una assurdità di scena, era incredibile che ci fossero giudici talmente pressappochisti e terribili che avevano la facoltà del buono e del cattivo tempo, che potessero giocare con la libertà degli uomini. A questo punto compresi che in Italia non ci si poteva vivere perché viverci era un problema, era il paese delle chiacchiere e basta. Meno male che stavo per andarmene in America. Questa andata all’America rimase come il suonnu di Catarina, cioè quella cosa che rimane un sogno, un amarissimo e irrealizzato sogno né più e né meno come il sogno di Catarina, personaggio inesistente che tuttavia rimane ammuntuato come emblema della frustrazione.

            «Dopo un gran salire e scendere scale, diceva l’avvocato, che nel frattempo si era mangiata una legittima, dimostrò che ero innocente, solamente che ci voleva del tempo, tanto in galera c’ero io e, meno male che tacque sul fatto che ero stato partigiano di Tito, che per anni ero stato con la morte a portata di mano, che avevo avuto riconoscimenti a tinchitè che ero stato un “paladino della libertà”. Meno male che si stietti mutu in quanto si sarebbe conzata una di quelle insalate veramente amare, chiaramente amare solo per me. Molto controproducente che un ex partigiano comunista senza Dio, equalmente senza onore, osasse aspirare al riconoscimento di meriti da richiedere la libertà. Meglio non dire cose che avrebbero gravato sulla mia vita.
            «Fui rimesso in libertà. Che strana parola questa “libertà” detta in italiano tra italiani. Pur non di meno fui messo in libertà dopo anni due e giorni venti. Stavo per ricorrere in Cassazione per inseguire il sogno americano quando ci fu l’indulto che mi liberò completamente. Purtroppo rimasi con la fedina penale macchiata. Ovviamente la commissione esaminatrice per la mia pratica di espatrio la respinse poiché tra l’altro io, nome e cognome, paternità, maternità, luogo di nascita e indirizzo risultavo comunista con la fedina penale macchiata. Insomma tirate le estrazioni rimasi inchiodato in patria, respinto dalla società, però “libero”. Questo almeno lo posso dire: sono libero!
            Ricominciai a lavorare con Ciccina. Poi ad una festa di paese vidi la mia Grazia che mi fece sotto la botta un gran sangue di innamoramento, la corteggiai in silenzio e con grandissimo rispetto le parlai. Nel frattempo mi giunse una specie di liquidazione tanto di servizio militare quanto per le prestazioni partigiane in ragione di lire cinquantamila. Dopo venne il prefetto dei partigiani serbi, mi conferì un diploma, medaglia e pronunciò parole di riconoscimento. Mi sembrava cosa da non crederci dopo i calci in faccia che mi ero buscato. Durante la manifestazione notai l’espressione finta estatica falsissimamente devota di ammirazione del mio reverendissimo signor parroco, questa alla prima occhiata, alla seconda occhiata mi accorsi che sudava veleno.
TRADUZIONE dell’onorificenza: «Il Presidente della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia Josip Broz Tito in occasione del ventesimo anniversario della vittoria della coalizione antifascista per la partecipazione alla lotta della liberazione del Popolo jugoslavo e per la comune contribuzione alla vittoria contro il fascismo per l’accostamento e l’amicizia tra i popoli, consegna a Compagno d’Armi la «Medaglia Ricordo» in segno del riconoscimento e della riconsocenza.
 IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA JOSIP BROZ TITO. 8 marzo 1971»


* * *

Nota di Enrico Musso

La struttura espressiva delle parole di Salvatore Palazzolo, che affettuosamente preferisco chiamare Turi Turè, nasce da un forte sapore di natura. Di Turi Turè possiamo parlare di eroismo puro, conseguentemente di pensiero che lo lega alla sua attività contadina-carrettiera, alla guerra partigiana, al suo ritorno quando trova una Sicilia sfigurata, metamorfosi che lo fa precipitare nella disperazione sino alla guerra.
            Egli esprime se stesso con dignità, senza alzare o abbassare i toni, esprime i suoi affanni rincorrendo continuamente un mondo migliore che gli sfugge nel labirinto degli eventi dilatato da compressioni oniriche. Tuttavia questi triboli non hanno intaccato la sua risata. Rimane il protagonista di mondi impossibili che lo hanno arricchito enormemente di un conoscere che è vivere.
            Vorrei che lui, come il mio amico Calogero, o il carrettiere dalla faccia di greco, dessero l’affidamento della storia nelle scuole, prendendo “in putire dei pusi” la conversazione con i giovani, usando il loro linguaggio, le loro parole plastiche, matrici di una lingua intensa oramai perduta per strada. Pronti e volenterosi, i nostri carrettieri.
            Sono i carrettieri che andarono strade strade, quelli che venendo la notte cercavano un posto, un fondaco dove fermarsi. È il pathos dimenticato della loro pazienza, un mondo cancellato dalle metamorfosi, travolto dal progresso. Sono l’espressione tardo-romantica di uomini che  tuttavia rappresentano un temperamento virile e temerario, protagonisti di vite talvolta rischiose per incontri con banditi, situazioni da renderli coraggiosi, disposti a difendersi sino a farsi giustizia da sé, insofferenti al sopruso o a qualsiasi offesa. Questi sono i carrettieri siciliani dai caratteri fondamentali che ne distinguono la categoria tale da stabilirne una sorta di codice fondato sul rispetto, sull’onore.
            Questo è il profilo del carrettiere siciliano; vale benissimo per Turi Turè, mio amico, che seppe comportarsi bene tanto sulle strade quanto in guerra, paladino dell’era moderna che ha lottato per il bene contro il male: per la libertà!

Oggi Turi Turè non è più con mio grandissimo rimpianto.
Enrico Musso